«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 8 - 31 Dicembre 1993

 

la memoria storica

Facciamoci male, insieme
 

A cinquant'anni di distanza, il 25 luglio e l'8 settembre del '43 sono stati così abbondantemente e meticolosamente ricostruiti e commentati che a molti è parso quasi di averli vissuti quei due giorni cruciali che non segnarono solo il profilo di un'estate ma quelli di un tempo che ancora ci fiacca. C'è chi, tastando il polso e il cuore di quegli eventi, ha provato a mettersi nei panni dei protagonisti: e si è ritagliato addosso il Mussolini amaro e dolente del 25 luglio, oppure il Re, piccolo piccolo, cui mancò il coraggio di assestare una franca pugnalata al Dittatore, o magari il maresciallo Badoglio, eroe cialtronesco di un la guerra continua, abbaiato un attimo prima di biascicare il proclama dello sbandamento: tutti a casa, italiani dalle molte vite, ad arrangiarvi, come del resto avete sempre fatto. Due giorni cruciali, dicevamo: nel senso che l'Italia fu messa in croce, riuscì a schiodarsi e a menare qualche colpo di passione disperata, dissanguandosi, e alla fine vi fu riappesa, ed è ancora là, abbacchiata, col capo ciondolante, scosso da rari sussulti; e qualche cos 'altro che aveva la forma, i colori e gli odori dell'Italia, simile a lei, partorito da lei, ma con i tratti sinistri, deformati e caricaturali, si accovacciò ai piedi di quella croce, giocandosi a dadi le vesti dell'Appesa e facendo la guardia, perché la morte, quando è buona, è temibile.
Sappiamo che a qualcuno non piaceranno queste immagini e che le giudicherà viziate da un gusto retorico d'antan: ma a furia di temere come la peste la retorica e la sua grandiosità di accenti, ci siamo ridotti a un così basso stile di vita e di opere che a questo punto non ci imbarazza affatto sfidare l'oleografia e costeggiare l'enfasi, se la solennità dell'espressione e il sovraccarico pittorico possono accostarsi al senso del dramma e rimandarcene un'eco.
La farsa contaminò il dramma, abbassò il tono della tragedia? Una nazione sfatta e laida di piagnoni, mammoni e mandolinisti in servizio permanente impose la sua faccia sordidamente ruspante al balletto virilista e guerriero con cui il Fascismo aveva cercato di dare consistenza a una romanità da baraccone? Le litanie -così vere, così umane- del pregiato coro tengo famiglia ebbero ragione della ribalda arroganza -fu giusto che avessero ragione della ribalda arroganza- dei trucidi orchestrali del "Me ne frego!". Diamo tutto per scontato: che un archetipo Alberto Sordi, emblema e mito fondante, ci tenga sempre in caldo nella sua protettiva placenta, difendendoci con materiale e pretesca benevolenza dai rischi della storia, primo fra tutti dal rischio di farci male -per dirla con Beppe Niccolai- avendo troppo osato, essendoci spinti fino all'azzardo di trasformare un'idea in bandiera e la tradizione in voglia di futuro, essendoci -addirittura!- addentrati negli impervi sentieri di una scelta scomoda e incosciente, fatta in nome dell'onore. Ovvero di quella mitica parola le cui devastanti potenzialità vengono assunte dall'uomo mediterraneo generalmente solo per faccende di corna.
Diamo per scontata l'irresistibile vocazione al servilismo, la puttanesca disponibilità a vendersi al vincitore, il trasformismo che ci muta in guitti ammiccanti a tutte le profumate nequizie del Potere. Diamo per scontata la mostruosità del Fascismo che pretendeva di trasformare un fregnone romanesco nel cives/miles di una resuscitata Roma e si intestardiva a parlare di destini imperiali e dei mariuoli che all'occorrenza sapevano essere maramaldi.
Bene, se questa è la nostra carta di identità, a quale strano, alieno universo appartenevano i fascisti che non si tolsero la cimice dall'occhiello nella gloria di popolo del 25 luglio, che tradussero i simboli in insegne di battaglia, che fecero la guerra e la guerra civile?
