le interviste
Fascisti (1943-1945)
Adalberto Baldoni, intellettuale di area missina, giornalista parlamentare
nonché redattore capo del Secolo d'Italia, dirigente del MSI-DN varie volte da
lui rappresentato nel Consiglio comunale di Roma. Saggista di successo, ha
licenziato alle stampe opere quali "Noi rivoluzionari, storia della destra
italiana dal 1960 al 1986"; "La notte più lunga della Repubblica (la storia
della lotta armata in Italia dal 1968 al 1990)"; "Fascisti (1943 -1945)".
Quest'ultima ha raggiunto le librerie solo qualche settimana fa già suscitando
un notevole interesse fatto di commenti molto positivi; di reazioni dolci, agre
e agrodolci; di dibattiti forse un po' disordinati ma appassionati. La stiamo
leggendo con grande diletto, attirati dalla vastità di una documentazione non di
rado inesplorata, inedita; e dalla serietà con la quale l'Autore si è impegnato
nel compito di ravvivare la memoria storica, non soltanto del suo ambiente
politico, intorno a una vicenda -quella della Repubblica Sociale Italiana- che
ancora attende di essere analizzata, studiata, valutata con quel necessario
distacco che solo può derivare dalla collocazione in una temperie psicologica
placata dalla consapevolezza piena che da quegli eventi siamo ormai lontani da
mezzo secolo e le generazioni frantumatesi ed affrontatesi in una guerra civile
feroce ora in gran parte dormono in pace il sonno dei giusti. E ciò
indipendentemente dalla circostanza che siano periti per mano fraterna o
straniera.
Naturalmente la diversità di affiliazione culturale e politica nostra non può
non generare rilievi e obiezioni al taglio conferito dall'Autore ad un testo
che, complessivamente, riscuote tutto il nostro apprezzamento. Ma su ciò ci
esprimeremo prossimamente, Direttore di "Tabularasa" permettendo. Per ora
riferiamo su di una conversazione avuta con Baldoni mentre è in corso la lettura
delle 350 densissime pagine e dopo aver preso visione di un certo numero di
recensioni.
* * *
«La imbarazza questo colloquio con un commentatore di sinistra e della
Sinistra?»
«Assolutamente no! Perché mai dovrebbe imbarazzarmi? Non dimentichi che "La
notte della Repubblica" è un libro scritto a quattro mani. Le altre due sono di
Sandro Provvisionato, un giornalista di sinistra la cui esperienza
attivistico-ideologica affonda le radici nel Sessantotto».
«Perché ha pubblicato questo libro?. È stato sollecitato solo dallo scoccare del
cinquantesimo della fondazione della RSI, oppure occorre scorgere altre
componenti nel suo divisameno?»
«È vero. Nel prendere la decisione di trattare della RSI non ho obbedito a un
unico impulso. Vede, non si possono avere cognizioni esaurienti circa le radici
della destra in Italia senza esaminare attentamente ciò che è successo dalla
caduta del Fascismo al giorno tragico di Dongo. Di più: per approfondire ciò che
è stata l'Italia dal 1945 ai nostri giorni è d'uopo investigare il ciellenismo
bellico e il ruolo in esso avuto dal PCI».
«Ma, al di là delle forme, delle liturgie e delle apparenze, che c'entra -per
quanto attiene alla sostanza delle cose e della storia- la destra con la RSI?
Che poteva esserci di destra in uno Stato il quale, con il suo Capo anzitutto,
si era fatto un punto di onore di socializzare integralmente l'economia del
Paese? Il segretario del suo partito ignora totalmente la parola socializzazione
e si limita a parlare anonimamente di funzione sociale del capitalismo».
«Per carità, non mi trascini in un contenzioso filologico-storico-politico
defatigante e sterile. Sia chiaro: non temo un confronto su questo terreno e,
certo, non mancherà occasione per darvi luogo. Al momento, però, preferirei ci
attenessimo all'...ordine del giorno concordato. Almeno così non facciamo
confusione».
«D'accordo. A parte l'intrinseco valore riconosciuto già da coloro -camerati e
avversari- che lo hanno chiosato, quale dato strategico è possibile riconoscere
al suo libro?»
