Il MSI-DN ormai sulla
sponda reazionaria.
E Fini disse: «Italia, Repubblica, Privatizzazione»
Gianfranco Fini agognava la
conquista del Campidoglio per sé e di Palazzo San Giacomo per la Mussolini. Ha
fallito ambedue gli obiettivi. Tuttavia, sia a Roma che a Napoli, ha conseguito
brillantissimi successi. Di più: ha conquistato municipi niente affatto
disprezzabili: Caltanissetta, Benevento (dove però il nuovo sindaco, Pasquale
Viespoli, è rautiano), Latina, Chieti. A Taranto, poi, il primo cittadino,
discussissimo sotto vari profili, è un ex-missino che tuttavia sembra voler ora
nuotare, più o meno, nelle vecchie acque.
Ebbene, noi che mai abbiamo votato e mai voteremo il leader della Fiamma,
sentiamo il bisogno di complimentarci secolui per le indubbie capacità di guida
dimostrata. E, ci si consenta la minuscola immodestia, di congratularci al
contempo con noi che, all'epoca del congresso di Sorrento, esortammo certi
dileggiatori -«un paio di occhiali sul niente», ebbe a definirlo uno di loro- a
non sottovalutarlo, a guardarsi bene dal considerarlo, puramente e
semplicemente, la cinghia di trasmissione dell'Almirante-pensiero. Evidentemente
avevamo visto giusto.
Ciò detto, precisiamo che i nostri riconoscimenti hanno un sapore più sportivo,
più cavalleresco, più individuale che squisitamente politico. Perché nel dì
fatidico cinque dicembre il buon Fini ha sì incassato una valanga di voti ma ha
perso, definitivamente, la propria anima. E, francamente, non riusciamo a
sfuggire ad una sensazione di ridicolo nel constatare la metamorfosi di questo
ex-almirantiano che da «rivoluzionario», da «mistico del fascismo», da
orgoglioso e intransigente «rivendicatore del passato», da mussoliniano tutto
d'un pezzo, da adoratore della Repubblica Sociale Italiana si fa
liberal-conservatore e promotore di una fantomatica Alleanza Nazionale che dopo
avere annunciato fra i soci fondatori nientepopodimeno Francesco Cossiga, è poi
ripiegata su personaggi di serie C come Publio Fiori e Potito Salatto,
genterella in cerca di una qualsiasi zattera dopo il naufragio democristiano.
Il tutto fra gli applausi di un cantore non della moderazione, bensì del
moderatismo, di un personaggio consolare del potere economico nell'aborritissimo
«sistema»: il Berlusconi craxizzato, pilone portante del CAF. Costui, però,
strigliato a dovere dai più vari ambienti, non ha tardato a dichiararsi pentito
per il pronunciamento elettorale in favore del rappresentante di una Fiamma
Tricolore accostandosi alla quale aveva corso il rischio di bruciarsi. La
palinodia berlusconiana ha un pesante significato, che travalica l'episodio.
Essa, cioè, è emblematica delle difficoltà, probabilmente insormontabili, che il
MSI-DN deve affrontare per fruire delle alleanze -quelle vere, non la
«Nazionale», rivelatasi poco più di una barzelletta come, negli Anni Settanta,
la «Costituente di Destra» presieduta dal transfuga scudocrociato Giacchero, di
cui da tempo immemorabile nessuno ha mai saputo più nulla-, assolutamente
ineludibili dopo la più recente e avventurosa delle parole d'ordine finiane: la
destra di governo.
Esse potrebbero divenire realtà ad una sola, durissima condizione: un
rinnegamento totale, esaustivo, incontrovertibile, umiliante del proprio
passato, dei propri sentimenti e risentimenti, dei propri miti, della propria
esperienza, di quegli orizzonti ideali non obliterati totalmente dalla scelta di
destra. Insomma, nessun «aggiornamento», niente «superamento», bando ai
«distinguo», via gli «afascismi». Bisogna diventare dichiaratamente
antifascisti!
Con ovvia esclusione dal MSI-DN e dalla «Nazionale» dei recalcitranti. Ciò, del
resto, è ritenuto tanto più necessario in quanto destra e centro-destra del
«sistema» sarebbero sospettati e accusati -magari a torto- di «filo-fascismo».
Soprattutto da una sinistra incalzante e vittoriosa, irriducibilmente avversa a
sconti e sotterfugi nominalistici. Berlusconi docet.
