la memoria storica
Facciamoci male,
insieme
A cinquant'anni di distanza, il
25 luglio e l'8 settembre del '43 sono stati così abbondantemente e
meticolosamente ricostruiti e commentati che a molti è parso quasi di averli
vissuti quei due giorni cruciali che non segnarono solo il profilo di un'estate
ma quelli di un tempo che ancora ci fiacca. C'è chi, tastando il polso e il
cuore di quegli eventi, ha provato a mettersi nei panni dei protagonisti: e si è
ritagliato addosso il Mussolini amaro e dolente del 25 luglio, oppure il Re,
piccolo piccolo, cui mancò il coraggio di assestare una franca pugnalata al
Dittatore, o magari il maresciallo Badoglio, eroe cialtronesco di un la guerra
continua, abbaiato un attimo prima di biascicare il proclama dello sbandamento:
tutti a casa, italiani dalle molte vite, ad arrangiarvi, come del resto avete
sempre fatto. Due giorni cruciali, dicevamo: nel senso che l'Italia fu messa in
croce, riuscì a schiodarsi e a menare qualche colpo di passione disperata,
dissanguandosi, e alla fine vi fu riappesa, ed è ancora là, abbacchiata, col
capo ciondolante, scosso da rari sussulti; e qualche cos 'altro che aveva la
forma, i colori e gli odori dell'Italia, simile a lei, partorito da lei, ma con
i tratti sinistri, deformati e caricaturali, si accovacciò ai piedi di quella
croce, giocandosi a dadi le vesti dell'Appesa e facendo la guardia, perché la
morte, quando è buona, è temibile.
Sappiamo che a qualcuno non piaceranno queste immagini e che le giudicherà
viziate da un gusto retorico d'antan: ma a furia di temere come la peste la
retorica e la sua grandiosità di accenti, ci siamo ridotti a un così basso stile
di vita e di opere che a questo punto non ci imbarazza affatto sfidare
l'oleografia e costeggiare l'enfasi, se la solennità dell'espressione e il
sovraccarico pittorico possono accostarsi al senso del dramma e rimandarcene
un'eco.
La farsa contaminò il dramma, abbassò il tono della tragedia? Una nazione sfatta
e laida di piagnoni, mammoni e mandolinisti in servizio permanente impose la sua
faccia sordidamente ruspante al balletto virilista e guerriero con cui il
Fascismo aveva cercato di dare consistenza a una romanità da baraccone? Le
litanie -così vere, così umane- del pregiato coro tengo famiglia ebbero ragione
della ribalda arroganza -fu giusto che avessero ragione della ribalda arroganza-
dei trucidi orchestrali del "Me ne frego!". Diamo tutto per scontato: che un
archetipo Alberto Sordi, emblema e mito fondante, ci tenga sempre in caldo nella
sua protettiva placenta, difendendoci con materiale e pretesca benevolenza dai
rischi della storia, primo fra tutti dal rischio di farci male -per dirla con
Beppe Niccolai- avendo troppo osato, essendoci spinti fino all'azzardo di
trasformare un'idea in bandiera e la tradizione in voglia di futuro, essendoci
-addirittura!- addentrati negli impervi sentieri di una scelta scomoda e
incosciente, fatta in nome dell'onore. Ovvero di quella mitica parola le cui
devastanti potenzialità vengono assunte dall'uomo mediterraneo generalmente solo
per faccende di corna.
Diamo per scontata l'irresistibile vocazione al servilismo, la puttanesca
disponibilità a vendersi al vincitore, il trasformismo che ci muta in guitti
ammiccanti a tutte le profumate nequizie del Potere. Diamo per scontata la
mostruosità del Fascismo che pretendeva di trasformare un fregnone romanesco nel
cives/miles di una resuscitata Roma e si intestardiva a parlare di destini
imperiali e dei mariuoli che all'occorrenza sapevano essere maramaldi.
Bene, se questa è la nostra carta di identità, a quale strano, alieno universo
appartenevano i fascisti che non si tolsero la cimice dall'occhiello nella
gloria di popolo del 25 luglio, che tradussero i simboli in insegne di
battaglia, che fecero la guerra e la guerra civile?
