«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 6 - 30 Settembre 1993

 

le recensioni

Identikit della RSI nel bel saggio di Adalberto Baldoni


 

Questo bel libro di Adalberto Baldoni -"Fascisti (1943-1945)", licenziato alle stampe dalla Editrice "Settimo Sigillo" di Roma: terza opera dopo "Noi Rivoluzionari" e, a quattro mani con il giornalista di sinistra Sandro Provvisionato de "L'Europeo", "La notte più lunga della Repubblica"- ha tanti pregi, non ultimo quello di venire in evidenza come frutto di un piccolo miracolo posto in essere con straordinaria sensibilità.
Trattasi di questo: l'Autore è riuscito a realizzare, nelle oltre 360 densissime pagine, un equilibrio pressocché perfetto, a livello psicologico e contenutistico, fra la sua inequivoca posizione di aderente alle motivazioni ideali e politiche che, mezzo secolo fa, furono alla base della Repubblica Sociale Italiana, e una grande obbiettività, un profondo rispetto, per coloro che ebbero a collocarsi sul versante opposto. Talché si potrebbe perfino affermare che con tale opera è nato un plausibile contributo alla causa del superamento dello spirito della guerra civile e delle sue ancora attive, tragiche conseguenze. Diremo di più: a ben vedere, tutta la «trilogia» segnalata reca l'impronta di una tendenza costruttiva animata da eccezionale tensione superatrice. Ma su ciò non mancherà occasione di diffonderci. Da notare che lo scrittore mette le carte in tavola anche prima di avviare il testo. Lo fa con tre dediche -autentici, nobilissimi fiori dell'anima- che ci piace riprodurre integralmente.
Il primo: «Ai ragazzi repubblicani fucilati a Firenze dai partigiani sul sagrato di Santa Maria Novella nel settembre 1944».
Il secondo: «Ai giovani partigiani Giancarlo e Giovanni Osmani, caduti in combattimento sull'Appennino modenese nel giugno 1944».
Il terzo: «A tutte le vittime della guerra civile in Italia».
Ci sembra il caso di fare presente che il conflitto fratricida ha attraversato, sanguinosamente, la famiglia Baldoni. Dei vari aspetti di codesto dramma Adalberto da succinto ma nutritissimo resoconto, di cui proponiamo un paio di impressionanti periodi conclusivi: «La guerra civile è stata anche questo: un mostro che ha travolto affetti, sentimenti, legami familiari, rapporti umani, seminando rancori, vendette. Un mostro che ha influenzato e segnato col sangue l'avvenire di tanti, di troppi innocenti».
Affermazioni, tutte, da girare quale serio, severo monito, ai tanti, ai troppi, enfatizzatori del cainismo di massa, dovunque e comunque affiliati. E quali che siano i loro colori. Passati, presenti, futuri.
L'Autore correttamente individua la massima radice della guerra civile in quello che definisce un «grossolano errore» di Salò: i bandi di Graziani. Costui, totalmente inetto all'analisi politica delle situazioni, non si rende conto che con la sua impuntatura obbiettivamente distorcitrice di princìpi in sé inoppugnabili -l'assoluta apoliticità, apartiticità, delle FF.AA., e, conseguentemente, il dovere di ogni cittadino di operare anche in armi per i fini della Patria indipendentemente dal crollo ideologico professato- mette, per così dire, una bomba a orologeria sotto le appena sorte strutture e le ancora incerte potenzialità della RSI. Di fatto, coopera con l'antifascismo nella costruzione del carattere popolare, di massa, organizzato, della Resistenza. Il Maresciallo non si accorge di avere preso una solenne cantonata neppure quando