le polemiche
Il buono e i cattivi
Mi immagino Alessandro Galante
Garrone bambino, scolaretto delle elementari. È il più bravo della classe, alza
sempre la mano per primo, si arrabbia se qualche Pierino, durante la lezione,
osa chiacchierare o solo distrarsi. Alessandro è tutto pulitino, educatino,
perbenino. Ed è talmente forte il suo senso del dovere che allorché il Pierino
di cui dicevamo fa qualche brutta cosa, Alessandro scatta in piedi come un
perfetto soldatino e con il volto fiammeggiante dallo sdegno, il dito puntato,
la vocetta vibrante, strilla: «Signor maestro, Pierino mi ha strappato una
pagina del quaderno (oppure, a scelta: ha detto una parolaccia, mi ha gettato
per terra la penna ecc. ecc.) E se durante la ricreazione, Pierino gli da un
cazzotto sul muso, il Nostro nasconde fieramente le lacrime e con occhio torvo
sentenzia: «Cattivo!».
Perché Alessandro divide rigorosamente il mondo in buoni e cattivi: i buoni sono
quelli che si comportano come lui, i cattivi tutti gli altri. Va capito, il
caro, diligentissimo Alessandro: in fondo, è soltanto un bambino. Anche se
zelante come un maggiordomo, severo come un giudice, spietato come un
inquisitore, vanitoso come una ballerina di prima fila: ad esempio, freme di
gioia orgogliosa quando il maestro gli assegna un ruolo a cui lui tiene
particolarmente, come quello di scrivere sulla lavagna nomi e cognomi di buoni e
cattivi. Sono proprio occasioni in cui il visetto di Alessandro è tutto uno
spettacolo: gli occhi si muovono lentamente dall'uno all'altro dei compagni,
selezionano i reprobi, indugiano con vago sadismo sulle facce contrariate,
lanciano sguardi saettanti. Alessandro non perdona: tutti quelli che vanno
meglio di lui a ginnastica o che hanno sulle ginocchia i graffi e i lividi del
troppo pallone saranno biancocrocefissi sull'orribile tavola nera. E lui
sorriderà giustamente soddisfatto: avrà fatto il suo dovere perché i cattivi non
possono essere perdonati.
Anzi, vanno continuamente puniti. I buoni, i cattivi. Alessandro, l'abbiamo
detto, ha le idee chiare: e la storia, la materia che preferisce perché ci da
tanti esempi, è chiara come lui. Sulle sue pagine apprende, infatti, che le
umane vicende sono segnate dall'eterna lotta tra i buoni e i cattivi, e che la
vittoria finale toccherà inevitabilmente ai primi: agli ateniesi sugli spartani,
ai romani sugli etruschi e i cartaginesi, ai cristiani sui pagani, ai
conquistadores sugli indios e, cavalcando da un secolo all'altro, ai sanculotti
sugli aristocratici, ai nordisti sui sudisti, ai cow-boys sugli indiani, ai
garibaldini sui borbonici, ai Savoia sugli Absburgo, all'Intesa sulla Triplice
ecc. ecc.
Alessandro cresce, va al liceo, poi all'università, e il suo rigore si rafforza.
Di qua i buoni, di là i cattivi, non esistono mezzi toni, non ci sono
chiaroscuri, gli fanno orrore i dubbi di quei (cattivi!) compagni di studi che
ogni tanto si chiedono perplessi: ma non è che i pellirosse avessero qualche
ragione? ma erano davvero mostri ingordi di sangue coloro che credevano al
binomio trono-altare? ma siamo proprio sicuri che i soldati tedeschi avessero il
vezzo di lanciare per aria i bambini belgi infilandoli sulla punta delle
baionette?
Alessandro guarda con fastidio o addirittura con sdegno chi si pone questi
interrogativi, il suo ideale registro dei buoni e dei cattivi è quello di
sempre, non ci possono essere aggiornamenti perché la verità non si aggiorna,
era, è e sarà, e la storia è stata scritta una volta per sempre. Ma siamo matti?
