le recensioni
Identikit della RSI
nel bel saggio di Adalberto Baldoni
Questo bel libro di Adalberto
Baldoni -"Fascisti (1943-1945)", licenziato alle stampe dalla Editrice "Settimo
Sigillo" di Roma: terza opera dopo "Noi Rivoluzionari" e, a quattro mani con il
giornalista di sinistra Sandro Provvisionato de "L'Europeo", "La notte più lunga
della Repubblica"- ha tanti pregi, non ultimo quello di venire in evidenza come
frutto di un piccolo miracolo posto in essere con straordinaria sensibilità.
Trattasi di questo: l'Autore è riuscito a realizzare, nelle oltre 360 densissime
pagine, un equilibrio pressocché perfetto, a livello psicologico e
contenutistico, fra la sua inequivoca posizione di aderente alle motivazioni
ideali e politiche che, mezzo secolo fa, furono alla base della Repubblica
Sociale Italiana, e una grande obbiettività, un profondo rispetto, per coloro
che ebbero a collocarsi sul versante opposto. Talché si potrebbe perfino
affermare che con tale opera è nato un plausibile contributo alla causa del
superamento dello spirito della guerra civile e delle sue ancora attive,
tragiche conseguenze. Diremo di più: a ben vedere, tutta la «trilogia» segnalata
reca l'impronta di una tendenza costruttiva animata da eccezionale tensione
superatrice. Ma su ciò non mancherà occasione di diffonderci. Da notare che lo
scrittore mette le carte in tavola anche prima di avviare il testo. Lo fa con
tre dediche -autentici, nobilissimi fiori dell'anima- che ci piace riprodurre
integralmente.
Il primo: «Ai ragazzi repubblicani fucilati a Firenze dai partigiani sul sagrato
di Santa Maria Novella nel settembre 1944».
Il secondo: «Ai giovani partigiani Giancarlo e Giovanni Osmani, caduti in
combattimento sull'Appennino modenese nel giugno 1944».
Il terzo: «A tutte le vittime della guerra civile in Italia».
Ci sembra il caso di fare presente che il conflitto fratricida ha attraversato,
sanguinosamente, la famiglia Baldoni. Dei vari aspetti di codesto dramma
Adalberto da succinto ma nutritissimo resoconto, di cui proponiamo un paio di
impressionanti periodi conclusivi: «La guerra civile è stata anche questo: un
mostro che ha travolto affetti, sentimenti, legami familiari, rapporti umani,
seminando rancori, vendette. Un mostro che ha influenzato e segnato col sangue
l'avvenire di tanti, di troppi innocenti».
Affermazioni, tutte, da girare quale serio, severo monito, ai tanti, ai troppi,
enfatizzatori del cainismo di massa, dovunque e comunque affiliati. E quali che
siano i loro colori. Passati, presenti, futuri.
L'Autore correttamente individua la massima radice della guerra civile in quello
che definisce un «grossolano errore» di Salò: i bandi di Graziani. Costui,
totalmente inetto all'analisi politica delle situazioni, non si rende conto che
con la sua impuntatura obbiettivamente distorcitrice di princìpi in sé
inoppugnabili -l'assoluta apoliticità, apartiticità, delle FF.AA., e,
conseguentemente, il dovere di ogni cittadino di operare anche in armi per i
fini della Patria indipendentemente dal crollo ideologico professato- mette, per
così dire, una bomba a orologeria sotto le appena sorte strutture e le ancora
incerte potenzialità della RSI. Di fatto, coopera con l'antifascismo nella
costruzione del carattere popolare, di massa, organizzato, della Resistenza. Il
Maresciallo non si accorge di avere preso una solenne cantonata neppure quando
il 22 aprile '44, alla conferenza di Klessheim, informa Mussolini e Hitler che
si sono recati alle caserme -delle classi '24-'25-, 100mila giovani su 180mila
chiamati. Anche volendo ammettere l'esattezza delle cifre fornite da Graziani
-ma l'autorevole storico inglese Deakin afferma che se ne presentarono 87mila,
mentre Giorgio Bocca scende fino a 51.162 unità- esse erano tali da indurlo a
riflettere, solo che avesse avuto in zucca un minimo di sale politico. A suo
tempo il ministro della difesa del Duce venne da qualcuno definito,
temerariamente, «il De Gaulle italiano»; chiaro è, però, che il non acuto
ideatore della definizione non si accorgeva che il capo della Croce di Lorena
era, e ancor più sarebbe poi diventato, un grande politico -concezioni e fiuto,
s'intende-, oltre che brillante memorialista e saggista ed eccezionale uomo
d'armi anche a livello teorico.