il 22 aprile '44, alla conferenza di Klessheim, informa Mussolini e Hitler che si sono recati alle caserme -delle classi '24-'25-, 100mila giovani su 180mila chiamati. Anche volendo ammettere l'esattezza delle cifre fornite da Graziani -ma l'autorevole storico inglese Deakin afferma che se ne presentarono 87mila, mentre Giorgio Bocca scende fino a 51.162 unità- esse erano tali da indurlo a riflettere, solo che avesse avuto in zucca un minimo di sale politico. A suo tempo il ministro della difesa del Duce venne da qualcuno definito, temerariamente, «il De Gaulle italiano»; chiaro è, però, che il non acuto ideatore della definizione non si accorgeva che il capo della Croce di Lorena era, e ancor più sarebbe poi diventato, un grande politico -concezioni e fiuto, s'intende-, oltre che brillante memorialista e saggista ed eccezionale uomo d'armi anche a livello teorico.
Insomma, la renitenza ebbe a rivelarsi il vero generatore delle ampie dimensioni della Resistenza. In proposito, Adalberto Baldoni così illustra, in un rapido brano, la tremenda, equivoca situazione creata dal «Marchese di Neghelli» con la sua devastante iniziativa: «Buona parte dei giovani che si presentavano viene impiegata dai tedeschi nei più svariati ed umilianti compiti (tra cui i lavori di fatica come il giardinaggio nelle ville da essi requisite, la pulizia delle automobili, eccetera). Scopo dei tedeschi è quello dì reclutare i giovani per avviarli al lavoro in Germania o presso le fabbriche di armi in Italia. L'atteggiamento tedesco ovviamente contrasta con le finalità di Mussolini e Graziani che sono quelle di costituire, con la massima celerità, un esercito regolare. Nessun giovane vuoi correre il rischio di essere dirottato in Germania, considerato un viaggio senza ritorno. Migliaia, quindi, i renitenti, a cui debbono aggiungersi tutti i giovani che, una volta presentati, avevano abbandonato i reparti a cui erano stati assegnati. Allo scopo di recuperare i fuggiaschi, il governo della RSI emana, in tempi diversi ma ravvicinati, una serie di bandi. Il 18 febbraio 1944 un decreto stabilisce la pena di morte per i renitenti e i disertori e riguarda tutti i cittadini italiani dai 19 ai 22 anni residenti nel territorio sotto la giurisdizione della RSI... All'inizio del giugno '44 un altro bando invita a presentarsi i giovani delle classi 1920 e 1921. Ma anche in questa occasione gran parte dei giovani non risponde alla chiamata preferendo darsi alla macchia o lasciare l'Italia per la Svizzera». Aggiunge, quindi, l'Autore: «Inoltre tra i giovani di leva, costretti ad indossare l'uniforme e ad imbracciare il fucile, circolano indifferenza, apatia e in qualche caso ribellione».
Dunque, un disastro.
Ma il valore del libro di cui veniamo discorrendo è anche in un pezzo come questo, atto a dare testimonianza pure delle piaghe affliggenti la RSI, dei suoi limiti, delle sue contraddizioni, dei suoi errori talvolta irrimediabili. Un pezzo scaturito dalla penna di un giornalista specializzato nella ricerca storica che, pur dichiaratamente in camicia nera, da prova di grande onestà intellettuale, di oggettività, di rigore documentario, rendendo così assolutamente credibile il suo lavoro. Su tale credibilità richiamiamo l'attenzione della parte antifascista in qualche modo interessata, a mezzo secolo dallo scontro civile, ad un approfondimento di quelle remote vicende con spirito di costruttiva attenzione a quanto espresso dallo schieramento sconfitto.

