la memoria storica
Ernst Nolte
"Il giovane Mussolini.
Marx e Nietzsche in Mussolini socialista"
a cura di Francesco Coppellotti
Sugarco. pp. 164. lire 20.000
Mussolini tra Marx e
Nietzsche
«... io odio il buon senso. E lo
odio in nome della vita e del mio invincibile gusto per l'avventura... I
cavalieri dell'alto medioevo che andavano cercando duelli e tornei; i santi che
si ritiravano a macerarsi la carne nel deserto; i guerrieri, gli alchimisti, gli
astrologi, gli stregoni e gli eretici e i fascinatori di popoli da Rolando di
Roncisvalle a Pietro l'Eremita, da San Francesco d'Assisi a Ruystrock
l'Ammirabile, dovettero lottare sino alla disperazione contro il buon senso che
li consigliava al riposo, alla sosta, alla transazione, alla viltà... La società
borghese ha creato l'uomo macchina, l'uomo funzionario, l'uomo orologio, l'uomo
regola. Io sogno invece l'uomo eccezione... Voglio andare alla caccia del buon
senso; lo voglio uccidere... Assumerà forme e maschere incessantemente diverse;
sarà nero e rosso, conservatore e rivoluzionario, spavaldo e pusillanime, uomo e
donna. Ma io... lo stenderò al suolo. Poi getterò il cadavere alle moltitudini e
dirò: Cittadini, ho ucciso il vostro peggiore nemico. Intrecciamo, in segno di
gioia, una matchiche infernale».
L'autore di questa prosa visionaria, attraversata da ebbrezze zarathustriane, è
Benito Mussolini. Siamo nel 1913 e l'antico agitatore sovversivo, che per anni
ha coniugato passione politica e fame, è diventato uno degli uomini più
rappresentativi del partito socialista, una penna polemica tra le più note e
amate, l'avversario più feroce di riformisti e massoni: e "l'Avanti!", sotto la
sua guida, sta conoscendo una straordinaria espansione.
Ma nell'aprile del 1913, l'articolo «Caccia al "buon senso"» non compare
sull'organo ufficiale dei socialisti ma sul settimanale "La folla", diretto da
Paolo Valera. E Mussolini lo firma con il vecchio pseudonimo "L'homme qui
cherche".
L'uomo politico più emblematico del secolo ventesimo è infatti un cercatore, un
saggiatore di territori inesplorati, un avventuriero dello spirito che accoglie
in sé le inquietudini del suo tempo, quasi attendendo la grande occasione per
farle esplodere contro il sistema.
Intendiamoci: questo Mussolini è socialista e marxista, e null'altro per ora
potrebbe essere con quello che si porta dietro e dentro per origini familiari,
letture, esperienze di vita.
Mussolini è un rivoluzionario che cerca di guardare ai fatti della politica con
occhio lucido e disincantato: ha voglia di capire e di denunciare, di dar
battaglia e di annunciare qualcosa che in lui è ancora oscuro ma che forse sta
già prendendo forma. Sotto il segno di Marx e di Nietzsche, dell'aspirazione
alla giustizia sociale e della tensione aristocratica, di un materialismo che
non è né deterministico né positivistico ma è scosso da fremiti volontaristici,
e di una filosofia della vita che non vuole ridursi a mero estetismo, forte
com'è della vocazione decisionistica a irrompere nella realtà, a conquistarla, a
trasformarla.
Il saggio di Ernst Nolte, il primo dei lavori scientifici dello storico delle
idee tedesco, pubblicato nel 1960 sulla Historische Zeitschrift, è dunque
centrato sulla formazione del giovane Mussolini, non tanto per fare incetta dei
temi e dei motivi che anticipano il fascista, quanto per dar conto di come e
perché quel socialista di sinistra che leggeva, sì, Nietzsche, ma che ci teneva
a ribadire, a riaffermare con forza e costantemente il suo marxismo, fu quasi
obbligato ad andare oltre. Per essere fedele, potremmo dire con Nizan e Drieu,
alla sua giovinezza, alla sua voglia di azione e di rivoluzione. Respirata, per
l'appunto, sotto la duplice influenza di Marx e di Nietzsche: la prima,
fondamentale e formativa per la costituzione della coscienza del rivoluzionario;
la seconda, non meno importante per quel che seppe suggerire al Mussolini
intellettuale del Novecento, implicato nelle contraddizioni della modernità e
ansioso di scioglierle con i gesti e le parole che riscattano la dimensione
qualitativa e spirituale dell'individuo, sottraendola ai lacci della mediocrità
borghese.
Nolte, alla cui serietà di studioso può essere mosso il solo rimprovero di aver
spostato la data di nascita di Mussolini dal 28 luglio al 17 giugno del 1883,
segue il processo di identificazione ideologico-politica del futuro Duce,
mostrando come per «porre in modo nuovo la questione dell'essenza del fascismo»
sia impossibile prescindere da Mussolini.
