... il domani appartiene a
noi
«Dalla parte dei vinti. Non
foss'altro per l'arrogante prepotenza dei vincitori». Così facendo, è capitato
che: «Ci siamo seduti dalla parte del torto, visto che gli altri posti (: quelli
di chi stava con la Ragione, con la Storia, la Civiltà e il Progresso, n.d.r.)
erano già stati tutti occupati».
Queste due frasi (la prima è di Albert Camus, la seconda di Bertolt Brecht)
condensano -in modo emblematico, a me pare- la nostra parabola degli ultimi
cinquant'anni, la parabola politico-esistenziale dei «fascisti 1943-1993».
Giunti così alle soglie del Secondo Millennio, abbiamo veduto sgretolarsi imperi
e fedi, cadere muri e dèi. Si è visto l'asse mondiale Est-Ovest ruotare lungo le
coordinate Nord-Sud, ed una serie di processi storici «forti» hanno impresso
alle cronache velocità e direzioni sino ad ieri impensabili...
Stiamo dunque assistendo all'esaurimento di un'era, allo spirare di un ciclo?
Tutto fa ritenere di sì. E se, in un contesto così convulso e denso di
trasformazioni anche fra loro contraddittorie, dovesse succedere che i vinti di
ieri diventassero i vincitori di domani?
Sì, anche questo sta forse preparandosi dietro gli odierni scenari di fine
epoca. Anche questo potrà accadere nell'umana stagione che stiamo vivendo, tanto
gravida di eventi dirompenti, che già hanno lacerato equilibri consolidati,
ritenuti giusti, normali, eterni !... E vi è, in questo clima di attesa,
qualcosa di più di una semplice sensazione, di una vaga ipotesi compensativa di
speranze frustrate o di inconfessate voglie di rivincita...
Realisticamente: Evola, Spengler, Guénon -e con essi il «Kulturpessimismus» del
nostro secolo, il «secolo dopo Nietzsche»- avevano colto eccome! nel segno; non
solo, ma la rilettura dei loro «tramonti d'Occidente», di «crisi» e «rivolte»
contro la civiltà moderna, invece di dar luogo a tradizionali e incapacitanti
pessimismi, riesce ad offrire -a quanti sappiano scrutare l'orizzonte-
inaspettate, prossime aurore...
Ma, per limitare lo sguardo al presente ed ai nostri assai più modesti ed
immediati dintorni, non sarà difficile scorgere come nell'attuale situazione
italiana stiano tornando alla luce -brillando di luce propria- tematiche già
dichiarate morte e sepolte. Siamo di fronte al risorgimento di idee, di
sentimenti, di valori che per anni sono stati custoditi da un'esigua ed ignorata
minoranza, nel silenzio e nel disprezzo di quanti, con quelle «verità»,
avrebbero comunque dovuto confrontarsi e scontrarsi.
Quei profeti inascoltati avevano infatti largamente previsto come sarebbe andata
a finire con l'Italia della partitocrazia, con le false ideologie mascherate di
idealità, con la castrazione civile e morale degli italiani.
Profeti disarmati, ma forgiati da una cultura elitaria e dall'impegno sociale,
che avevano a volte saputo anticipare i tempi; che avevano ricorso a Heidegger e
Berto Ricci, a Evola e Schmitt, quando magari i loro coetanei e conterranei
agitavano libretti rossi e vestivano all'operaia, atteggiandosi ad esteti della
rivoluzione culturale. E mentre comunisti e pseudo-libertari di allora, alla
morte del «Dio che ha fallito», si son presto convertiti al «moloch» del
liberal-comunismo, altri hanno saputo mantenere con lucidità e coerenza la
critica all'imperialismo del denaro, alla democrazia economica, alla
coIonizzazione planetaria dell'«american way of life».
Ora, su più fronti, ci si va accorgendo che quella cultura dei vinti era in
grado di dare risposte alla crisi globale contemporanea. Ora gli antichi e
smarriti maestri di coloro che, a ragione, «si erano seduti dalla parte del
torto» fanno scuola e proseliti. I «vinti» (almeno quelli rimasti, e rimasti in
piedi) appaiono molto meno anacronistici di un tempo... e la loro «cultura»,
poi, la loro «scuola», non risulta più «inesistente», come il dogma-bobbio,
raccolto dai tanti sacrestani dell'antifascismo, voleva far recitare e
salmodiare «urbi et orbi».
