«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 8 - 31 Dicembre 1993

 

Il MSI-DN ormai sulla sponda reazionaria.
E Fini disse: «Italia, Repubblica, Privatizzazione»


 

Gianfranco Fini agognava la conquista del Campidoglio per sé e di Palazzo San Giacomo per la Mussolini. Ha fallito ambedue gli obiettivi. Tuttavia, sia a Roma che a Napoli, ha conseguito brillantissimi successi. Di più: ha conquistato municipi niente affatto disprezzabili: Caltanissetta, Benevento (dove però il nuovo sindaco, Pasquale Viespoli, è rautiano), Latina, Chieti. A Taranto, poi, il primo cittadino, discussissimo sotto vari profili, è un ex-missino che tuttavia sembra voler ora nuotare, più o meno, nelle vecchie acque.
Ebbene, noi che mai abbiamo votato e mai voteremo il leader della Fiamma, sentiamo il bisogno di complimentarci secolui per le indubbie capacità di guida dimostrata. E, ci si consenta la minuscola immodestia, di congratularci al contempo con noi che, all'epoca del congresso di Sorrento, esortammo certi dileggiatori -«un paio di occhiali sul niente», ebbe a definirlo uno di loro- a non sottovalutarlo, a guardarsi bene dal considerarlo, puramente e semplicemente, la cinghia di trasmissione dell'Almirante-pensiero. Evidentemente avevamo visto giusto.
Ciò detto, precisiamo che i nostri riconoscimenti hanno un sapore più sportivo, più cavalleresco, più individuale che squisitamente politico. Perché nel dì fatidico cinque dicembre il buon Fini ha sì incassato una valanga di voti ma ha perso, definitivamente, la propria anima. E, francamente, non riusciamo a sfuggire ad una sensazione di ridicolo nel constatare la metamorfosi di questo ex-almirantiano che da «rivoluzionario», da «mistico del fascismo», da orgoglioso e intransigente «rivendicatore del passato», da mussoliniano tutto d'un pezzo, da adoratore della Repubblica Sociale Italiana si fa liberal-conservatore e promotore di una fantomatica Alleanza Nazionale che dopo avere annunciato fra i soci fondatori nientepopodimeno Francesco Cossiga, è poi ripiegata su personaggi di serie C come Publio Fiori e Potito Salatto, genterella in cerca di una qualsiasi zattera dopo il naufragio democristiano.
Il tutto fra gli applausi di un cantore non della moderazione, bensì del moderatismo, di un personaggio consolare del potere economico nell'aborritissimo «sistema»: il Berlusconi craxizzato, pilone portante del CAF. Costui, però, strigliato a dovere dai più vari ambienti, non ha tardato a dichiararsi pentito per il pronunciamento elettorale in favore del rappresentante di una Fiamma Tricolore accostandosi alla quale aveva corso il rischio di bruciarsi. La palinodia berlusconiana ha un pesante significato, che travalica l'episodio. Essa, cioè, è emblematica delle difficoltà, probabilmente insormontabili, che il MSI-DN deve affrontare per fruire delle alleanze -quelle vere, non la «Nazionale», rivelatasi poco più di una barzelletta come, negli Anni Settanta, la «Costituente di Destra» presieduta dal transfuga scudocrociato Giacchero, di cui da tempo immemorabile nessuno ha mai saputo più nulla-, assolutamente ineludibili dopo la più recente e avventurosa delle parole d'ordine finiane: la destra di governo.
Esse potrebbero divenire realtà ad una sola, durissima condizione: un rinnegamento totale, esaustivo, incontrovertibile, umiliante del proprio passato, dei propri sentimenti e risentimenti, dei propri miti, della propria esperienza, di quegli orizzonti ideali non obliterati totalmente dalla scelta di destra. Insomma, nessun «aggiornamento», niente «superamento», bando ai «distinguo», via gli «afascismi». Bisogna diventare dichiaratamente antifascisti!
Con ovvia esclusione dal MSI-DN e dalla «Nazionale» dei recalcitranti. Ciò, del resto, è ritenuto tanto più necessario in quanto destra e centro-destra del «sistema» sarebbero sospettati e accusati -magari a torto- di «filo-fascismo». Soprattutto da una sinistra incalzante e vittoriosa, irriducibilmente avversa a sconti e sotterfugi nominalistici. Berlusconi docet.
Diciamo la verità: questa sinistra si appaleserebbe meno, molto meno fiscale, soprattutto perché insospettabile e inaccusabile. Come, e qui ci soccorre la memoria storica, lo fu fin dal 1937, quando il PCI lanciò il famoso «Appello ai fratelli in camicia nera». E, per evitarci l'accusa di essere agenti del comunismo (?) o soltanto del PDS, facciamo presente che nel dopoguerra il «dialogo con i fascisti» fu di gran moda in tutti i comparti della Sinistra, compresi quelli a netta caratterizzazione democratica, occidentalista, anticomunista. Non mancheremo di tornare sul ghiotto ma serissimo argomento in queste pagine, Direttore permettendo ovviamente. Ora chiudiamo ricordando che nello scorcio iniziale degli Anni Ottanta toccò a Bettino Craxi l'onere di recuperare una linea di approccio e rapporto con i veri o presunti «fascisti», ma su questo terreno la sua iniziativa fu talmente convulsa, intermittente, «partitica», per molti versi inadeguata e «concretistica», da rivelarsi infruttuosa. Era priva di respiro culturale e storico. Per soprammercato, pretese di spenderla contro le altre sinistre, così condannandola alla catastrofe. Insieme a tutto il resto, naturalmente.