Insomma, la renitenza ebbe a rivelarsi il vero generatore delle ampie dimensioni
della Resistenza. In proposito, Adalberto Baldoni così illustra, in un rapido
brano, la tremenda, equivoca situazione creata dal «Marchese di Neghelli» con la
sua devastante iniziativa: «Buona parte dei giovani che si presentavano viene
impiegata dai tedeschi nei più svariati ed umilianti compiti (tra cui i lavori
di fatica come il giardinaggio nelle ville da essi requisite, la pulizia delle
automobili, eccetera). Scopo dei tedeschi è quello dì reclutare i giovani per
avviarli al lavoro in Germania o presso le fabbriche di armi in Italia.
L'atteggiamento tedesco ovviamente contrasta con le finalità di Mussolini e
Graziani che sono quelle di costituire, con la massima celerità, un esercito
regolare. Nessun giovane vuoi correre il rischio di essere dirottato in
Germania, considerato un viaggio senza ritorno. Migliaia, quindi, i renitenti, a
cui debbono aggiungersi tutti i giovani che, una volta presentati, avevano
abbandonato i reparti a cui erano stati assegnati. Allo scopo di recuperare i
fuggiaschi, il governo della RSI emana, in tempi diversi ma ravvicinati, una
serie di bandi. Il 18 febbraio 1944 un decreto stabilisce la pena di morte per i
renitenti e i disertori e riguarda tutti i cittadini italiani dai 19 ai 22 anni
residenti nel territorio sotto la giurisdizione della RSI... All'inizio del
giugno '44 un altro bando invita a presentarsi i giovani delle classi 1920 e
1921. Ma anche in questa occasione gran parte dei giovani non risponde alla
chiamata preferendo darsi alla macchia o lasciare l'Italia per la Svizzera».
Aggiunge, quindi, l'Autore: «Inoltre tra i giovani di leva, costretti ad
indossare l'uniforme e ad imbracciare il fucile, circolano indifferenza, apatia
e in qualche caso ribellione».
Dunque, un disastro.
Ma il valore del libro di cui veniamo discorrendo è anche in un pezzo come
questo, atto a dare testimonianza pure delle piaghe affliggenti la RSI, dei suoi
limiti, delle sue contraddizioni, dei suoi errori talvolta irrimediabili. Un
pezzo scaturito dalla penna di un giornalista specializzato nella ricerca
storica che, pur dichiaratamente in camicia nera, da prova di grande onestà
intellettuale, di oggettività, di rigore documentario, rendendo così
assolutamente credibile il suo lavoro. Su tale credibilità richiamiamo
l'attenzione della parte antifascista in qualche modo interessata, a mezzo
secolo dallo scontro civile, ad un approfondimento di quelle remote vicende con
spirito di costruttiva attenzione a quanto espresso dallo schieramento
sconfitto.