Da quale misterioso anfratto sbucavano i combattenti che continuarono nella guerra perduta, i ragazzi che troncavano il progetto illimitato della loro giovinezza per corteggiare la Signora Morte, i tanti uomini della strada (o forse uomini che avevano scelto una strada) per nulla ignari che ci sarebbe stata di lì a poco una resa dei conti sanguinosa? È retorica ricordare il loro sacrificio? Sì, se retorica è ordinare le parole alla qualità dell'azione, pretendere che il linguaggio si adegui all'altezza del pensiero o del gesto. O forse siamo troppo timidi per affermare che il retto sentire e il retto operare legittimamente chiedono l'investitura dell'eloquenza e della memoria, del bello stile per dirla con Dante? Non siano dunque avare di figure le nostre parole per l'Appesa del 25 luglio e dell'8 settembre che la croce se l'era messa sulle spalle prima di esserci inchiodata e che, con la dignità ardente, con l'umiltà guerriera di Francesco e di Caterina, patroni d'Italia, della croce fece un'arma per seicento giorni.
Delirio, furore aberrante, ebbrezza sanguinaria? Sì, è stato detto anche questo, e non a torto, perché anche questo fa parte della passione che fa sragionare.
Si sbaglia, se si sragiona? Sbaglia chi ama appassionatamente? Sbaglia chi, cercando la verità, sfodera un'eresia dopo l'altra, facendo ritrarre inorriditi gli Incappucciati dello Spiritol
Ma, del resto, il fascismo aveva sempre vissuto di dismisura, o di genio e sregolatezza, se più piace, e questa virtù antivirtuosa l'aveva sempre praticata. Come in Toscana si dice di certi bimbi: «aveva imparato tutto dal babbo». E i babbi erano veramente tipi da prendersi con le molle: socialisti senza partito, sindacalisti rivoluzionari, futuristi, rivistaioli del Gran Laboratorio fiorentino d'anteguerra, nazionalisti con un fiore rosso in cuore, anarchici desiderosi di una Patria che non fosse fatta a immagine e somiglianza della borghesia liberale. E poi vennero gli arditi, i legionari, i figli della guerra e della voglia di rivoluzione. Mussolini dette a questa ciurma un ordine e un vessillo. Ed anche un Re ed una Chiesa. Soprattutto una Nazione, uno Stato e un Impero. La Rivoluzione si sciolse nell'Italia, senza che un'Italia avesse fatto la Rivoluzione. Fu un bene, fu un male? Il fatto è che poi, inevitabilmente, nel momento della verità, italiani e italioti, idealisti della rissa, della speranza e del sacrificio, e opportunisti del quieto vivere resi inquieti dalla vita che ti chiama, dovettero separare i loro destini.
Comunque, che non tutta l'Italia, tra il 25 luglio e l'8 settembre abbia dilatato le froge per annusare il vento levantino e marciare ilare e paciosa verso la fuga dalla storia (che, poi, è sempre fuga dalle responsabilità private, anche dal gusto, nudo e crudo, di essere uomo che ama, pensa e soffre), resta dato incontestabile. Così come è indubbio il fatto che anche i partigiani, quelli veri, seri e duri, comunisti credenti e praticanti, quel goccio di rigore ideale e di eroico fervore che ogni tanto tiravano fuori, l'avevano attinto dal Fascismo, sì, persino da quello delle parate e dal salto nei cerchi di fuoco, patacche smaglianti che pure la loro impressione la comunicano e i cuoricini ingenui e puri li fanno battere e qualche vaga idea di valore la trasmettono.
Allora, la logica del 25 luglio e dell'8 settembre non l'ha avuta vinta solo sui fascisti; non sono soltanto i fascisti ad aver perso l'Italia: l'hanno persa anche tutti quegli altri che non stettero alla finestra e che credettero di inventare un futuro alla Patria, per quanto il tricolore ardisse appena di mostrare la sua testa dietro la bandiera rossa con la falce e il martello.
E forse sono proprio i rossi i più atrocemente sconfitti: senza Italia, senza Rivoluzione, senza Partito, in estasi dietro a un sorriso clintoniano eppure memori del tempo che fu e di quello che poteva essere.
Bisogna fare un po' di posto sulla croce per accogliere anche qualcuno di loro? Oppure, dopo aver ripassato la storia, ciascuno prendendosi le proprie responsabilità, si può provare a parlare, insieme, di un'Italia possibile? Tanto possibile che già c'era nelle lettere dei condannati a morte della RSI e di quelli della Resistenza: rileggiamole, evitando uggiolii sentimentali e lacrimucce, come testimonianza etica e politica di generazioni che non si arresero.
L'Italia avrà un avvenire soltanto se farà i conti con loro e cioè con quelli che morendo da testimoni nutrono una memoria storica che non può accontentarsi né di commemorazioni né di archivi. E nemmeno di un volemose bene pacificatorio. Vogliamoci e facciamoci male invece, se, nonostante tutto, vogliamo bene all'Italia.

 

Mario Bernardi Guardi
da «Pagine Libere», settembre-ottobre 1993

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