«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 6 - 30 Settembre 1993

 

Voglio una vita


 

Ho letto tempo fa la recensione del saggio di non so quale psicologo, il quale sostiene che la spinta all'impegno sociale-politico e la voglia di andarsene, di viaggiare, di scoprire sono due facce della stessa medaglia, convivono spesso negli atteggiamenti della stessa persona. È stata per me una lettura illuminante, mi ha fornito la chiave di lettura della mia vita, per le mie tentazioni, per le mie contraddizioni. E mi ha fatto tornare alla mente una cosa che mi disse, una decina d'anni fa, Gianni Alemanno nel corso di una discussione sulle nostre scelte all'interno dell'allora comune partito. «Per te è facile» mi diceva Gianni «comportarti in questo modo, perché ti senti già con le valigie fuori dalla porta». Gli risposi quel che pensavo e penso, e cioè che l'avere le valigie fuori della porta non era uno stato d'animo relativo a quella situazione ed a quel tempo, ma è un modo di vivere. L'unico modo di vivere e di rapportarsi con le cose che io concepisca. È una condizione essenziale che consente di vivere ogni esperienza con incantato distacco (o con disincantata passione?). Saper cioè agire con passione ma sempre coscienti che l'azione svolta è comunque una metafora, risponde ad un bisogno più profondo, un richiamo più lontano rispetto all'attualità. Con la necessaria salvaguardia del senso critico, della curiosità.
Questa piccola riflessione mi rimanda ad una questione ulteriore. Mi accorgo che noi tutti siamo poco portati ad interrogarci sul senso delle cose che facciamo. Per facilità, per pigrizia, ci fermiamo al senso apparente, formale, immediato, senza saper dare poi un nome alle insofferenze, sbattendo la testa contro le inevitabili contraddizioni. Credo che ogni scelta, ogni impegno, ogni entusiasmo e sacrificio, rimandi, al fondo, ad un modo di vivere. O meglio, al bisogno di vivere in un certo modo. Coniugato nelle forme che le circostanze ci offrono. Capire questo forse non risolve ma, come nella pubblicità di certe caramelle, sicuramente aiuta. Ciò non significa che non si possano avere princìpi, anche sacri princìpi, ma che tali princìpi non debbano essere legati ad una sola forma espressiva. Non solo si può rimanere sé stessi, ma si possono produrre gli stessi effetti, facendo cose diverse, stando in posti diversi.
Ma questo che c'entra? C'entra. Perché ha a che vedere con il senso delle cose che facciamo, serve a spiegare (non «a giustificare») anche il nostro percorso, che potrebbe sembrare contorto, secondo certa retorica «senza approdi». Navigare necesse, e, intanto navighiamo e nel navigare troviamo il senso del nostro fare. La nostra rotta è nella vita che ci siamo dati e ce la siamo scelta (vero Carli?) «piena di guai».
È questa una lettura riduttiva, che ci sposta sul piano esistenziale, ci porta lontani dalla politica? Ancora un esempio letterario mi fornisce una risposta. È quello, noto, del «marinaio del Mahelstrom» di Lovecraft. Preso nelle acque di un gorgo e trascinato verso il fondo insieme ai suoi compagni, il nostro personaggio, si sottrae al panico che attanaglia l'intero equipaggio. Lo spettacolo dei colori del gorgo attira la sua attenzione, distraendolo, rilassandolo: questo disincanto gli consente di individuare una via d'uscita e salvarsi. Il nostro stare in politica, il saperla metafora, il godere del suo spettacolo, ci carica di una capacità diversa nel capire il suo svolgersi, di nuotare nel suo mare anche quando, a chi in esso galleggia, il nostro sembra un inutile agitarsi. E lo spettacolo che la politica oggi ci offre è grande, meschino a volte, ma spesso affascinante.
Mi è già capitato di sottolinearlo, se andiamo a rileggere anche le piccole cose che abbiamo scritto su questo foglio, troveremo una grande messe di anticipazioni, di intuizioni, spesso solitarie, tante conferme. Solo un mese e mezzo fa, partendo, scrivevo che nella condizione di Gabriele Cagliari, Ferruzzi, di molti politici, avremmo presto visto qualche giudice. Al mio rientro ho trovato Curtò in quelle condizioni.
Più volte ci siamo soffermati sul significato e le modalità di svolgimento della rivoluzione, della transizione che sta investendo l'Italia e l'Europa. Così i fatti di Mosca in questi giorni ed i risultati delle elezioni polacche che relegano Solidarnosc all'opposizione ci offrono conferme ed ulteriori strumenti di interpretazione di quanto sta succedendo e succederà nel nostro Paese. I nuovi, gli innovatori, più o meno reali, più o meno compromessi con il vecchio, sono comunque quelli che offrono una via possibile di cambiamento. Ma saranno i primi ad esserne travolti. Noi lo abbiamo saputo e detto fin dall'inizio. Profeti? No: navigatori. Benedetta allora la nostra vita da marinai, che ci ha fatto incontrare, che ci ha fatto stare insieme, che ci ha fato qualche volta separare. Che ci porta ora a fare scelte individuali diverse, ma che ci fa sentire simili e forse utili anche se «ognuno infondo perso dietro ai sogni suoi».
Così ci conforta il constatare che rompemmo con una comune appartenenza quando capimmo che quella appartenenza (e, per un po', ogni appartenenza) aveva concluso il suo corso, il suo senso. E chi l'ha ereditata, nel tentativo di farla sopravvivere a sé stessa, l'ha portata a collocarsi in una posizione nuova, sempre più chiara, sempre più lontana da quella in cui noi l'avremmo voluta.
E siamo ancora qua, a roderci il fegato, a dividerci tra la voglia di fare e quella di fuggire e poi, alla fine, tutti immersi in qualche serio impegno, legato alla vita della nostra città, del nostro Paese. Con scelte individuali diverse, a volte lontane, a volte contigue. Con molti senza sentirci per lungo tempo, ma sapendo di esserci. Con alcuni ci troviamo «come la star a bere del whisky al Roxy bar, con altri non ci incontreremo mai, ognuno a rincorrere i suoi guai».
 

Umberto Croppi

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