Se il progetto non basta
Fra «gli otto peccati capitali»
della civilizzazione odierna che minacciano il futuro della specie umana, Konrad
Lorenz annovera la generale acquiescenza all'indottrinamento.
Cresce infatti nel mondo il numero d'individui disposti a riconoscersi
«naturalmente» in uno stesso «grande gruppo» socio-culturale; e tale espansione
planetaria si rapporta al perfezionamento dei mezzi mass-mediali atti a
persuaderli della bontà di entrarvi a far parte. Ne risulta da una simile
coercizione pacifica, un tipo d'uomo «domestico» la cui uniformità di pensiero e
omogeneità di atteggiamenti mai s'erano manifestati così totalitariamente nel
corso della storia.
Inoltre -prosegue il Padre nobile dell'etologia moderna- la capacità suggestiva
esercitata da una dottrina unica e vincente (e dunque esercitata da una dottrina
assolutamente «vera») aumenta con l'aumentare dei suoi sostenitori: ovvero, con
la opinione pubblica -ormai onnipresente e onnivalente- la quale considera casi
patologici, o esseri alieni, coloro che rifiutano il coinvolgimento educativo di
massa. In tale scenario epocale, i manipolatori delle volontà altrui non possono
vedere che di buon occhio il progressivo restringersi della personalità nei
«loro» cittadini e/o consumatori e/o elettori... Sondaggi, pubblicità,
effetti-moda servono allora -ai grandi gruppi economici come ai grandi
funzionari politici- a meglio orientare i «gusti» degli utenti ed attrarli,
quindi, al loro potere.
Sin qui l'analisi di Lorenz, collimante per molti aspetti con quelle di un
Claude Polin o di una Hannah Arendt. Ed è un'analisi che, precedente la caduta
del comunismo, testimonia come il Nostro considerasse l'allora «altra metà del
mondo (politico)» meramente complementare e speculare ad uno stesso, unico
sistema disumanizzante. Per ciò la denuncia di quei «peccati capitali», tra loro
collegati in un rapporto a catena di causa-effetto, assume oggi un significato,
se possibile, di ancora maggiore pregnanza. Alla luce del fatto che non si può
più attribuire, oggi, al trascorso modello comunista una qualsiasi nostalgica «alternatività».
Oggi più di ieri, rimarca infatti, in tutta la sua evidenza, come e quanto i
sistemi a socialismo reale non avessero antidoti all'americanizzazione della
Terra, ma costituissero semmai, rispetto all'altro «modello», un insieme
politico con diversi -e coadiuvanti- elementi di tossicità.
Questo resta in eredità di quei Regimi, che nel gorgo del proprio fallimento
ideale e materiale hanno trascinato l'intero impianto «metafisico» su cui
reggevano: la fede nell'eguaglianza, nelle magnifiche sorti e progressive, nel
domani che conta, nella liberazione degli oppressi...
Giunti così al termine di un lungo sogno catartico e salvifico, molti di quanti
ci han davvero creduto (e lo hanno creduto «reale») si sono accodati al corteo
universale dei laudatori d'Occidente. Auto-assolvendosi delle realtà passate,
dimenticando -e facendo «urbi et orbi» dimenticare- quel loro sogno «di che
lacrime grondi e di che sangue»... A rinnegati e smemorati è stato detto,
insomma, di tramutare in onorevole armistizio quel che resta la più ignobile e
catastrofica delle sconfitte. Con pelosa carità è stato concesso, agli orfani
dello storicismo marxista, di sentirsi nuovamente figli legittimi dei «fatti» e
figli adottivi dei «valori» che da quei fatti discendevano.
Tanta generosità è stata -come sappiamo- ripagata ai padri putativi: è tutt'un
elevarsi di cori apologetici al Libero Mercato, al Capitalismo, all'Iniziativa
Privata... e c'è anche chi vorrebbe un recupero più razionale, o una «rilettura»
dell'esistente, della modernità. In questo climaterico «disincanto», in questo
lamentoso e logorroico «ripensamento a sinistra» in cui soccorrono i profeti
della rievangelizzazione (Bobbio, Duverger, Dahrendorf), emblematico appare il
caso Flores d'Arcais.
Sicché costui tenta in "Esistenza e libertà" di esorcizzare l'incondizionata
resa-accettazione dei suoi sul Modello Unico; tenta cioè di trovar loro qualcosa
da fare. Fissando i «nuovi» ruoli: «II futuro contro il passato, i molti che
hanno troppo poco contro i pochi che hanno troppo, il mutamento contro la
tradizione, l'autorità della ragione contro le ragioni dell'autorità, la pari
dignità dell'individuo che si riconosce attraverso l'altro individuo contro il
principio di nascita e di censo». E così via, in un crescendo di tesi ed
antitesi...
Lasciamo pure alla loro onanistica inutilità gli sforzi dialettici di questi
neo-Illuminati, e poniamoci -noi, stavolta- il classico «che fare?». Che fare,
dinanzi all'irrompere tumultuoso di un liberalismo senza più remore; quasi senza
più avversari, molti dei quali hanno già abdicato ai titoli di benemerenza
antagonistica, che sino a ieri avrebbero potuto vantare ed impiegare? La
soluzione -se c'è- non da luogo a semplificazioni o ad ottimismi.
