«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 7 - 31 Ottobre 1993

 

le polemiche

Il buono e i cattivi


 

Mi immagino Alessandro Galante Garrone bambino, scolaretto delle elementari. È il più bravo della classe, alza sempre la mano per primo, si arrabbia se qualche Pierino, durante la lezione, osa chiacchierare o solo distrarsi. Alessandro è tutto pulitino, educatino, perbenino. Ed è talmente forte il suo senso del dovere che allorché il Pierino di cui dicevamo fa qualche brutta cosa, Alessandro scatta in piedi come un perfetto soldatino e con il volto fiammeggiante dallo sdegno, il dito puntato, la vocetta vibrante, strilla: «Signor maestro, Pierino mi ha strappato una pagina del quaderno (oppure, a scelta: ha detto una parolaccia, mi ha gettato per terra la penna ecc. ecc.) E se durante la ricreazione, Pierino gli da un cazzotto sul muso, il Nostro nasconde fieramente le lacrime e con occhio torvo sentenzia: «Cattivo!».
Perché Alessandro divide rigorosamente il mondo in buoni e cattivi: i buoni sono quelli che si comportano come lui, i cattivi tutti gli altri. Va capito, il caro, diligentissimo Alessandro: in fondo, è soltanto un bambino. Anche se zelante come un maggiordomo, severo come un giudice, spietato come un inquisitore, vanitoso come una ballerina di prima fila: ad esempio, freme di gioia orgogliosa quando il maestro gli assegna un ruolo a cui lui tiene particolarmente, come quello di scrivere sulla lavagna nomi e cognomi di buoni e cattivi. Sono proprio occasioni in cui il visetto di Alessandro è tutto uno spettacolo: gli occhi si muovono lentamente dall'uno all'altro dei compagni, selezionano i reprobi, indugiano con vago sadismo sulle facce contrariate, lanciano sguardi saettanti. Alessandro non perdona: tutti quelli che vanno meglio di lui a ginnastica o che hanno sulle ginocchia i graffi e i lividi del troppo pallone saranno biancocrocefissi sull'orribile tavola nera. E lui sorriderà giustamente soddisfatto: avrà fatto il suo dovere perché i cattivi non possono essere perdonati.
Anzi, vanno continuamente puniti. I buoni, i cattivi. Alessandro, l'abbiamo detto, ha le idee chiare: e la storia, la materia che preferisce perché ci da tanti esempi, è chiara come lui. Sulle sue pagine apprende, infatti, che le umane vicende sono segnate dall'eterna lotta tra i buoni e i cattivi, e che la vittoria finale toccherà inevitabilmente ai primi: agli ateniesi sugli spartani, ai romani sugli etruschi e i cartaginesi, ai cristiani sui pagani, ai conquistadores sugli indios e, cavalcando da un secolo all'altro, ai sanculotti sugli aristocratici, ai nordisti sui sudisti, ai cow-boys sugli indiani, ai garibaldini sui borbonici, ai Savoia sugli Absburgo, all'Intesa sulla Triplice ecc. ecc.
Alessandro cresce, va al liceo, poi all'università, e il suo rigore si rafforza. Di qua i buoni, di là i cattivi, non esistono mezzi toni, non ci sono chiaroscuri, gli fanno orrore i dubbi di quei (cattivi!) compagni di studi che ogni tanto si chiedono perplessi: ma non è che i pellirosse avessero qualche ragione? ma erano davvero mostri ingordi di sangue coloro che credevano al binomio trono-altare? ma siamo proprio sicuri che i soldati tedeschi avessero il vezzo di lanciare per aria i bambini belgi infilandoli sulla punta delle baionette?
Alessandro guarda con fastidio o addirittura con sdegno chi si pone questi interrogativi, il suo ideale registro dei buoni e dei cattivi è quello di sempre, non ci possono essere aggiornamenti perché la verità non si aggiorna, era, è e sarà, e la storia è stata scritta una volta per sempre. Ma siamo matti? Figuriamoci... Le ragioni degli spartani, dei vandeani, degli austriaci... Per carità... Avevano delle idee, si battevano per dei valori, morivano per degli ideali? Lasciamo perdere: erano idee aberranti, non-valori, parodie di ideali, la storia, anzi la Storia, ha già detto quel che doveva dire.