Quando, all'avvio degli Anni Settanta, l'on. Giorgio Almirante ritenne di dover connotare il partito come forza ufficialmente di destra, non si nascose il rischio cui andava incontro. Troppo intelligente per non porsi il problema. Ritenne, pertanto, di poter esorcizzare le alee guarnendo il termine destra con qualificativi correttivi, integrativi come «popolare», «non conservatrice», «nazionale», «sociale», «rivoluzionaria» etc. Secondo noi, non si rese conto della carica fortemente condizionatrice in senso misoneista o addirittura reazionario sottesa, radicata, nella parola. Né avvertì che essa avrebbe sterilizzato il MSI trasferendolo dall'area della proposta feconda e dialogica, del confronto costruttivo con il popolo dei partiti di massa, delle grandi sintesi creative innervate sulla vera pacificazione nazionale -cosa ben diversa da sue strumentali caricature, tipo quella della scorsa estate ideata con la destra militare badogliana, giocata elettoralmente e finita nel modo miserabile che sappiamo- al terreno della contrapposizione totalizzante, fomite di immobilismo e di emarginazione al di là di successi anche vistosi ma scaturenti da situazioni di crisi, di svolta, di transizioni e, dunque, momentanei, circoscritti, destinati a logoramento ed esaurimento. Come, del resto, è già più volte accaduto, e sicuramente accadrà in assenza di una possibile strategia delle alleanze e della praticabilità di richieste di trasformistica trasformazione del partito in senso antifascista. Hic et nunc.
Mettiamola un po' sullo scherzo, con il peraltro simpatico onorevole Fini nelle inopinate vesti di liberal-conservatore, per l'occasione prestategli dal badiale prof. Domenico Fisichella. Poniamo che in uno di codesti per lui felicissimi dì un certo Benito Mussolini, fondatore della Repubblica Sociale Italiana, venga dall'al di là per chiedergli conto e ragione delle sue rutilanti e fantasmagoriche piroette destrorse. Come le spiegherebbe? Facciamo riferimento, precisiamo, non soltanto a quel Mussolini «pirandelliano: uno, nessuno, centomila», caro alla fantasiosa arguzia del mai troppo compianto -soprattutto dagli avversari- fascista libertario Alberto Giovannini, ma anche al Mussolini che Sergio Ricossa, leader dei liberisti, ci ha di recente illustrato, e da par suo, in un editoriale del montanelliano "il Giornale". Così esprimendosi: «Mussolini fece più di una giravolta, eppure restò sé stesso nelle cose fondamentali. Restò sempre un socialista, uno statalista rivoluzionario quando si trattava di prendere il potere, e ovviamente conservatore quando si trattava di conservarlo. Si alleò con chiunque gli facesse comodo: fu monarchico e repubblicano, mangiapreti e concordatario ma sempre socialista e statalista. Concesse ai capitalisti privati di arricchirsi, purché essi si inchinassero alla sua guida, alla sua pianificazione nazionalistica, corporativa, autarchica, bellica. Aveva cominciato con un socialismo intransigente, terminò con un socialismo intransigente. La Repubblica Sociale Italiana non durò, per fortuna, altrimenti sarebbe stata una replica, in piccolo, dei soviet: molta nazionalizzazione, poco o punto mercato libero, apparente potere ai proletari».
Dove qualche giudizio abborracciato e qualche imperfetta valutazione non appannano il profilo troppo rapido ma sostanzialmente veritiero, di una figura storica di cui l'on. Fini -ci corregga se andiamo errati- dovrebbe considerarsi, in un certo senso e in un certo qual modo, l'esecutore testamentario a livello politico-ideologico. E, se vogliamo, l'erede, il successore, il continuatore nelle radicalmente mutate condizioni storiche, è ovvio, di una Italia non solo di fine secolo ma di fine millennio. L'on. Alessandra ha fatto ciò presente al suo segretario? Sembrerebbe di no, a giudicare dal linguaggio (spesso, invero, deplorevole) e dagli argomenti adoperati lungo l'iter della interminabile campagna elettorale. Male, malissimo. Essa è troppo intelligente e dotata di belle qualità non solo fisiche -affermiamo senza ombra d'ironia- per non rendersi conto che la valanga di preferenze sia alle politiche che alle amministrative origina soprattutto dal nome che porta. Il che dovrebbe indurla non solo a criticare, come sacrosantamente ha fatto, gravi errori del Nonno -per esempio, le leggi razziali-, ma anche a tutelarne i lasciti storici e culturali oggettivamente difendibili: l'economia pubblica, la socializzazione, ossia la proprietà del popolo. Non necessariamente da intendere quale statalismo o clientelismo burocratizzato disegno partitocratico.