Certo, non tutto di quella nostra scuola di «pensiero e azione» può utilmente
esser recuperato ed impiegato ai giorni nostri. In particolare, ben poco resta
da salvare dell'esperienza neo-fascista, con il suo carico pesante di
filo-americanismo, di remore conservatrici, di cascami gladiatori... i diritti
di primogenitura, il neo-fascismo se li è giocati. E li ha sperperati in
quarantanni di subcultura reazionaria, di «battaglie» parlamentari, di
contiguità democristiana, di retorica imbalsamatrice...
Una parte cospicua di quella grande eredità però resta. Resta come filone
inesausto del fenomeno, composito e ricco di riferimenti, che storicamente
prende nome di fascismo: ossia il filone «di sinistra» -se ancora vogliamo far
uso di simili etichette- ovvero «movimentista», proprio alle fasi iniziale e
terminale dell'esperienza fascista in Italia.
Quella, la parte d'eredità da recuperare e mettere a frutto, così come già sta
facendosi ad opera di vari coeredi.
La vivificante idealità di un simile patrimonio suscita crescente interesse,
muove progetti, alimenta nuove aggregazioni. Per quanti non abbiano voluto a suo
tempo conformarsi e piegarsi al «vento del Sud», e poi dell'Ovest o dell'Est;
per quanti abbiano atteso il passaggio dell'onda lunga di Sinistra e ora di
Destra, è tempo di aprirsi al futuro.
Proprio quest'epoca di secolarizzazione, di leghismi disgregatori e di
omologazioni mondialiste, presenta una domanda diffusa, ancorché inespressa, di
identità. Dopo un lungo letargo, scandito da misconoscimenti o avversioni per le
specificità, per i «sensi di appartenenza», per la «religione dello stare
insieme», si sta manifestando una generale richiesta «pre-ideologica» di patria,
di comunità, di nazione.
Né siamo in grado di proporre o riproporre una risposta tanto persuasiva ed in
un certo qual senso totalizzante, se non facciamo nostre le parole di «un
Socialista del 1914» così come riportate da Luigi Costa su "Aurora" n° 9/93:
«Non ci può essere Nazione se non vi è un Popolo; non vi può essere un Popolo
finché vi sono i troppo ricchi e i troppo poveri».
Risulta infatti impraticabile, in termini moderni, quell'insieme concettuale (:
Patria, nazione, popolo, comunità...) senza l'ancoraggio ad un sistema di
valori, valori «fermi» da sempre.
Più di qualcuno, proveniente da altre esperienze politico-culturali, lo ha ben
compreso.
Dovendosi dunque dare per scontato il rifiuto sia della vecchia concezione
giacobina di nazione, sia degli effetti devastanti del socialismo reale -la
questione si apre in questi termini: possiede la «cultura alternativa» una forza
di riserva capace di promuovere quelle «idee senza parole», in modo non lesivo
alla dignità di ciascuno, alla logica e all'intelligenza storica; e -al tempo
stesso- è quella cultura in grado di dar corpo ed anima ad una volontà autentica
e decisiva di giustizia sociale?
C'è chi ci sta provando. Con risultati che destano concrete speranze.
Un solo rimpianto rimane, nell'animo mio e di altri: a «costruire la città che
ha terrazze color delle stelle» non avremo a fianco, o davanti, uomini che
ritenevamo del nostro stesso impasto di «sangue e spirito». Ci rammarichiamo di
loro e per loro, della loro pigrizia o furbizia, delle piccole o grandi loro
viltà.
Ed è ancora questo nostro sentire che, in altre circostanze, ci ha impedito di
motivare quali scelte ideali (o pragmatiche, o comunque disinteressate), quanto
invece appartiene all'esclusiva sfera del tornaconto personale, al materiale
istinto di conservazione della propria mediocrità. Noi in ogni caso, se è vero
quanto scrive Thomas Mann, che: «Le convinzioni appartengono a chi le possiede e
muoiono solo quando non si saprà più affermarle», noi, quelle convinzioni
vogliamo farle vivere.
Alberto
Ostidich
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