Buoni, cattivi: gli uni elencati da una parte, gli altri dall'altra, su una bella lavagna nera, attaccata alla parete della classe, vicino alla cattedra, nella scuola-tempio dove i cattivi vanno in castigo. E ci restano nunc et semper sotto il vigile sguardo dei buoni. Alessandro lo sa, ora è lui il maestro, pronto a distribuire rimproveri e bacchettate.
Figuriamoci ora se il Nostro, diventato un santone e un solone dell'antifascismo professionale, può accettare che a cinquant'anni di distanza dalla allegra vendemmia di sangue fraterno, fascisti e partigiani si riconcilino in nome dell'Italia da costruire!
Figuriamoci se nel suo cuore, che ora e sempre batte Resistenza, può trovare spazio il rispetto per il nemico vinto che si sia battuto con onore, sicuro di farlo in nome dell'Italia! Eh, no, perdìo, non confondiamo le carte, i fascisti sono cattivi, sono l'antistoria (anzi l'antiStoria), sono la barbarie con cui la civiltà non può riconciliarsi, ha fatto bene "La Stampa" a intitolare il polemico no garroniano "Ma civiltà e barbarie non si riconciliano".
Dunque, non sia mai detto, vade retro Satana in camicia nera, non ci può essere rispetto per i cattivi: «Le aspirazioni alla libertà -dell'uomo singolo, delle nazioni, degli strati sociali- in una parola il progresso, l'apertura verso una più alta civiltà, erano, nella Resistenza come nel Risorgimento, da una parte sola».
Ha ragione A. Galante Garrone: cinquant'anni fa c'è stata una «guerra di civiltà». Ma non nel senso che crede lui, incanutito cacciatore di barbari. Nel senso, invece, che allora -in mezzo ad opportunisti, vigliacchi, carogne di varia natura, voltagabbana, faziosi armati di inestinguibile ferocia- ci fu chi impugnò il mitra in nome di un'idea dell'Italia, da servire civilmente, cioè non sottraendosi al proprio dovere di testimoniare e di pagare di persona. Chi si sentiva cives di un'Italia comunque da rifare divenne miles. Noi abbiamo le testimonianze di tanti di questi soldati che andarono a combattere e a morire dall'una e dall'altra parte. A cinquant'anni di distanza, sarebbe bene che nelle scuole si leggessero le lettere dei condannati a morte degli opposti fronti per verificare da quanti valori quei combattenti di una lotta fratricida fossero accomunati. È da loro che le nuove generazioni possono imparare, da questi buoni che si immolarono per l'Italia.
Teniamo ben presente che cinquant'anni di retorica resistenziale e di mistificazioni antifasciste utili a garantire il sistema di Tangentopoli non hanno solamente irriso e calpestato il sacrificio di chi allora scelse la Repubblica Sociale ma hanno anche profanato i valori della Resistenza, proprio quelli di progresso, libertà, democrazia sbandierati da A. Galante Garrone.
Di che cosa ha paura il nostro Alessandro? Che cos'è che teme? Che si possa, storicamente, parlare sine ira et studio del passato, restituendo cavalierescamente l'onore a chi combattè dalla parte sbagliata? Che, disfacendoci di tutte le retoriche, si possa costruire insieme una nuova repubblica mandando al macero quella vecchia? Che coloro che hanno combattuto in buona fede possano stringersi la mano, fedeli alle loro rispettive memorie ma desiderosi soprattutto di costruire il futuro?
La vecchiaia dovrebbe portar consiglio, no? Ma probabilmente Alessandro non è uscito dal suo involucro di bambino saccente che segna sulla lavagna i nomi dei buoni e quelli dei cattivi: non lo fa però con lo spirito di Garrone ma con quello di Franti.

 

Mario Bernardi Guardi

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