* * *
Non tutti gli esponenti del regime salodino avevano le stesse idee di Rodolfo
Graziani, costretto ad impegnarsi a fondo per far passare le proprie
impostazioni in Consiglio dei Ministri. Paradossalmente, le tesi «moderate»
esposte da Baldoni erano state sostenute da rappresentanti della corrente più
intransigente come Pavolini, Ricci, Buffarini Guidi. Costoro non soltanto
paventavano i rischi di un effetto boomerang della coscrizione obbligatoria e
della pena di morte, ma, soprattutto, professavano una filosofia politica nella
quale non ci poteva essere posto per la apoliticità delle FF.AA. o di altro. Il
loro Stato, infatti, era di natura strettamente ideologica; integralmente, anzi
integralisticamente, fascista. Sulla falsariga della seconda guerra mondiale:
combattuta, certo, anche per le note rivendicazioni territoriali e coloniali, ma
fondamentalmente, anzi fondamentalisticamente, ispirata da motivazioni
ideologiche. Quali? Per esempio, l'Ordine Nuovo: la prevalenza, cioè, dei popoli
giovani e rivoluzionari su quelli vecchi, esausti e plutocratici,
occasionalmente alleati con l'URSS. Fascismo contro Antifascismo, Asse e
Tripartito contro le Nazioni Unite. Insomma, Graziani e tutta la componente
militare incarnavano una concezione e una interpretazione della RSI di tipo
tradizionale, che nulla potevano avere in comune con quelle animatrici di teste
e comportamenti di due frazioni al momento solidali per sbarrare la strada verso
il potere totale -all'ombra della figura di Mussolini- degli alti gradi
castrensi: la intransigente (Pavolini, Mezzasoma, Ricci) e la filo-nazista
(Farinacci, Buffarini Guidi, Preziosi).
Il timore per uno strapotere dei capi delle FF.AA. non era infondato, perché la
presenza del Maresciallo d'Italia nel governo risultava decisiva per il Duce.
Infatti, quale altro pari grado avrebbe egli potuto contrapporre a Pietro
Badoglio? Questione analoga, a ben vedere, a quella dei grandi orientatori della
vita morale e intellettuale della Nazione: se nel Regno del Sud teneva banco
Benedetto Croce, nella RSI il supremo magistero etico e culturale non poteva che
toccare a Giovanni Gentile. Quanto meno, dopo l'uccisione, alla sua immagine
fìsica e di pensiero.
Graziani, tuttavia, non sempre viene in evidenza come un alto ufficiale
politicamente sprovveduto. Per esempio, nella ennesima contrapposizione a
Pavolini relativamente alla costituzione delle Brigate Nere, esprime motivazioni
inappuntabili. Dice Baldoni: «In verità le Brigate Nere sono state già istituite
il 30 giugno 1944 quando Mussolini, reduce da un burrascoso colloquio con
Graziani (che sì era opposto al progetto di Pavolini), aveva firmato il decreto
che autorizzava il partito ad armarsi... Quindi italiani contro italiani. Siamo
alla guerra civile».
Quasi non bastasse questa vantazione che sa di grido di dolore, l'Autore ricorre
alla testimonianza di un principe del giornalismo italiano, in fama di
autorevolezza e come storico della Resistenza e come comandante partigiano:
Giorgio Bocca: «Con l'ingresso delle Brigate Nere nella guerra partigiana cresce
la reciproca ferocia. A parere dei militari tedeschi la loro apparizione
rafforza la Resistenza e accresce l'odio popolare. Può essere, ma esse rientrano
nella logica inarrestabile della guerra civile».
E che detta «logica» sia talmente perversa da provocare reazioni di rigetto, è
dimostrato da queste poche ma esaustive righe del Baldoni: «Le Brigate Nere
spesso non ebbero e non diedero quartiere. Ma vi fu un reparto derivante dalla
Brigata Nera intitolata ad Arturo Capanni, federale di Forlì, trucidato alle
spalle dai gappisti, che non partecipò ai rastrellamenti. Il Battaglione Arditi
Forlì, infatti, chiese ed ottenne di combattere in prima linea sul fronte del
Senio, accanto agli NP della X Mas». Dunque, qui apprendiamo una scelta
mirabile: un reparto delle B.N. che rifiuta di partecipare al reciproco
stragismo fratricida -in cooperazione e magari sotto il comando dello straniero-
non per mettere la pelle al sicuro, ma per andare a battersi contro altri
stranieri unitamente a truppe regolari italiane.