Attenzione, però: «II concetto di fascismo dovrà essere determinato in modo
diverso se Mussolini deve essere considerato come disertore, come defroqué del
socialismo; altro è il caso se, inversamente, il socialismo fu soltanto il
conduttore indifferente che permise a un ambizioso e affamato di potere di
muovere i primi passi per l'ascesa; e ancora diversa è la situazione se nel
giovane giornalista socialista era già preformato, per il modo di pensare e per
le convinzioni, il Duce prefascista. Non è tuttavia possibile risolvere nessuno
di questi problemi se prima non è chiarito anche il rapporto di Mussolini con i
due pensatori più significativi e più contraddittori in cui s'imbattè». E cioè
Marx e Nietzsche.
Per Mussolini, che dibatte e si batte, dalle colonne dei giornali e sulle
piazze, prima che esploda la guerra mondiale, Marx è il «magnifico filosofo
della violenza operaia». Nolte non nega certo gli influssi soreliani e la
contiguità tra Mussolini e uomini e ambienti del sindacalismo rivoluzionario ma
ritiene che l'agitatore romagnolo sia più in sintonia col concetto marxiano di
violenza ostetrica, «e cioè giustificata e significativa solo se libera un nuovo
ordine sociale già preformato nei suoi tratti fondamentali», piuttosto che con
la metafisica della violenza soreliana, una sorta di precondizione dell'umanità:
attraverso di essa, gli operai dovrebbero, contro la decadenza provocata dalle
istituzioni e dai costumi democratici, innalzare la bandiera del sublime,
agitata un tempo dai santi e dagli eroi. Che queste immagini mitiche siano
comunque tutt'altro che estranee al giovane Mussolini l'abbiamo visto dalla
lettura della prosa balenante e irriverente dell'homme qui cherche: un marxista,
un socialista di sinistra, un protocomunista che, realisticamente, avversa, ed
anche con parole violente, la mania sindacalista di fare appello di continuo a
quello sciopero generale che esige invece preparazione; che, altrettanto
realisticamente, «non è nemmeno antiparlamentare nel senso dell'astensionismo
anarchico e sindacalista»; ma che, idealisticamente, combatte contro i
riformisti «emigranti della borghesia», contro il «socialismo degli avvocati»,
detestato da Sorel, contro coloro che, «inquinati dal parlamentarismo, cercano
di porre la collaborazione al posto della lotta di classe»; e che, forse anche
in accordo, come vuole Nolte, con lo spirito del marxismo -che è
rivoluzionario-, contro il senso del marxismo -che è riformista (lo spirito del
marxismo peraltro ha creato la tragedia del socialismo reale-; il senso del
marxismo sbiadisce nell'ottusità socialdemocratica o nella patetica conversione
dei terzaforzisti al liberismo, al mercantilismo, al neocapitalismo ecc: ma
questo è un altro discorso perché Mussolini vive la stagione eroica e
progettuale della lotta di classe, può scrivere: è la rivoluzione che «con la
rapidità del fulmine opera la selezione tra i forti e i deboli, tra gli apostoli
e i mestieranti, tra i coraggiosi e i vili...»; «Avanti, nuovissimi barbari...
Come tutti i barbari, anche voi siete i precursori di una nuova civiltà»; «Chi
dice fecondazione, dice lacerazione. Nessuna vita senza effusione di sangue»;
«[...] il ponte che condurrà l'umanità dalla lotta per la vita all'intesa per la
vita, sarà gettato dal socialismo»; «[...] gli uomini oggi... vogliono agire,
produrre, domare la materia, godere di questo trionfo che esaspera le illusioni,
moltiplica le energie della vita, e spinge verso altre mete, verso altri
orizzonti, verso altri ideali!»; «è l'ideale -è la nostra méta- che ci da un
inconfondibile sigillo che ci differenzia da tutti gli altri uomini, che si
esauriscono nella lotta per il vantaggio immediato»; «II nostro idealismo ci
porta a trascurare l'oggi per il domani, a vedere tutte le cose sub specie
aeternitatis ...»; «Noi vogliamo che il Primo Maggio dia, coll'efficacia del
simbolo, il senso eroico della vita a coloro che soffrono»; «È la fede che muove
le montagne, perché da l'illusione che le montagne si muovano. L'illusione è,
forse, l'unica realtà della vita»; «C'è della vita, c'è dell'entusiasmo, c'è
della forza nelle nostre file».