Da quale misterioso anfratto sbucavano i combattenti che continuarono nella
guerra perduta, i ragazzi che troncavano il progetto illimitato della loro
giovinezza per corteggiare la Signora Morte, i tanti uomini della strada (o
forse uomini che avevano scelto una strada) per nulla ignari che ci sarebbe
stata di lì a poco una resa dei conti sanguinosa? È retorica ricordare il loro
sacrificio? Sì, se retorica è ordinare le parole alla qualità dell'azione,
pretendere che il linguaggio si adegui all'altezza del pensiero o del gesto. O
forse siamo troppo timidi per affermare che il retto sentire e il retto operare
legittimamente chiedono l'investitura dell'eloquenza e della memoria, del bello
stile per dirla con Dante? Non siano dunque avare di figure le nostre parole per
l'Appesa del 25 luglio e dell'8 settembre che la croce se l'era messa sulle
spalle prima di esserci inchiodata e che, con la dignità ardente, con l'umiltà
guerriera di Francesco e di Caterina, patroni d'Italia, della croce fece un'arma
per seicento giorni.
Delirio, furore aberrante, ebbrezza sanguinaria? Sì, è stato detto anche questo,
e non a torto, perché anche questo fa parte della passione che fa sragionare.
Si sbaglia, se si sragiona? Sbaglia chi ama appassionatamente? Sbaglia chi,
cercando la verità, sfodera un'eresia dopo l'altra, facendo ritrarre inorriditi
gli Incappucciati dello Spiritol
Ma, del resto, il fascismo aveva sempre vissuto di dismisura, o di genio e
sregolatezza, se più piace, e questa virtù antivirtuosa l'aveva sempre
praticata. Come in Toscana si dice di certi bimbi: «aveva imparato tutto dal
babbo». E i babbi erano veramente tipi da prendersi con le molle: socialisti
senza partito, sindacalisti rivoluzionari, futuristi, rivistaioli del Gran
Laboratorio fiorentino d'anteguerra, nazionalisti con un fiore rosso in cuore,
anarchici desiderosi di una Patria che non fosse fatta a immagine e somiglianza
della borghesia liberale. E poi vennero gli arditi, i legionari, i figli della
guerra e della voglia di rivoluzione. Mussolini dette a questa ciurma un ordine
e un vessillo. Ed anche un Re ed una Chiesa. Soprattutto una Nazione, uno Stato
e un Impero. La Rivoluzione si sciolse nell'Italia, senza che un'Italia avesse
fatto la Rivoluzione. Fu un bene, fu un male? Il fatto è che poi,
inevitabilmente, nel momento della verità, italiani e italioti, idealisti della
rissa, della speranza e del sacrificio, e opportunisti del quieto vivere resi
inquieti dalla vita che ti chiama, dovettero separare i loro destini.
Comunque, che non tutta l'Italia, tra il 25 luglio e l'8 settembre abbia
dilatato le froge per annusare il vento levantino e marciare ilare e paciosa
verso la fuga dalla storia (che, poi, è sempre fuga dalle responsabilità
private, anche dal gusto, nudo e crudo, di essere uomo che ama, pensa e soffre),
resta dato incontestabile. Così come è indubbio il fatto che anche i partigiani,
quelli veri, seri e duri, comunisti credenti e praticanti, quel goccio di rigore
ideale e di eroico fervore che ogni tanto tiravano fuori, l'avevano attinto dal
Fascismo, sì, persino da quello delle parate e dal salto nei cerchi di fuoco,
patacche smaglianti che pure la loro impressione la comunicano e i cuoricini
ingenui e puri li fanno battere e qualche vaga idea di valore la trasmettono.
Allora, la logica del 25 luglio e dell'8 settembre non l'ha avuta vinta solo sui
fascisti; non sono soltanto i fascisti ad aver perso l'Italia: l'hanno persa
anche tutti quegli altri che non stettero alla finestra e che credettero di
inventare un futuro alla Patria, per quanto il tricolore ardisse appena di
mostrare la sua testa dietro la bandiera rossa con la falce e il martello.
E forse sono proprio i rossi i più atrocemente sconfitti: senza Italia, senza
Rivoluzione, senza Partito, in estasi dietro a un sorriso clintoniano eppure
memori del tempo che fu e di quello che poteva essere.
Bisogna fare un po' di posto sulla croce per accogliere anche qualcuno di loro?
Oppure, dopo aver ripassato la storia, ciascuno prendendosi le proprie
responsabilità, si può provare a parlare, insieme, di un'Italia possibile? Tanto
possibile che già c'era nelle lettere dei condannati a morte della RSI e di
quelli della Resistenza: rileggiamole, evitando uggiolii sentimentali e
lacrimucce, come testimonianza etica e politica di generazioni che non si
arresero.
L'Italia avrà un avvenire soltanto se farà i conti con loro e cioè con quelli
che morendo da testimoni nutrono una memoria storica che non può accontentarsi
né di commemorazioni né di archivi. E nemmeno di un volemose bene pacificatorio.
Vogliamoci e facciamoci male invece, se, nonostante tutto, vogliamo bene
all'Italia.
Mario
Bernardi Guardi
da
«Pagine
Libere»,
settembre-ottobre 1993
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