Diciamo la verità: questa sinistra si appaleserebbe meno, molto meno fiscale,
soprattutto perché insospettabile e inaccusabile. Come, e qui ci soccorre la
memoria storica, lo fu fin dal 1937, quando il PCI lanciò il famoso «Appello ai
fratelli in camicia nera». E, per evitarci l'accusa di essere agenti del
comunismo (?) o soltanto del PDS, facciamo presente che nel dopoguerra il
«dialogo con i fascisti» fu di gran moda in tutti i comparti della Sinistra,
compresi quelli a netta caratterizzazione democratica, occidentalista,
anticomunista. Non mancheremo di tornare sul ghiotto ma serissimo argomento in
queste pagine, Direttore permettendo ovviamente. Ora chiudiamo ricordando che
nello scorcio iniziale degli Anni Ottanta toccò a Bettino Craxi l'onere di
recuperare una linea di approccio e rapporto con i veri o presunti «fascisti»,
ma su questo terreno la sua iniziativa fu talmente convulsa, intermittente,
«partitica», per molti versi inadeguata e «concretistica», da rivelarsi
infruttuosa. Era priva di respiro culturale e storico. Per soprammercato,
pretese di spenderla contro le altre sinistre, così condannandola alla
catastrofe. Insieme a tutto il resto, naturalmente.
Quando, all'avvio degli Anni Settanta, l'on. Giorgio Almirante ritenne di dover
connotare il partito come forza ufficialmente di destra, non si nascose il
rischio cui andava incontro. Troppo intelligente per non porsi il problema.
Ritenne, pertanto, di poter esorcizzare le alee guarnendo il termine destra con
qualificativi correttivi, integrativi come «popolare», «non conservatrice»,
«nazionale», «sociale», «rivoluzionaria» etc. Secondo noi, non si rese conto
della carica fortemente condizionatrice in senso misoneista o addirittura
reazionario sottesa, radicata, nella parola. Né avvertì che essa avrebbe
sterilizzato il MSI trasferendolo dall'area della proposta feconda e dialogica,
del confronto costruttivo con il popolo dei partiti di massa, delle grandi
sintesi creative innervate sulla vera pacificazione nazionale -cosa ben diversa
da sue strumentali caricature, tipo quella della scorsa estate ideata con la
destra militare badogliana, giocata elettoralmente e finita nel modo miserabile
che sappiamo- al terreno della contrapposizione totalizzante, fomite di
immobilismo e di emarginazione al di là di successi anche vistosi ma scaturenti
da situazioni di crisi, di svolta, di transizioni e, dunque, momentanei,
circoscritti, destinati a logoramento ed esaurimento. Come, del resto, è già più
volte accaduto, e sicuramente accadrà in assenza di una possibile strategia
delle alleanze e della praticabilità di richieste di trasformistica
trasformazione del partito in senso antifascista. Hic et nunc.
Mettiamola un po' sullo scherzo, con il peraltro simpatico onorevole Fini nelle
inopinate vesti di liberal-conservatore, per l'occasione prestategli dal badiale
prof. Domenico Fisichella. Poniamo che in uno di codesti per lui felicissimi dì
un certo Benito Mussolini, fondatore della Repubblica Sociale Italiana, venga
dall'al di là per chiedergli conto e ragione delle sue rutilanti e
fantasmagoriche piroette destrorse. Come le spiegherebbe? Facciamo riferimento,
precisiamo, non soltanto a quel Mussolini «pirandelliano: uno, nessuno,
centomila», caro alla fantasiosa arguzia del mai troppo compianto -soprattutto
dagli avversari- fascista libertario Alberto Giovannini, ma anche al Mussolini
che Sergio Ricossa, leader dei liberisti, ci ha di recente illustrato, e da par
suo, in un editoriale del montanelliano "il Giornale". Così esprimendosi:
«Mussolini fece più di una giravolta, eppure restò sé stesso nelle cose
fondamentali. Restò sempre un socialista, uno statalista rivoluzionario quando
si trattava di prendere il potere, e ovviamente conservatore quando si trattava
di conservarlo. Si alleò con chiunque gli facesse comodo: fu monarchico e
repubblicano, mangiapreti e concordatario ma sempre socialista e statalista.
Concesse ai capitalisti privati di arricchirsi, purché essi si inchinassero alla
sua guida, alla sua pianificazione nazionalistica, corporativa, autarchica,
bellica. Aveva cominciato con un socialismo intransigente, terminò con un
socialismo intransigente. La Repubblica Sociale Italiana non durò, per fortuna,
altrimenti sarebbe stata una replica, in piccolo, dei soviet: molta
nazionalizzazione, poco o punto mercato libero, apparente potere ai proletari».