Che le Brigate Nere incarnassero il secondo errore militare della RSI dopo
quello, anche più grave, della leva obbligatoria e della comminazione della pena
di morte ai renitenti, sembra congniamente dimostrato. Tuttavia i danni non si
esauriscono nei già segnalati. Infatti il loro irrompere nel sanguinoso
contenzioso in atto provoca contraddizioni, confusioni, antagonismi,
disorganizzazioni di cui la Repubblica mussoliniana davvero non sente il
bisogno. In una testimonianza resa all'Autore, il dottor Franco Massobrio,
ex-ufficiale della GNR, afferma: «Tra i militi delle Brigate Nere e della
Guardia Nazionale Repubblicana i rapporti erano piuttosto tesi e talora precari,
poiché le BN si consideravano depositane di una purezza ideologica, mentre la
GNR si riteneva, come prima arma del ricostituito esercito, forza specifica di
ordine pubblico e di polizia giudiziaria. Il che rendeva sovente difficili le
soluzioni dei problemi di competenza dei capi delle province e dei questori».
I critici di parte littoria del brigatismo nero sono ancora una volta rincalzati
dall'antifascista Bocca che, sempre nel suo volume "La Repubblica di Mussolini",
dichiara: «Le Brigate Nere sono fra le rare formazioni fasciste che si battono,
ma al tempo stesso la loro disciplina è incerta, le brigate si disputano gli
uomini, le armi; le liti di competenza e di rivalità sono continue». Dove tutto
è plausibile; meno, però, l'avventata affermazione circa la «rarità» della
vocazione al combattimento da parte dei fascisti.
Anzitutto, è astratto dividere un popolo in guerrieri e vigliacchi con il
criterio dell'adesione a questo o a quello fra gli schieramenti contrapposti.
Insomma, se uno ha paura chi glielo fa fare di impicciarsi in faccende tanto
perigliose? Nel caos degli anni '43-'45 non era poi impossibile imboscarsi in
uno dei tanti modi possibili! Per altro, la traduzione televisiva -ottimamente
realizzata in estate dalla Rai-TV- di un romanzo partigiano di Beppe Fenoglio,
"Una questione privata", attesta che la guerra civile venne combattuta con
spirito di sacrificio, decisione, totale donazione di sé, sprezzo della vita,
fede profonda nelle idee disinteressatamente abbracciate e vissute come una
fede, addirittura come una «religione», su ambedue i versanti della lotta
intestina. Cosa che, lo confessiamo volentieri, ci riempie di gioia e di
orgoglio come uomini e come italiani. A proposito: nelle pagine di Fenoglio e
relative immagini televisive la RSI non è rappresentata dalle Brigate Nere, caro
Bocca, ma dai marò della Divisione San Marco. E ci piace ciò significare anche a
un nostro amico socialista, Nicola Caracciolo, giornalista valoroso e
documentarista di livello della Rai-TV, attestato più o meno sulla stessa
posizione di Bocca per quanto concerne la valutazione militare della Repubblica
Sociale, mentre è più soft, più obbiettivo, per quel che attiene alla
valutazione dell'esperimento di Salò complessivamente considerato.
L'Autore si è impegnato, e da par suo, nella rivisitazione di personaggi, casi,
episodi, vicende -sia dentro la RSI, sia nel Regno del Sud- per dimostrare,
documenti alla mano, che quelli della Repubblica non furono combattenti da
giornale umoristico inseriti in una sorta di esercito di cartapesta buono per
una rivista di Macario o di Pippo Franco. No, la guerra civile fu accadimento
tragico, e non rappresentazione animata da giullari e da gente dedita al gioco
coi soldatini di piombo. Di «piombo» ce ne fu fin troppo, ma non certo quello
dei «soldatini», bensì dei soldati in rosso e in nero ed anche in altri colori.
Il nostro impegno, l'impegno di tutti, va condensato -a partire proprio, e
significativamente, dal cinquantennale della contrapposizione fratricida,
esplosa mentre due eserciti invasori e invadenti si contendevano brani e
brandelli di ciò che restava dell'Italia- in una parola d'ordine chiarissima e
ultimativa: «Mai più».