«Io mi sono messo alla macchina da scrivere con l'intenzione di mandare in
tipografia pagine ispirate ai valori del dialogo, del confronto, della
discussione pacata, della solidarietà fra italiani. E senza, ovviamente, dar
luogo a grigi fenomeni di pentitismo o di pur sottile e graduale rinnegamento di
quella remota ma vivida esperienza sociale, guerriera, culturale,
rivoluzionaria, nazionale che fu la RSI».
«Lei crede che, volendo, si sarebbe potuto evitare la nascita della Repubblica
Sociale Italiana?»
«Guardi, la RSI era ineludibile. E non solo per i due motivi di fondo già
largamente conosciuti -il recupero dell'onore militare e diplomatico,
compromesso di un regime che impegna solennemente la parola del Capo dello Stato
e del Capo del Governo all'alleato mentre tratta una resa dalle forme e dai
contenuti infamanti, proditori; l'utilità del ritorno alla guida del Paese di un
uomo del prestigio di Mussolini, l'unico in grado di impedire la famigerata
polonizzazione dell'Italia-, ma anche perché era stata variamente e in misura
ampia anticipata da reparti e segmenti delle tre armi che, rifiutata la resa,
avevano continuato a battersi a fianco delle truppe germaniche. Orbene, come non
avvertire l'esigenza di dare sigla statuale e leadership politica a questi
combattenti? Se non altro, per evitare il loro organico inquadramento nelle
FF.AA. del Reich».
«Quanto tempo ha impiegato per stilare il suo terzo volume?»
«Quattro anni, fra raccolta, esame, selezione del materiale documentario e
scrittura del testo».
«Baldoni, lei parla di questa ricerca come di un contributo all'avvio di una
fase nuova, caratterizzata da scioltezza di rapporti fra le due culture che fra
il '43 e il '45 entrarono in sanguinosa rotta di collisione da Napoli in su. Che
prove porta, scusi tanto, di tale intenzione?»
«Le prove sono anzitutto nella terza pagina del libro, dove campeggiano tre
dediche. La prima è per i "ragazzi repubblicani fucilati a Firenze dai
partigiani sul sagrato di Santa Maria Novella nel settembre 1944". La seconda
per i "giovani partigiani Giancarlo e Giovanni Osmani, caduti in combattimento
sull'Appennino modenese nel giugno 1944". La terza per "tutte le vittime della
guerra civile in Italia". Va da sé che se avessi voluto scrivere in termini di
rottura tutto avrei fatto meno che aggregare alla prima la seconda e la terza
dedica».
«Ammetto la validità, l'importanza, di questi messaggi. C'è altro?»
«Sì. L'ultimo, brevissimo capoverso di una introduzione frutto della mia penna.
Testualmente recita: "La mia speranza è che questa nuova, impegnativa fatica
susciti un costruttivo dibattito tra chi ha sete di verità, di giustizia, di
pacificazione"».
«Dalle sue indagini storiche è emerso il dato dell'esistenza, nel Regno del Sud,
di un fenomeno in qualche modo e misura assimilabile alla Resistenza?»
«Risposta affermativa. Il materiale relativo al resistenzialismo fascista l'ho
utilizzato per il terzo capitolo intitolato "Il Fascismo clandestino". In esso,
per esempio, mi occupo del piano per rapire Benedetto Croce».
«Esiste un collegamento fra i suoi tre libri?»
«Soltanto sotto il profilo documentativo e metodologico».
«Senta, Baldoni, secondo lei Mussolini quante guerre ha combattuto nel corso dei
seicento giorni gardesani?»
«Tre: una contro gli angloamericani, un'altra contro la Resistenza, una terza
contro i tedeschi. Scopo di costoro era la minimalizzazione o, addirittura, la
riduzione a pura facciata, a realtà statuale di princisbecco, della RSI. Ciò,
ovviamente, al fine di concentrare nei comandi militari, economici, diplomatici,
la totalità di un potere oppressivo, funzionale ai soli interessi della Germania
nazista».