Dove qualche giudizio abborracciato e qualche imperfetta valutazione non
appannano il profilo troppo rapido ma sostanzialmente veritiero, di una figura
storica di cui l'on. Fini -ci corregga se andiamo errati- dovrebbe considerarsi,
in un certo senso e in un certo qual modo, l'esecutore testamentario a livello
politico-ideologico. E, se vogliamo, l'erede, il successore, il continuatore
nelle radicalmente mutate condizioni storiche, è ovvio, di una Italia non solo
di fine secolo ma di fine millennio. L'on. Alessandra ha fatto ciò presente al
suo segretario? Sembrerebbe di no, a giudicare dal linguaggio (spesso, invero,
deplorevole) e dagli argomenti adoperati lungo l'iter della interminabile
campagna elettorale. Male, malissimo. Essa è troppo intelligente e dotata di
belle qualità non solo fisiche -affermiamo senza ombra d'ironia- per non
rendersi conto che la valanga di preferenze sia alle politiche che alle
amministrative origina soprattutto dal nome che porta. Il che dovrebbe indurla
non solo a criticare, come sacrosantamente ha fatto, gravi errori del Nonno -per
esempio, le leggi razziali-, ma anche a tutelarne i lasciti storici e culturali
oggettivamente difendibili: l'economia pubblica, la socializzazione, ossia la
proprietà del popolo. Non necessariamente da intendere quale statalismo o
clientelismo burocratizzato disegno partitocratico.
* * *
Alcuni missini più legati a Gianfranco Fini, cui ci è capitato di esternare tali
nostre considerazioni, nel difendere il loro capo hanno affermato che, quanto
meno, dovremmo dargli atto di una assoluta, saggia coerenza nella proposizione
costante di una linea alternativa al cosiddetto «demagogismo populista» di
Rauti. Ci avevano quasi convinti quando è capitato sotto i nostri occhi "La voce
Repubblicana" dove campeggiava un articolo pepatino anzichenò sul segretario
della Fiamma, firmato da un giovane brillante intellettuale di indirizzo
azionista, Antonio Carioti, con dentro alcuni ironici memento che hanno
letteralmente distrutto anche questa quasi convinzione. Vediamo: «Nega infatti
(Fini) di aver mai sostenuto che il suo partito sia portatore di valori
alternativi all'Occidente liberalcapitalista. E se qualcuno osa rammentargli
quelle sue posizioni passate, lo accusa di compiere un indebito scambio di
persone. Eppure era proprio lui, dal palco del congresso riminese, a denunciare
i cedimenti dell'Europa alla "logica mondialista e omologante del capitalismo
internazionale che subordina ogni identità al profitto". Era lui a citare a
piene mani il brillante saggista Marcello Veneziani, autore del libro "Processo
all'Occidente". Era lui a denunciare un PCI "già da molti anni funzionale e non
alternativo al sistema capitalistico". Era lui che esortava il MSI ad innalzare
un "cartello di opposizione alla società dei consumi" e a farlo "con la stessa
fede e tenacia con cui per tanti anni abbiamo tenuto alto il cartello
dell'opposizione al comunismo". Era lui a giungere alla conclusione che "la
nostra volontà di rappresentare l'alternativa al sistema di valori dominante è
ad un tempo opposizione al liberalcapitalismo e alla socialdemocrazia, ultimo
rifugio di ciò che rimane del comunismo". Se Fini andasse a rivedersi il "Secolo
d'Italia" del 12 gennaio 1990, forse l'amnesia gli passerebbe».
Insomma, siamo alle solite, alla formula datata 1921: si comincia col fare i
«rivoluzionari» sputtanando tutto e tutti, minacciando percussioni erga omnes
con una programmatica di palingenesi sociale «più a sinistra» della sinistra
conosciuta, tradizionale, imborghesita, per poi, arrivati al dunque, annunciare
urbi et orbi la scelta reazionaria. Accanto alle destre e ai capitalisti,
s'intende. Ma stia attento, Gianfranco Fini: questa carta venne già giocata da
qualcuno molto più inquartato di lui e tutto finì in tragedia. Giocata, magari
controvoglia, in stato di costrizione, da un Mussolini assediato dai drammatici
errori di una sinistra che si alimentava della letale irrazionalità
inevitabilmente presente nell'avversione personale, nella «questione morale»,
nella malintesa concorrenzialità. E giocata con la riserva mentale, con
l'illusione, di poter recuperare i valori della rivoluzione sociale una volta
liquidati, in sinergia con le forze conservatrici, i nemici di parte rossa. Ora,
Fini non deve fronteggiare l'emergenza di una precostituita inimicizia della
sinistra. Certo, la democrazia d'avanguardia lo combatte duramente, ma solo
perché lui e i suoi predecessori hanno stabilito, senza trovarsi in stato di
necessità, che il ruolo del MSI poi anche DN deve essere quello di punta di
diamante nella lotta contro la sinistra; che il loro partito non può che essere
una fabbrica di odio in servizio permanente effettivo contro le formazioni
progressiste e riformatrici; che il loro sport preferito deve essere la caccia
al rosso, la violenza se non fisica certo intellettuale contro il popolo della
sinistra, contro il movimento operaio organizzato, contro la cultura e i suoi
esponenti che ne hanno sposato gli ideali e gli interessi. Dunque, se egli
risulta in difficoltà per l'alluvione di antifascismo da cui è investito
-relativamente al quale lo stesso Occhetto ha detto, in una intervista a
"l'Unità" «di non credere all'efficacia di una certa retorica antifascista»- non
può non ammettere che trattasi di responsabilità esclusivamente sua e del suo
partito. Come dice il vecchio, famoso adagio? Chi è causa del suo mal pianga sé
stesso...