Figuriamoci... Le ragioni degli spartani, dei vandeani, degli austriaci... Per
carità... Avevano delle idee, si battevano per dei valori, morivano per degli
ideali? Lasciamo perdere: erano idee aberranti, non-valori, parodie di ideali,
la storia, anzi la Storia, ha già detto quel che doveva dire.
Buoni, cattivi: gli uni elencati da una parte, gli altri dall'altra, su una
bella lavagna nera, attaccata alla parete della classe, vicino alla cattedra,
nella scuola-tempio dove i cattivi vanno in castigo. E ci restano nunc et semper
sotto il vigile sguardo dei buoni. Alessandro lo sa, ora è lui il maestro,
pronto a distribuire rimproveri e bacchettate.
Figuriamoci ora se il Nostro, diventato un santone e un solone dell'antifascismo
professionale, può accettare che a cinquant'anni di distanza dalla allegra
vendemmia di sangue fraterno, fascisti e partigiani si riconcilino in nome
dell'Italia da costruire!
Figuriamoci se nel suo cuore, che ora e sempre batte Resistenza, può trovare
spazio il rispetto per il nemico vinto che si sia battuto con onore, sicuro di
farlo in nome dell'Italia! Eh, no, perdìo, non confondiamo le carte, i fascisti
sono cattivi, sono l'antistoria (anzi l'antiStoria), sono la barbarie con cui la
civiltà non può riconciliarsi, ha fatto bene "La Stampa" a intitolare il
polemico no garroniano "Ma civiltà e barbarie non si riconciliano".
Dunque, non sia mai detto, vade retro Satana in camicia nera, non ci può essere
rispetto per i cattivi: «Le aspirazioni alla libertà -dell'uomo singolo, delle
nazioni, degli strati sociali- in una parola il progresso, l'apertura verso una
più alta civiltà, erano, nella Resistenza come nel Risorgimento, da una parte
sola».
Ha ragione A. Galante Garrone: cinquant'anni fa c'è stata una «guerra di
civiltà». Ma non nel senso che crede lui, incanutito cacciatore di barbari. Nel
senso, invece, che allora -in mezzo ad opportunisti, vigliacchi, carogne di
varia natura, voltagabbana, faziosi armati di inestinguibile ferocia- ci fu chi
impugnò il mitra in nome di un'idea dell'Italia, da servire civilmente, cioè non
sottraendosi al proprio dovere di testimoniare e di pagare di persona. Chi si
sentiva cives di un'Italia comunque da rifare divenne miles. Noi abbiamo le
testimonianze di tanti di questi soldati che andarono a combattere e a morire
dall'una e dall'altra parte. A cinquant'anni di distanza, sarebbe bene che nelle
scuole si leggessero le lettere dei condannati a morte degli opposti fronti per
verificare da quanti valori quei combattenti di una lotta fratricida fossero
accomunati. È da loro che le nuove generazioni possono imparare, da questi buoni
che si immolarono per l'Italia.
Teniamo ben presente che cinquant'anni di retorica resistenziale e di
mistificazioni antifasciste utili a garantire il sistema di Tangentopoli non
hanno solamente irriso e calpestato il sacrificio di chi allora scelse la
Repubblica Sociale ma hanno anche profanato i valori della Resistenza, proprio
quelli di progresso, libertà, democrazia sbandierati da A. Galante Garrone.
Di che cosa ha paura il nostro Alessandro? Che cos'è che teme? Che si possa,
storicamente, parlare sine ira et studio del passato, restituendo
cavalierescamente l'onore a chi combattè dalla parte sbagliata? Che,
disfacendoci di tutte le retoriche, si possa costruire insieme una nuova
repubblica mandando al macero quella vecchia? Che coloro che hanno combattuto in
buona fede possano stringersi la mano, fedeli alle loro rispettive memorie ma
desiderosi soprattutto di costruire il futuro?
La vecchiaia dovrebbe portar consiglio, no? Ma probabilmente Alessandro non è
uscito dal suo involucro di bambino saccente che segna sulla lavagna i nomi dei
buoni e quelli dei cattivi: non lo fa però con lo spirito di Garrone ma con
quello di Franti.
Mario
Bernardi Guardi
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