«Ci pensi bene. A me pare ne abbia combattuto quattro».
«E quale sarebbe la quarta, scusi?»
«Quella contro l'ala del partito contraria alla socializzazione e diffidente
verso quella che riteneva eccessiva, radicale, perfino classista, dei princìpi
socializzatori. Un uomo come Francesco Grossi, sindacalista e da sempre membro
della sinistra del Regime, in una raccolta di ricordi si diffonde sulla sua
opposizione -manifestata in seno ad un organismo ad hoc di cui faceva parte-
alla prevalente concezione estensiva della socializzazione. E dire che detta "estensività"
era patrocinata dallo stesso Mussolini, ormai definitivamente contrario a
pratiche riformiste. Personalmente, sono anche persuaso che sulla
sproporzionatissima condanna a trent'anni di reclusione inflitta a Tullio
Cianetti dal tribunale di Verona -per un voto al Gran Consiglio del 25 luglio
ritrattato poche ore dopo- abbiano influito le pressioni di coloro che temevano
il ritorno nel PFR di colui che era stato nel Ventennio il leader del
rivoluzionarismo sindacalista più coerente e da sempre vi aveva incarnato l'idea
stessa della socializzazione».
«Non parlerei di un quarto fronte. Gira e rigira -e pur con l'avvio-concreto di
un ampio processo di democratizzazione- anche a Salò l'ultima parola era
appannaggio di Benito Mussolini. Diciamo, allora, che quella di Grossi e altri
era una posizione manifestata all'interno di una dialettica di partito e di
regime. Nessuna guerra, dunque. Costoro neppure si sognavano di contrapporsi
frontalmente al Duce».
«Lei si interessa anche della Resistenza. Ancora non sono giunto a questo
capitolo e darò un giudizio di merito solo ad esaurimento dell'intero testo. Mi
anticipa la sua interpretazione?»
«Mi limito a farle presente che nella Resistenza ampia e forte era la egemonia
che vi esercitava il PCI. Né poteva essere diversamente, essendo quello
comunista il partito già dotato di una strategia a lungo termine. Cosa di cui
era sprovvisto, per esempio, il Partito d'Azione, per di più molto confuso
ideologicamente. Tuttavia gli azionisti potevano vantare una presenza partigiana
niente affatto irrilevante».
«Senta, Baldoni, adesso le parlo da ricercatore relativamente ai temi di cui
veniamo discorrendo. È mia sensazione che nella RSI siano esistiti tre filoni.
Il primo: rivoluzionario-socializzatore e nazionale-popolare; nonché
pacificatore e movimentista. Il secondo: militare-patriottico. Il terzo:
filonazista e collaborazionista. Lei concorda?»
«In linea di massima sì».
«Quale l'orrore più grande commesso dal governo salodino?»
«La leva obbligatoria, voluta anzitutto da Graziani in contraddittorio
soprattutto con Pavolini. Il Maresciallo muoveva da una idea in sé giusta:
l'esercito non doveva assolutamente essere coinvolto in logiche di partito, ma
venire in evidenza come prodotto ed espressione della intera Nazione. Ebbe
tuttavia il torto di esasperare talmente questa intuizione da renderla
controproducente. E ciò proprio nel momento in cui, soprattutto per iniziativa
del blocco nemico, il carattere ideologico del conflitto veniva rimarcato con
grande intensità».
«Risultato del prevalere del punto di vista di Graziani?»
«II carattere di massa del movimento partigiano. Col saggio "Il mito della
Resistenza", Romolo Gobbi, uomo di sinistra, si attesta su questa tesi. E così,
prima di lui, Giorgio Bocca, con la "Storia della Resistenza". Adesso le dico di
una mia persuasione. La renitenza diffusa alla leva non fu generata tanto dalla
volontà di non combattere, come diceva la propaganda angloamericana e
resistenziale, "la guerra criminale di Hitler e di Mussolini", quanto dal timore
dei giovani, condiviso dalle famiglie, di finire in Germania, mediante, magari,
il lavoro obbligatorio organizzato dalla Todt».
Enrico
Landolfi
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