Questo Mussolini non sente ancora né la Patria né la Nazione né lo Stato: tutte
grandezze che, da socialista e da marxista, giudica come espressioni
mistificatorie del comitato d'affari al servizio della borghesia; non c'è certo
in lui nessuna prefigurazione di un movimento politico come il fascismo che
canterà, domani, la gloria della tradizione romana, le virtù dei maiores, la
maestà monumentale dell'Urbe: anzi, per lui, Roma è «città parassitaria di
affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati... enorme
città vampiro che succhia il miglior sangue della nazione»; e, coerentemente con
la tradizione umanitaria, internazionalista e pacifista, anche il rifiuto del
militarismo è netto. Infatti, «i borghesi quando inneggiano alla guerra sono al
posto loro. La guerra per la guerra, essi vogliono. È questa l'arrière-pensée di
lor signori. La guerra che li liberi dal socialismo, intanto che esso è virgulto
facile ad essere stroncato», mentre «il proletariato supera "il concetto di
patria con un altro concetto, quello di classe"».
Eppure... Eppure, che cosa avverrà del Mussolini marxista quando si farà chiara
in lui la coscienza che l'Italia «si trova al di qua della lotta di classe, anzi
al di qua della nazionalità»? Quale rivoluzione potrà e dovrà fare il lettore di
Marx e di Sorel, il sovversivo che guarda con interesse alla teoria delle élites
di Pareto, l'agitatore che in Trentino e in Svizzera ha sofferto sulla pelle la
condizione di marginalità propria non solo del socialista ma dell'italiano in
quanto tale?
Se è vero, come scrive Nolte, che l'«idealismo» e il «volontarismo» di Mussolini
«devono essere compresi nell'ambito della critica all'evoluzionismo non
dialettico, e che sotto forme strane fanno valere momenti essenziali del
pensiero marxiano», è vero anche che l'idealismo e volontarismo lentamente
debbono maturare in senso nazionale: non si tratta infatti di fare una
rivoluzione contro l'Italia ma di fare, insieme, l'Italia e la rivoluzione, o,
se si preferisce, la guerra e la rivoluzione degli Italiani. Fare, con
entusiasmo, la rivoluzione possibile: quella degli intellettuali e dei proletari
in divisa che arrivano alla società nazionale attraverso la microcomunità del
fronte, che nella partecipazione viva alla sofferenza e al sacrificio avvertono
una solidarietà che va al di là della classe, che nella fraternità d'armi della
trincea colgono le ragioni di una presenza politica, di un diritto alla politica
nell'Italia ancora da fare.
Lo spirito del Mussolini marxista non avrà difficoltà a incontrarsi con le
ragioni della guerra rivoluzionaria, dell'azione politica grazie alla guerra
rivoluzionaria, contro l'inazione dell'ideologismo sterile del pacifismo
settario. Come avrebbe potuto agire diversamente Mussolini che «la storia voleva
farla, non subirla»? Attenzione, osserva Nolte, quest'uomo crede ancora alla
rivoluzione internazionale e sarebbe disposto a «capire la neutralità assoluta
(dei socialisti, n.d.r.) qualora avessero il coraggio di arrivare fino in fondo
e cioè di provocare l'insurrezione; ma questa a priori la scartano perché sanno
di andare incontro a un insuccesso. E allora dicano francamente che sono
contrari alla guerra perché hanno paura delle baionette».
Mussolini non ha paura, invece, di scommettere sulle baionette e sulla
rivoluzione. Che sarà, sempre più realisticamente e ideologicamente rivoluzione
dell'Italia nata in trincea, rivoluzione nazionale. Sbaglia, però, Nolte quando
scrive: «[...] questo Cesare trionfatore non fu certo solo un "Cesare di gesso":
egli era soprattutto un Cesare che era stato prima il suo proprio Bruto. E
quando la sua fortuna era passata e lo avevano distrutto le stesse forze che
vent'anni prima avevano accolto con ringraziamenti, per quanto preoccupati, l'autonominatosi
loro luogotenente, poi spesso da loro corteggiato, riemerse allora, nonostante
tutte le riserve verbali, il socialista marxista che voleva annientare la
borghesia e pareggiare quelle differenze sociali, che un tempo i suoi squadristi
avevano dovuto difendere con spietata violenza affinchè si dimenticassero i suoi
inizi e si nutrisse fiducia nella persona idonea, capace di governare ...».
No, in Mussolini non riemerge il socialista marxista: ma emerge chiaramente il
socialista italiano che vuole strappare i valori della Patria, dello Stato e
della Tradizione alla borghesia (categoria dello spirito prima ancora e più che
categoria sociale), al suo gusto per le maiuscole retoriche e per le
contraffazioni idealistiche di interessi materialistici. Per dirla con Berto
Ricci, Mussolini chiama a raccolta il popolo d'Italia contro «gli inglesi di
dentro», quelli che a suo tempo hanno accettato la normalizzazione fascista per
paura della sovversione. E che ora si sono alleati con la sovversione contro il
fascismo. Perché?