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Alcuni missini più legati a Gianfranco Fini, cui ci è capitato di esternare tali nostre considerazioni, nel difendere il loro capo hanno affermato che, quanto meno, dovremmo dargli atto di una assoluta, saggia coerenza nella proposizione costante di una linea alternativa al cosiddetto «demagogismo populista» di Rauti. Ci avevano quasi convinti quando è capitato sotto i nostri occhi "La voce Repubblicana" dove campeggiava un articolo pepatino anzichenò sul segretario della Fiamma, firmato da un giovane brillante intellettuale di indirizzo azionista, Antonio Carioti, con dentro alcuni ironici memento che hanno letteralmente distrutto anche questa quasi convinzione. Vediamo: «Nega infatti (Fini) di aver mai sostenuto che il suo partito sia portatore di valori alternativi all'Occidente liberalcapitalista. E se qualcuno osa rammentargli quelle sue posizioni passate, lo accusa di compiere un indebito scambio di persone. Eppure era proprio lui, dal palco del congresso riminese, a denunciare i cedimenti dell'Europa alla "logica mondialista e omologante del capitalismo internazionale che subordina ogni identità al profitto". Era lui a citare a piene mani il brillante saggista Marcello Veneziani, autore del libro "Processo all'Occidente". Era lui a denunciare un PCI "già da molti anni funzionale e non alternativo al sistema capitalistico". Era lui che esortava il MSI ad innalzare un "cartello di opposizione alla società dei consumi" e a farlo "con la stessa fede e tenacia con cui per tanti anni abbiamo tenuto alto il cartello dell'opposizione al comunismo". Era lui a giungere alla conclusione che "la nostra volontà di rappresentare l'alternativa al sistema di valori dominante è ad un tempo opposizione al liberalcapitalismo e alla socialdemocrazia, ultimo rifugio di ciò che rimane del comunismo". Se Fini andasse a rivedersi il "Secolo d'Italia" del 12 gennaio 1990, forse l'amnesia gli passerebbe».
Insomma, siamo alle solite, alla formula datata 1921: si comincia col fare i «rivoluzionari» sputtanando tutto e tutti, minacciando percussioni erga omnes con una programmatica di palingenesi sociale «più a sinistra» della sinistra conosciuta, tradizionale, imborghesita, per poi, arrivati al dunque, annunciare urbi et orbi la scelta reazionaria. Accanto alle destre e ai capitalisti, s'intende. Ma stia attento, Gianfranco Fini: questa carta venne già giocata da qualcuno molto più inquartato di lui e tutto finì in tragedia. Giocata, magari controvoglia, in stato di costrizione, da un Mussolini assediato dai drammatici errori di una sinistra che si alimentava della letale irrazionalità inevitabilmente presente nell'avversione personale, nella «questione morale», nella malintesa concorrenzialità. E giocata con la riserva mentale, con l'illusione, di poter recuperare i valori della rivoluzione sociale una volta liquidati, in sinergia con le forze conservatrici, i nemici di parte rossa. Ora, Fini non deve fronteggiare l'emergenza di una precostituita inimicizia della sinistra. Certo, la democrazia d'avanguardia lo combatte duramente, ma solo perché lui e i suoi predecessori hanno stabilito, senza trovarsi in stato di necessità, che il ruolo del MSI poi anche DN deve essere quello di punta di diamante nella lotta contro la sinistra; che il loro partito non può che essere una fabbrica di odio in servizio permanente effettivo contro le formazioni progressiste e riformatrici; che il loro sport preferito deve essere la caccia al rosso, la violenza se non fisica certo intellettuale contro il popolo della sinistra, contro il movimento operaio organizzato, contro la cultura e i suoi esponenti che ne hanno sposato gli ideali e gli interessi. Dunque, se egli risulta in difficoltà per l'alluvione di antifascismo da cui è investito -relativamente al quale lo stesso Occhetto ha detto, in una intervista a "l'Unità" «di non credere all'efficacia di una certa retorica antifascista»- non può non ammettere che trattasi di responsabilità esclusivamente sua e del suo partito. Come dice il vecchio, famoso adagio? Chi è causa del suo mal pianga sé stesso...
Naturalmente, queste note sono indirizzate anche ai personaggi che formano -volenti o nolenti, più o meno graditi o sgraditi- il brain trust, le «teste d'uovo» di Fini. A cominciare, tanto per essere finalmente chiari ed uscire dagli equivoci, da quei cosiddetti «intellettuali di frontiera» che non finiscono mai di stupirci con i loro funambolismi e di deluderci, diremmo, giorno dopo giorno. Qualche nome? Volentieri: Giano Accame (dove mai è andato a finire il suo "Socialismo Tricolore"?); il testé mentovato Marcello Veneziani con il suo periodico "L'Italia settimanale" (che fine ha fatto la sua «rivoluzione nazionale popolare»? Ritiene davvero compatibile con le idee espresse in "Processo all'Occidente" il sostegno addirittura militante accordato al capataz missino e alla bella Alessandra?). Per carità di patria ed esigenza di spazio, la piantiamo qui. Almeno per il momento...

