«S'appiccia 'o Sud»?
Il Sud brucia? Chi non conosce
la nostra storia, la nostra natura, la nostra indole, le nostre perversioni, il
nostro cuore risponderebbe affermativamente in maniera inequivocabile. E i segni
ci sarebbero. Tutti.
L'Italsider di Taranto, il «mostro dell'acciaio» affidato alle cure banali del
giapponese Nakamura, sta per chiudere: gli operai rumoreggiano. I complessi
della chimica impiantati in Sardegna scricchiolano mentre stridono i cancelli in
chiusura. A Bagnoli, su quel meraviglioso golfo partenopeo, da tempo è sceso il
silenzio. La «Zona Industriale» di Bari, vanto di Aldo Moro e dei suoi accoliti
di potere, è un deserto: gli ultimi sussulti si levano dalla "Calabrese S.p.A."
che a dicembre mette in mobilità «tute blu» e «colletti bianchi». A Crotone non
c'è futuro. La Sicilia s'arrangia, illudendosi sul «nuovo» personificato da
Leoluca Orlando Cascio ed Elda Pucci.
Scoppia la rivoluzione al Sud? Mah! Nel Meridione non ci sono mai state
rivoluzioni. Rivolte, sì. Qui «Franza o Spagna purché se magna» è stata la
«religione» di vita. E la Patria, il suo alto concetto, a volte è un lusso per
pance piene. Sui «treni della speranza» che deportavano i contadini nelle
miniere di Charleroi, si gridava disperatamente che «la patria è laddove c'è
pane».
Materialismo? Può darsi ma è la storia ad insegnare il «primum vivere, deinde
philosophari». Le fasi della storia del Sud sono tante né Niceforo, con le sue
strambe teorie antropologiche di stampo lombrosiano, poteva aver ragione.
Prima del risorgimento la situazione era tutt'altro che idilliaca. Era Catone il
Censore ad ammonire che «tutti i re appartengono al genere delle belve feroci».
Col risorgimento fu peggio. La perdita degli «usi civici» fu la più grande
catastrofe ch'esso portò alle popolazioni: le ridusse alla fame. Brigantaggio
legittimista e bacchettone? Ci fu anche quello ma le montagne d'Abruzzo, gli
altipiani del Cilento, le colline murgiane, le quote lucane furono guadagnate
perché ai «cafoni» veniva tolto l'essenziale per vivere. I «legni»
dell'emigrazione porteranno lontano le ultime speranze. Dopo, l'adeguamento alla
nuova situazione. Mentre i Calogero Sedara di gattopardesca memoria avevano
occupato le «stanze dei bottoni» del nuovo Regno d'Italia. Il grido delle folle,
sempre lo stesso: «Viva il Re!».
Si fecero massacrare ad Adua, in Macedonia, sulla Marna, sulla Bainsizza al
grido di «Avanti, Savoia!». I figli dei cafoni fattisi scannare in nome d'una
«belva feroce», i cui avi avevano sgozzato i loro padri. E il fascismo? Stessa
solfa. Cambiare tutto per non mutare granché. Ho sottomano un libro di storia
paesana: "Gente di casa nostra", Corcelli Editore in Bari. Vi si annota:
«Avvocato Giacomo D'Alessandro, Sindaco dal 1899 al 1902». Più in là: «Dottor
Luigi D'Alessandro, Podestà dall'8 giugno 1932 al 29 luglio 1938». Più in là
ancora: il Podestà è diventato Sindaco dal 19 dicembre 1964 al 4 febbraio 1966.
E qui gli «sturziani», di padre in figlio, sono sempre stati al potere. Con
Giolitti, con Mussolini, con De Gasperi e anche dopo. Tuttora.
Oggi Peppino Tatarella vuol rivalutare il suo compaesano Peppino Di Vittorio. Se
fosse sincero, s'apprezzerebbe la trasgressione. Ma non è così. La «rivolta
dell'acqua sala» di Di Vittorio cozzò contro la reazione della cavalleria di
Caradonna. Il quale si fece regime. Fu il regime. A guerra scoppiata si
lasciarono, i meridionali, ancora accoppare in una guerra giusta ma condotta in
maniera ingiusta. Che si sappia, solo Luigi Carallo da Bari, il futuro
leggendario vice-comandante della X Mas, ebbe il coraggio di mettere nero su
bianco tutte le miserie della Campagna di Grecia e inviare il manoscritto a
Mussolini, ancora ben saldo in arcione. Gli altri si sedettero a leccarsi le
ferite. È possibile una rivoluzione al Sud?