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Non tutti gli esponenti del regime salodino avevano le stesse idee di Rodolfo Graziani, costretto ad impegnarsi a fondo per far passare le proprie impostazioni in Consiglio dei Ministri. Paradossalmente, le tesi «moderate» esposte da Baldoni erano state sostenute da rappresentanti della corrente più intransigente come Pavolini, Ricci, Buffarini Guidi. Costoro non soltanto paventavano i rischi di un effetto boomerang della coscrizione obbligatoria e della pena di morte, ma, soprattutto, professavano una filosofia politica nella quale non ci poteva essere posto per la apoliticità delle FF.AA. o di altro. Il loro Stato, infatti, era di natura strettamente ideologica; integralmente, anzi integralisticamente, fascista. Sulla falsariga della seconda guerra mondiale: combattuta, certo, anche per le note rivendicazioni territoriali e coloniali, ma fondamentalmente, anzi fondamentalisticamente, ispirata da motivazioni ideologiche. Quali? Per esempio, l'Ordine Nuovo: la prevalenza, cioè, dei popoli giovani e rivoluzionari su quelli vecchi, esausti e plutocratici, occasionalmente alleati con l'URSS. Fascismo contro Antifascismo, Asse e Tripartito contro le Nazioni Unite. Insomma, Graziani e tutta la componente militare incarnavano una concezione e una interpretazione della RSI di tipo tradizionale, che nulla potevano avere in comune con quelle animatrici di teste e comportamenti di due frazioni al momento solidali per sbarrare la strada verso il potere totale -all'ombra della figura di Mussolini- degli alti gradi castrensi: la intransigente (Pavolini, Mezzasoma, Ricci) e la filo-nazista (Farinacci, Buffarini Guidi, Preziosi).
Il timore per uno strapotere dei capi delle FF.AA. non era infondato, perché la presenza del Maresciallo d'Italia nel governo risultava decisiva per il Duce. Infatti, quale altro pari grado avrebbe egli potuto contrapporre a Pietro Badoglio? Questione analoga, a ben vedere, a quella dei grandi orientatori della vita morale e intellettuale della Nazione: se nel Regno del Sud teneva banco Benedetto Croce, nella RSI il supremo magistero etico e culturale non poteva che toccare a Giovanni Gentile. Quanto meno, dopo l'uccisione, alla sua immagine fìsica e di pensiero.
Graziani, tuttavia, non sempre viene in evidenza come un alto ufficiale politicamente sprovveduto. Per esempio, nella ennesima contrapposizione a Pavolini relativamente alla costituzione delle Brigate Nere, esprime motivazioni inappuntabili. Dice Baldoni: «In verità le Brigate Nere sono state già istituite il 30 giugno 1944 quando Mussolini, reduce da un burrascoso colloquio con Graziani (che sì era opposto al progetto di Pavolini), aveva firmato il decreto che autorizzava il partito ad armarsi... Quindi italiani contro italiani. Siamo alla guerra civile».
Quasi non bastasse questa vantazione che sa di grido di dolore, l'Autore ricorre alla testimonianza di un principe del giornalismo italiano, in fama di autorevolezza e come storico della Resistenza e come comandante partigiano: Giorgio Bocca: «Con l'ingresso delle Brigate Nere nella guerra partigiana cresce la reciproca ferocia. A parere dei militari tedeschi la loro apparizione rafforza la Resistenza e accresce l'odio popolare. Può essere, ma esse rientrano nella logica inarrestabile della guerra civile».
E che detta «logica» sia talmente perversa da provocare reazioni di rigetto, è dimostrato da queste poche ma esaustive righe del Baldoni: «Le Brigate Nere spesso non ebbero e non diedero quartiere. Ma vi fu un reparto derivante dalla Brigata Nera intitolata ad Arturo Capanni, federale di Forlì, trucidato alle spalle dai gappisti, che non partecipò ai rastrellamenti. Il Battaglione Arditi Forlì, infatti, chiese ed ottenne di combattere in prima linea sul fronte del Senio, accanto agli NP della X Mas». Dunque, qui apprendiamo una scelta mirabile: un reparto delle B.N. che rifiuta di partecipare al reciproco stragismo fratricida -in cooperazione e magari sotto il comando dello straniero- non per mettere la pelle al sicuro, ma per andare a battersi contro altri stranieri unitamente a truppe regolari italiane.