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Gli arrabbiati di quello che noi chiamiamo -attirandoci molte antipatie e sospetti a sinistra- il formalismo vetero-antifascista dicono che la svolta missina è solo maquillage, destinato a nascondere una irremovibile propensione al fascismo. Costoro o non hanno capito niente o fanno i nesci. Per esempio, maledicono in blocco la RSI, sparano nel mucchio, e chiedono a Fini -proprio come la Santa Inquisizione e il Concilio di Trento- un pubblico rinnegamento, una abiura. Evidentemente sono accecati da una faziosità di stampo khomeynista. Se non lo fossero si renderebbero conto che con la Repubblica Sociale Italiana l'Inquilino di Via della Scrofa c'entra come i cavoli a merenda. Gli è anagraficamente, storicamente e culturalmente estranea. Nel bene e nel male. Soprattutto nel bene. Ossia negli entusiasmi ed anche in certi realizzati progetti relativi alla socializzazione e alla rivoluzione nazionale-popolare. Di più: Fini e sodali hanno sempre temuto come la peste il discorso sulla remota vicenda di Salò, ben sapendo, a differenza dei khomeynisti del formalismo vetero-antifascista, che i contenuti di tale discorso portano a velocità supersonica verso sinistra. A una sinistra, per di più, niente affatto moderata, anzi radicalmente trasformatrice.
Ma, si sa, i trasformisti non amano le trasformazioni. I Fregoli della politica preferiscono ben altro... Insomma, e per dirla tutta, il buon Fini ha messo la sordina alla RSI non per favorire il raggiungimento dell'obiettivo, certo fondamentale e altamente positivo, della pacificazione nazionale, ma per avere le mani libere in vista della svolta reazionaria. Egli la sua scelta l'ha fatta. E non da oggi. Al trinomio erresseista «Italia - Repubblica - Socializzazione» ha sostituito il meno faticoso e poco impegnativo «Italia - Repubblica - Privatizzazione».
Ecco, di rincalzo a Fini, il capogruppo della Camera, on. Giuseppe Tatarella da Bari. Di questo alto dignitario missino si dice sia il teorico della svolta. Addirittura sarebbe una sorta di ispiratore segreto del segretario, una eminenza grigia. Insomma, un Richelieu della Destra. Di sicuro è una delle punte più avanzate della opzione reazionaria. Intervistato dal quotidiano romano "II Tempo" afferma: «II MSI non è statalista, ha fatto la battaglia contro le nazionalizzazioni, contro l'Eni, insieme con Sturzo. La battaglia per le privatizzazioni è scritta nella relazione con la quale Fini tornò alla segreteria del MSI». E all'intervistatore, Giuseppe De Tomaso, che obbietta: «Non tutto il MSI la pensa così. C'è chi si ricollega alla Repubblica di Salò, il cui programma era socialisteggiante», replica seccamente: «No. Oggi, l'unità di vedute nel MSI e corale».
Le cose stanno veramente in tal modo, on. Rauti?

 

Enrico Landolfi

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