«Datece 'e fatica si nno appicciamo 'sta città». Il corteo vociante sfila per le
vie sporche di Napoli dopo il sit-in sotto gli stucchi anneriti della Galleria
Vittorio Emanuele II. Selva di cartelli. Il più buffo: «Ridateci il Regno delle
Due Sicilie». «Ridateci»: capite? Anche il linguaggio è «meridionale».
«Ridateci». No, «prendiamoci», «conquistiamoci». No... è il «dono» che si
pretende. È la prebenda. È l'elemosina. Ci deve essere sempre qualcuno che deve
dare. Dateci quel che volete purché ce lo diate.
E dopo la guerra non fu diverso. Ci diedero strade, ponti, dighe, quel che si
chiamò «capitale fisso sociale» ch'era indispensabile -si sosteneva da parte dei
magnati del Nord- per il decollo industriale. Poi arrivarono le industrie. L'Italsider
a Taranto, l'ENI a Gela, la Montecatini a Brindisi e Porto Torres. Quale
munificenza! Mandarono al Sud tutto ciò che inquinava, bruciava, avvelenava. Lo
Stato finanziava gli insediamenti, i privati incassavano i proventi, i
meridionali entravano nel circuito consumistico, si «emancipavano», costituivano
il grande mercato nel quale si vendeva quel che veniva prodotto «lassù». Le
colonie e la «Madrepatria».
In fase successiva la FIAT scende al Sud. Cassino, Termoli, Termini Imerese,
Pomigliano, Melfi. «Comprate italiano». L'Avvocato va da Maometto perché
l'«emancipazione» non contempla emigrazioni. Emigrare è verbo dei poveri. E qui
c'era ormai «ricchezza» e nuovi ricchi. E non c'è peggior ricco d'un povero
arricchitosi. Lo vediamo nel disprezzo per albanesi, marocchini, senegalesi.
Anche per noi meridionali, emigranti della terra, sono «vu' cumprà». Nel nuovo
clima di opulenza i contadini, lasciati nella miseria d'una riforma agraria
monca, diventavano operai. S'andava oltre Gramsci e le sue teorie. Era la
completa distruzione del Sud, la sua totale snaturalizzazione. Ma chi si faceva
carico d'interrogarsi sul proprio destino di popolo? «Dateci, ridateci». Ci
diedero.
* * *
Quel che faccio non è polemica «sudista». Io sono italiano ed europeo in quanto
tale. Non credo ad alleanze, leghe, fasci di leghe. Sono scettico, ormai. Ma non
disperato. Perché non si deve mai perdere la speranza nell'uomo. Nemmeno mi
faccio tante illusioni. Conosco la mia gente e il «sacro» fuoco che la pervade.
Finora è stato, quando è stato, di paglia. S'è ringhiato fintante che non s'è
avuto l'osso da rosicchiare. Ma non c'è più alcunché da rosicare.
Tutto è spolpato. La crisi che ci pervade non è solo economica.
Vent'anni fa Pasolini in "Lettere luterane" l'aveva scritto: «L'Italia d'oggi è
distrutta certamente come l'Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è
ancora più grave perché non ci troviamo tra macerie, sia pure strazianti, di
case e monumenti ma tra le macerie di valori: valori umanistici e, quel che più
importa, popolari».
E la rinascita può ricominciare riconsiderando e approfondendo quei «valori di
popolo» che sono alla base della nostra storia. Non è predicando scissioni,
secessioni, guerre civili che si risolve il problema. Ch'è un problema
nazionale. Uno.
Bossi, frutto amaro, e non seme, di una comunità spampanata sotto la tenda di
Cassibile, non può andarsene, indottrinato dalle scempiaggini d'un Miglio che
sogna la ricostituzione d'una Mitteleuropa che non esiste più: e lo sa.
I mallevadori di farneticanti «Repubbliche del Sud» e di ridicoli «Regni
meridionali» non s'illudano. I nefasti della guerra civile non devono
rinverdirsi. Basta quel ch'è stato.
Ma i meridionali devono ritrovare la dignità di uomini liberi. E devono
finalmente capire che la vita non è un «dono» ma una «conquista». È lotta
feroce. È sangue e sudore. La vita non consente scorciatoie per la felicità. La
vita è lavoro, non assistenzialismo. Le fabbriche possono riconvertirsi perché
l'Occidente soffre d'iperproduzione. Ma le fabbriche si conquistano. E si
gestiscono. Si possono cogestire. Ma la cogestione presuppone capacità e dignità
decisionale. La rassegnazione al concetto del lavoro quale mercé di scambio
toglie dignità all'uomo. E se l'uomo saprà riconquistarsi la dignità a dirsi
tale, diventerà rispettabile e temibile. Ma per far questo bisogna «dare», non
«chiedere». Solo così potremo risalire «a rivedere le stelle».
Vito
Errico
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