Naturalmente, queste note sono indirizzate anche ai personaggi che formano
-volenti o nolenti, più o meno graditi o sgraditi- il brain trust, le «teste
d'uovo» di Fini. A cominciare, tanto per essere finalmente chiari ed uscire
dagli equivoci, da quei cosiddetti «intellettuali di frontiera» che non
finiscono mai di stupirci con i loro funambolismi e di deluderci, diremmo,
giorno dopo giorno. Qualche nome? Volentieri: Giano Accame (dove mai è andato a
finire il suo "Socialismo Tricolore"?); il testé mentovato Marcello Veneziani
con il suo periodico "L'Italia settimanale" (che fine ha fatto la sua
«rivoluzione nazionale popolare»? Ritiene davvero compatibile con le idee
espresse in "Processo all'Occidente" il sostegno addirittura militante accordato
al capataz missino e alla bella Alessandra?). Per carità di patria ed esigenza
di spazio, la piantiamo qui. Almeno per il momento...
* * *
Gli arrabbiati di quello che noi chiamiamo -attirandoci molte antipatie e
sospetti a sinistra- il formalismo vetero-antifascista dicono che la svolta
missina è solo maquillage, destinato a nascondere una irremovibile propensione
al fascismo. Costoro o non hanno capito niente o fanno i nesci. Per esempio,
maledicono in blocco la RSI, sparano nel mucchio, e chiedono a Fini -proprio
come la Santa Inquisizione e il Concilio di Trento- un pubblico rinnegamento,
una abiura. Evidentemente sono accecati da una faziosità di stampo khomeynista.
Se non lo fossero si renderebbero conto che con la Repubblica Sociale Italiana
l'Inquilino di Via della Scrofa c'entra come i cavoli a merenda. Gli è
anagraficamente, storicamente e culturalmente estranea. Nel bene e nel male.
Soprattutto nel bene. Ossia negli entusiasmi ed anche in certi realizzati
progetti relativi alla socializzazione e alla rivoluzione nazionale-popolare. Di
più: Fini e sodali hanno sempre temuto come la peste il discorso sulla remota
vicenda di Salò, ben sapendo, a differenza dei khomeynisti del formalismo
vetero-antifascista, che i contenuti di tale discorso portano a velocità
supersonica verso sinistra. A una sinistra, per di più, niente affatto moderata,
anzi radicalmente trasformatrice.
Ma, si sa, i trasformisti non amano le trasformazioni. I Fregoli della politica
preferiscono ben altro... Insomma, e per dirla tutta, il buon Fini ha messo la
sordina alla RSI non per favorire il raggiungimento dell'obiettivo, certo
fondamentale e altamente positivo, della pacificazione nazionale, ma per avere
le mani libere in vista della svolta reazionaria. Egli la sua scelta l'ha fatta.
E non da oggi. Al trinomio erresseista «Italia - Repubblica - Socializzazione»
ha sostituito il meno faticoso e poco impegnativo «Italia - Repubblica -
Privatizzazione».
Ecco, di rincalzo a Fini, il capogruppo della Camera, on. Giuseppe Tatarella da
Bari. Di questo alto dignitario missino si dice sia il teorico della svolta.
Addirittura sarebbe una sorta di ispiratore segreto del segretario, una eminenza
grigia. Insomma, un Richelieu della Destra. Di sicuro è una delle punte più
avanzate della opzione reazionaria. Intervistato dal quotidiano romano "II
Tempo" afferma: «II MSI non è statalista, ha fatto la battaglia contro le
nazionalizzazioni, contro l'Eni, insieme con Sturzo. La battaglia per le
privatizzazioni è scritta nella relazione con la quale Fini tornò alla
segreteria del MSI». E all'intervistatore, Giuseppe De Tomaso, che obbietta:
«Non tutto il MSI la pensa così. C'è chi si ricollega alla Repubblica di Salò,
il cui programma era socialisteggiante», replica seccamente: «No. Oggi, l'unità
di vedute nel MSI e corale».
Le cose stanno veramente in tal modo, on. Rauti?
Enrico
Landolfi
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