Che le Brigate Nere incarnassero il secondo errore militare della RSI dopo quello, anche più grave, della leva obbligatoria e della comminazione della pena di morte ai renitenti, sembra congniamente dimostrato. Tuttavia i danni non si esauriscono nei già segnalati. Infatti il loro irrompere nel sanguinoso contenzioso in atto provoca contraddizioni, confusioni, antagonismi, disorganizzazioni di cui la Repubblica mussoliniana davvero non sente il bisogno. In una testimonianza resa all'Autore, il dottor Franco Massobrio, ex-ufficiale della GNR, afferma: «Tra i militi delle Brigate Nere e della Guardia Nazionale Repubblicana i rapporti erano piuttosto tesi e talora precari, poiché le BN si consideravano depositane di una purezza ideologica, mentre la GNR si riteneva, come prima arma del ricostituito esercito, forza specifica di ordine pubblico e di polizia giudiziaria. Il che rendeva sovente difficili le soluzioni dei problemi di competenza dei capi delle province e dei questori».
I critici di parte littoria del brigatismo nero sono ancora una volta rincalzati dall'antifascista Bocca che, sempre nel suo volume "La Repubblica di Mussolini", dichiara: «Le Brigate Nere sono fra le rare formazioni fasciste che si battono, ma al tempo stesso la loro disciplina è incerta, le brigate si disputano gli uomini, le armi; le liti di competenza e di rivalità sono continue». Dove tutto è plausibile; meno, però, l'avventata affermazione circa la «rarità» della vocazione al combattimento da parte dei fascisti.
Anzitutto, è astratto dividere un popolo in guerrieri e vigliacchi con il criterio dell'adesione a questo o a quello fra gli schieramenti contrapposti. Insomma, se uno ha paura chi glielo fa fare di impicciarsi in faccende tanto perigliose? Nel caos degli anni '43-'45 non era poi impossibile imboscarsi in uno dei tanti modi possibili! Per altro, la traduzione televisiva -ottimamente realizzata in estate dalla Rai-TV- di un romanzo partigiano di Beppe Fenoglio, "Una questione privata", attesta che la guerra civile venne combattuta con spirito di sacrificio, decisione, totale donazione di sé, sprezzo della vita, fede profonda nelle idee disinteressatamente abbracciate e vissute come una fede, addirittura come una «religione», su ambedue i versanti della lotta intestina. Cosa che, lo confessiamo volentieri, ci riempie di gioia e di orgoglio come uomini e come italiani. A proposito: nelle pagine di Fenoglio e relative immagini televisive la RSI non è rappresentata dalle Brigate Nere, caro Bocca, ma dai marò della Divisione San Marco. E ci piace ciò significare anche a un nostro amico socialista, Nicola Caracciolo, giornalista valoroso e documentarista di livello della Rai-TV, attestato più o meno sulla stessa posizione di Bocca per quanto concerne la valutazione militare della Repubblica Sociale, mentre è più soft, più obbiettivo, per quel che attiene alla valutazione dell'esperimento di Salò complessivamente considerato.
L'Autore si è impegnato, e da par suo, nella rivisitazione di personaggi, casi, episodi, vicende -sia dentro la RSI, sia nel Regno del Sud- per dimostrare, documenti alla mano, che quelli della Repubblica non furono combattenti da giornale umoristico inseriti in una sorta di esercito di cartapesta buono per una rivista di Macario o di Pippo Franco. No, la guerra civile fu accadimento tragico, e non rappresentazione animata da giullari e da gente dedita al gioco coi soldatini di piombo. Di «piombo» ce ne fu fin troppo, ma non certo quello dei «soldatini», bensì dei soldati in rosso e in nero ed anche in altri colori. Il nostro impegno, l'impegno di tutti, va condensato -a partire proprio, e significativamente, dal cinquantennale della contrapposizione fratricida, esplosa mentre due eserciti invasori e invadenti si contendevano brani e brandelli di ciò che restava dell'Italia- in una parola d'ordine chiarissima e ultimativa: «Mai più».