Sciogliere questo interrogativo significa capire la logica delle alleanze nella
Seconda Guerra Mondiale. E significa anche capire perché la speranza
mussoliniana di lasciare l'eredità della sua repubblica a socialisti e uomini di
sinistra naufraghi in una patetica illusione. Il fatto è che socialisti,
azionisti, repubblicani, comunisti non volevano sentirsi sulle spalle l'onere di
costruire quel socialismo italiano, svincolato da pressioni esterne e interne,
che Mussolini, in mezzo a mille errori, pure aveva abbozzato. C'è un po' di
spirito marxista in questo socialismo italiano che non fu perché non poteva
essere?
Bisognerebbe mettersi a dibattere a questo punto su ciò che è vivo e ciò che è
morto in Marx, sul Marx dei marxisti ecc.
Di spunti e temi sicuramente nietzschiani invece ce ne sono, eccome! Se, come
scrive il filosofo di Zarathustra, l'Occidente sta tutto intero nel pessimismo e
nella volontà nel e del pessimismo, il fascismo repubblicano -o il socialismo
italiano?- dell'ultimo Mussolini sono il carnale emblema di questa intuizione
nietzschiana. I fascisti a cui le donne non vogliono più bene perché hanno la
camicia nera e dunque odorano di sangue e di morte, questi fascisti che si
portano la morte -la Signora Morte- dentro, che se la trascinano dietro, ma se
ne fregano, non sperando certo nella vittoria ma vogliono solo conservare una
goccia di stile per non piagnucolare di fronte al nemico.
Forse la loro vita non è stata aureolata dalla divina grandezza che i vati fanno
brillare in fronte agli eroi ma quel morire contro il buon senso è un bel tratto
nietzschiano e fascista.
Del resto, è proprio nel Mussolini, ancora socialista e marxista, però
suggestionato dalla filosofia della vita, però lettore di Nietzsche, però, e
soprattutto, spregiatore del buon senso, che Nolte, tutt'altro che incline alle
esemplificazioni e alle anticipazioni di identità, coglie il fascista in fieri.
Che non è però il tipo che «aspira all'eccezione come eccezione» al di là di
tutti i principi, che riduce Nietzsche alla filosofia del «vivi
pericolosamente», che ha tolto al marxismo la sua «anima», lasciandogli nelle
braccia la forza e nelle mani la spada: questa è una caricatura, cioè
l'esasperazione enfatizzata di alcuni caratteri. Ma qui si entrerebbe in una
specie di antropologia del fascismo: accontentiamoci di dire che il fascista
tende ad essere al di sopra delle righe, crede che l'eccezione abbia una propria
norma, il corpo un suo spirito, la vita una sua pienezza, la morte un suo stile.
E l'uomo e le nazioni un diritto alla giovinezza come ricambio continuo di
entusiasmi e di passioni, anche se ciò costa guerra e sangue. Tutte cose che si
ritrovano nel Mussolini socialista, discepolo di Marx, tentato da Nietzsche e da
mille avventure/eventi che egli in gran parte vivrà. Inesorabilmente fedele,
come Nolte ben comprende, alla nietzschiana unità di vita e pensiero.
Un'ultima considerazione: il saggio dello studioso tedesco, che contiene in
appendice una raccolta di scritti mussoliniani su Marx e su Nietzsche, è
accompagnato da una postfazione di Francesco Coppellotti, che raccomandiamo ai
lettori per il taglio intelligente e coraggioso. Già il titolo -L'inutile
menzogna antifascista e la sua necessaria catastrofe- è un'indicazione di
percorso che offre garanzie di lucidità. L'inizio, poi, è un immediato atto di
guerra al conformismo: «Uno dei tratti caratteristici dell'antifascismo italiano
in tutte le sue componenti, in modo particolare azionista e stalinista, è stato
quello di voler togliere dignità filosofica-politica al Mussolini marxista e poi
fascista, per affogare sul nascere ogni dibattito nella falsa dicotomia
progresso-reazione». Questa chiarezza e durezza di toni non viene mai meno,
neppure nelle note, dove leggiamo: «[...] il torto dell'antifascismo fu quello
di mitizzare come fonte di un nuovo Risorgimento lo sfascio politico e militare
dello Stato e l'asservimento della nazione agli interessi strategici delle vere
potenze in lotta. È evidente che l'unico scopo politico che un antifascismo
politicamente fallito poteva perseguire era la sconfitta dell'Italia, anche a
costo del dissolvimento di uno Stato che si era ormai identificato col
fascismo».
Mario
Bernardi Guardi
da «Pagine Libere», luglio-agosto 1993, n° 4
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