* * *
La sorte ha voluto che contenuti, «messaggi», impostazioni, anima del saggio di
Adalberto Baldoni venissero felicemente coonestati da Giorgio Bocca quando il
volume raggiungeva il top del successo anche oltre l'area politica di
riferimento. In un articolo su "la Repubblica", intitolato «Chi vuole cancellare
l'Italia coraggiosa», il celebre giornalista e storico trovava modo di affermare
-nell'ambito di una polemica sacrosanta contro un Signor Nessuno che, sulle
colonne de "L'Indipendente", aveva denigrato l'Italia e il Risorgimento- quanto
segue: «Quando scrissi "La Repubblica di Mussolini" alcuni faziosi della mia
sponda mi considerarono quasi un traditore perché avevo intervistato ministri,
generali, combattenti della repubblica di Salò e perché non avevo taciuto
l'altra anomalia di quella storia: che decine di migliaia di giovani erano
andati con Mussolini pur sapendo che era definitivamente vinto. Noi a quella
resa dei conti guardiamo con rispetto. Quella comunque è stata un'Italia del
coraggio». Dove l'unica cosa che non va bene è la locuzione «resa dei conti»,
minuscolo scrigno del male in cui s'annidano i più perversi spiriti della
orribile, cruenta spaccatura del nostro popolo.
Con ogni probabilità a Bocca non sono sfuggiti gli sfondi ideologici-sociali
intuiti, immaginati, da quelle «decine di migliaia di giovani» che a tutela di
essi erano certi di dovere e potere operare. Ci fa ciò ritenere il volume
"Mussolini socialfascista", da lui licenziato alle stampe anni or sono e da noi,
puntuali consumatori della vasta produzione bocchiana, immediatamente letto. Ma
il Baldoni -che, ovviamente, si sofferma sulle propensioni «rivoluzionarie»
della RSI e, quindi, sulla socializzazione in modo particolare- porta una
ulteriore testimonianza: quella del comunista Roberto Battaglia che, nella sua
"Storia della Resistenza", a proposito della lotta per e in Firenze, afferma:
«Sulla via della ritirata furono lasciati gruppi di franchi tiratori fascisti
che si batterono a lungo e con un accanimento degno di miglior causa (si
trattava purtroppo nella maggior parte dei casi di elementi giovanissimi,
fanatizzati dalla demagogia sociale di Salò)». Questo periodo, spogliato
dell'involucro stilistico inevitabilmente delegittimante e a senso unico, ci
rende edotti di due cose precise: I) i ragazzi della RSI si battevano sul serio;
II) erano profondamente motivati sul piano sociale.
Baldoni naturalmente presenta il Mussolini del Garda in una chiave positiva,
senza tuttavia esagerazioni laudatone ed enfatizzazioni eccessive. Almeno in
parte, è ancora rincalzato da Giorgio Bocca che, sempre nell'articolo di cui
sopra, nell'accennare ai noti delitti nazisti del criminale Reeder dalla
Garfagnana a Marzabotto, scrive: «... il Mussolini di Salò fu sconvolto e
indignato da tanta ferocia e incaricò il federale di Bologna di fare una
inchiesta perché neppure a lui i tedeschi dicevano la intera verità». E qui
torna acconcio ricordare che dalla conversazione con Adalberto apparsa nel
precedente numero fummo rafforzati in una intuizione secondo cui la RSI aveva
aperto un durissimo confronto, addirittura una sorta di fronte di guerra, con i
tedeschi. Anzitutto in difesa della propria autonomia -quella possibile, nelle
circostanze date-; quindi della propria politica sociale, delle popolazioni
quando erano vessate, delle strutture industriali sempre minacciate di
trasferimento in Germania.
Ultima, per ora, considerazione. L'Autore è scarsamente plausibile allorché si
impegna a tuttuomo nell'impresa di provare, addirittura alla luce dello Statuto
albertino, l'incostituzionalità della nomina di Badoglio e la costituzionalità
della RSI. Dia retta a noi: lasci perdere. Tra l'altro, se riuscisse nelle sue
dimostrazioni -cosa di cui ci permettiamo dubitare- priverebbe la RSI di un suo
aspetto «simpatico»: quello di essere un fatto, per certo verso,
«rivoluzionario».
Enrico
Landolfi
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