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La sorte ha voluto che contenuti, «messaggi», impostazioni, anima del saggio di Adalberto Baldoni venissero felicemente coonestati da Giorgio Bocca quando il volume raggiungeva il top del successo anche oltre l'area politica di riferimento. In un articolo su "la Repubblica", intitolato «Chi vuole cancellare l'Italia coraggiosa», il celebre giornalista e storico trovava modo di affermare -nell'ambito di una polemica sacrosanta contro un Signor Nessuno che, sulle colonne de "L'Indipendente", aveva denigrato l'Italia e il Risorgimento- quanto segue: «Quando scrissi "La Repubblica di Mussolini" alcuni faziosi della mia sponda mi considerarono quasi un traditore perché avevo intervistato ministri, generali, combattenti della repubblica di Salò e perché non avevo taciuto l'altra anomalia di quella storia: che decine di migliaia di giovani erano andati con Mussolini pur sapendo che era definitivamente vinto. Noi a quella resa dei conti guardiamo con rispetto. Quella comunque è stata un'Italia del coraggio». Dove l'unica cosa che non va bene è la locuzione «resa dei conti», minuscolo scrigno del male in cui s'annidano i più perversi spiriti della orribile, cruenta spaccatura del nostro popolo.
Con ogni probabilità a Bocca non sono sfuggiti gli sfondi ideologici-sociali intuiti, immaginati, da quelle «decine di migliaia di giovani» che a tutela di essi erano certi di dovere e potere operare. Ci fa ciò ritenere il volume "Mussolini socialfascista", da lui licenziato alle stampe anni or sono e da noi, puntuali consumatori della vasta produzione bocchiana, immediatamente letto. Ma il Baldoni -che, ovviamente, si sofferma sulle propensioni «rivoluzionarie» della RSI e, quindi, sulla socializzazione in modo particolare- porta una ulteriore testimonianza: quella del comunista Roberto Battaglia che, nella sua "Storia della Resistenza", a proposito della lotta per e in Firenze, afferma: «Sulla via della ritirata furono lasciati gruppi di franchi tiratori fascisti che si batterono a lungo e con un accanimento degno di miglior causa (si trattava purtroppo nella maggior parte dei casi di elementi giovanissimi, fanatizzati dalla demagogia sociale di Salò)». Questo periodo, spogliato dell'involucro stilistico inevitabilmente delegittimante e a senso unico, ci rende edotti di due cose precise: I) i ragazzi della RSI si battevano sul serio; II) erano profondamente motivati sul piano sociale.
Baldoni naturalmente presenta il Mussolini del Garda in una chiave positiva, senza tuttavia esagerazioni laudatone ed enfatizzazioni eccessive. Almeno in parte, è ancora rincalzato da Giorgio Bocca che, sempre nell'articolo di cui sopra, nell'accennare ai noti delitti nazisti del criminale Reeder dalla Garfagnana a Marzabotto, scrive: «... il Mussolini di Salò fu sconvolto e indignato da tanta ferocia e incaricò il federale di Bologna di fare una inchiesta perché neppure a lui i tedeschi dicevano la intera verità». E qui torna acconcio ricordare che dalla conversazione con Adalberto apparsa nel precedente numero fummo rafforzati in una intuizione secondo cui la RSI aveva aperto un durissimo confronto, addirittura una sorta di fronte di guerra, con i tedeschi. Anzitutto in difesa della propria autonomia -quella possibile, nelle circostanze date-; quindi della propria politica sociale, delle popolazioni quando erano vessate, delle strutture industriali sempre minacciate di trasferimento in Germania.
Ultima, per ora, considerazione. L'Autore è scarsamente plausibile allorché si impegna a tuttuomo nell'impresa di provare, addirittura alla luce dello Statuto albertino, l'incostituzionalità della nomina di Badoglio e la costituzionalità della RSI. Dia retta a noi: lasci perdere. Tra l'altro, se riuscisse nelle sue dimostrazioni -cosa di cui ci permettiamo dubitare- priverebbe la RSI di un suo aspetto «simpatico»: quello di essere un fatto, per certo verso, «rivoluzionario».
 

Enrico Landolfi

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