Un primo addendo di risposta viene da Maurras, il quale nel 1937 scriveva che:
«Da qualunque parte lo si prenda, un dato risulta certo: è il Denaro che "fa" il
potere, in democrazia. Lo sceglie, lo crea, lo genera. Esso è l'arbitro del
potere, perché in sua assenza tale potere precipita nel nulla o nel caos. Niente
denaro, niente giornali. Niente denaro, niente opinioni espresse. Il denaro è il
genitore e il padrone di ogni potere democratico, di ogni potere eletto, di ogni
potere tenuto nella dipendenza dell'opinione espressa [...] Comunque lo si
rigiri, qualunque grido emetta, il povero popolo è governato dall'oro o dalla
carta, da quelli che li detengono e da quelli che li vendono, essi soli gli
fabbricano i suoi padroni e i suoi capi» (in "Mes idées politiques").
Ciò premesso e sottolineato, il quadro viene a complicarsi ulteriormente in
questa seconda metà del secolo, a seguito della sconfitta bellica dei fascismi,
dell'irrompere della TV e del diffondersi del cosiddetto benessere: sono
macrofenomeni a valenza antropologica che Charles Maurras non poteva certo
preventivare. In un solo concetto: con l'atomizzazione sociale e l'omologazione
individuale sono venuti a restringersi paurosamente gli spazi di libertà.
Beninteso, per quanti posseggono la «volontà» di libertà, che -in assenza di una
presa di coscienza e affermazione di sé- tale principio si riduce ad un dato
esteriore anagrafico, da cogliere in senso egoistico e limitativo.
Parafrasando il messaggio multimediale odierno potrebbe dirsi: la libertà
economica quale destino. È l'interesse, è il bene, è l'utile - la realtà unica,
l'unica misura delle cose. La visione globale dell'uomo, in questa gigantesca
opera di condizionamento, si riduce alla sola dimensione economica, dove -per
usare le parole di Cesare Romiti- «il massimo profitto non è solo un diritto ma
un dovere».
I possibili contro-argomenti ad una siffatta visione del mondo e della vita sono
noti, venendo dai «classici» Evola e Marcuse, e passando attraverso Alain Caillé
e alla sua ben nota "Critica alla ragione utilitaria". Non mi pare il caso di
dare ripetizioni. Ma è partendo da qui, dal rifiuto al perverso meccanismo posto
in essere dagli interpreti della coscienza collettiva dell'uomo, che occorre
fondare le tante ragioni etiche per trasgredire. Trasgredire e opporsi, ben
sapendo che, di fronte, non abbiamo un «palazzo d'Inverno» da assaltare,
romanticamente e sanguinosamente da conquistare. Lo scontro, quando avverrà, non
si farà muro-contro-muro; dal momento che «il muro che non è caduto» è di gomma,
capace di assorbire e neutralizzare tutto e tutti in un continuo, incessante
processo di metabolizzazione-assuefazione.
Che fare, dunque? Non conosco personalmente strumenti capaci di bucare questo
babelico e metamorfico muro che ci sta d'intorno, invisibile ai più, e che molti
credono edificato a loro difesa. Non ho risposte, e la capitolazione -devo
ammetterlo- sarebbe la soluzione più logica. È, del resto, quanto hanno
ragionevolmente fatto (magari «in attesa di tempi maturi»!) tanti amici, tanto
più intransigenti e audaci e rivoluzionari di me. C'è tutta «una generazione che
non si è arresa», fuori di qui. A destra e a manca, accomunati da «mutuo,
televisore, salotto e doppio mento ...». Una generazione di delusi e di pentiti.
O di riciclati. Di gente che ora si fa i fatti propri, che ha già dato, che ti
dice di ripassare. Di gente con «la moglie grassa, i figli e la panciera ...»,
ora fautrice del quieto sopravvivere: niente più salti nel buio e nemmeno salti.
Si striscia solamente, dietro i feticci della carriera, dell'auto, del week end
prossimo venturo...
Epperò resta. Resta la curiosità (che a volte si muta in speranza) di scoprire
se e dove in quel muro di gomma vi sia una crepa, una breccia. Tutto ciò sarà
pure irrazionale ed illogico: ma non è stato forse scientificamente dimostrato
che il bombo («bombus muscorum» fam. imenotteri) non può volare? Eppur si muove,
e vola, il bombo. O resta la presunzione, magari, di costituire noi stessi (il
plurale è qui consolatorio) una «breccia». Grazie alla nostra «volontà di
libertà», grazie alle energie culturali di cui disponiamo, grazie agli esempi
che sappiamo fornire.
Altrimenti, amici miei, non sentendoci vocati al ruolo di missionari eretici,
senza dei e senza dogmi - ci restano le torri presumibilmente d'avorio, dalle
parti di Lucera. Dove attendere la fine (del ciclo).
Alberto
Ostidich
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