«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 8 - 31 Dicembre 1993

 

... il domani appartiene a noi


 

«Dalla parte dei vinti. Non foss'altro per l'arrogante prepotenza dei vincitori». Così facendo, è capitato che: «Ci siamo seduti dalla parte del torto, visto che gli altri posti (: quelli di chi stava con la Ragione, con la Storia, la Civiltà e il Progresso, n.d.r.) erano già stati tutti occupati».
Queste due frasi (la prima è di Albert Camus, la seconda di Bertolt Brecht) condensano -in modo emblematico, a me pare- la nostra parabola degli ultimi cinquant'anni, la parabola politico-esistenziale dei «fascisti 1943-1993».
Giunti così alle soglie del Secondo Millennio, abbiamo veduto sgretolarsi imperi e fedi, cadere muri e dèi. Si è visto l'asse mondiale Est-Ovest ruotare lungo le coordinate Nord-Sud, ed una serie di processi storici «forti» hanno impresso alle cronache velocità e direzioni sino ad ieri impensabili...
Stiamo dunque assistendo all'esaurimento di un'era, allo spirare di un ciclo? Tutto fa ritenere di sì. E se, in un contesto così convulso e denso di trasformazioni anche fra loro contraddittorie, dovesse succedere che i vinti di ieri diventassero i vincitori di domani?
Sì, anche questo sta forse preparandosi dietro gli odierni scenari di fine epoca. Anche questo potrà accadere nell'umana stagione che stiamo vivendo, tanto gravida di eventi dirompenti, che già hanno lacerato equilibri consolidati, ritenuti giusti, normali, eterni !... E vi è, in questo clima di attesa, qualcosa di più di una semplice sensazione, di una vaga ipotesi compensativa di speranze frustrate o di inconfessate voglie di rivincita...
Realisticamente: Evola, Spengler, Guénon -e con essi il «Kulturpessimismus» del nostro secolo, il «secolo dopo Nietzsche»- avevano colto eccome! nel segno; non solo, ma la rilettura dei loro «tramonti d'Occidente», di «crisi» e «rivolte» contro la civiltà moderna, invece di dar luogo a tradizionali e incapacitanti pessimismi, riesce ad offrire -a quanti sappiano scrutare l'orizzonte- inaspettate, prossime aurore...
Ma, per limitare lo sguardo al presente ed ai nostri assai più modesti ed immediati dintorni, non sarà difficile scorgere come nell'attuale situazione italiana stiano tornando alla luce -brillando di luce propria- tematiche già dichiarate morte e sepolte. Siamo di fronte al risorgimento di idee, di sentimenti, di valori che per anni sono stati custoditi da un'esigua ed ignorata minoranza, nel silenzio e nel disprezzo di quanti, con quelle «verità», avrebbero comunque dovuto confrontarsi e scontrarsi.
Quei profeti inascoltati avevano infatti largamente previsto come sarebbe andata a finire con l'Italia della partitocrazia, con le false ideologie mascherate di idealità, con la castrazione civile e morale degli italiani.
Profeti disarmati, ma forgiati da una cultura elitaria e dall'impegno sociale, che avevano a volte saputo anticipare i tempi; che avevano ricorso a Heidegger e Berto Ricci, a Evola e Schmitt, quando magari i loro coetanei e conterranei agitavano libretti rossi e vestivano all'operaia, atteggiandosi ad esteti della rivoluzione culturale. E mentre comunisti e pseudo-libertari di allora, alla morte del «Dio che ha fallito», si son presto convertiti al «moloch» del liberal-comunismo, altri hanno saputo mantenere con lucidità e coerenza la critica all'imperialismo del denaro, alla democrazia economica, alla coIonizzazione planetaria dell'«american way of life».
Ora, su più fronti, ci si va accorgendo che quella cultura dei vinti era in grado di dare risposte alla crisi globale contemporanea. Ora gli antichi e smarriti maestri di coloro che, a ragione, «si erano seduti dalla parte del torto» fanno scuola e proseliti. I «vinti» (almeno quelli rimasti, e rimasti in piedi) appaiono molto meno anacronistici di un tempo... e la loro «cultura», poi, la loro «scuola», non risulta più «inesistente», come il dogma-bobbio, raccolto dai tanti sacrestani dell'antifascismo, voleva far recitare e salmodiare «urbi et orbi».
Certo, non tutto di quella nostra scuola di «pensiero e azione» può utilmente esser recuperato ed impiegato ai giorni nostri. In particolare, ben poco resta da salvare dell'esperienza neo-fascista, con il suo carico pesante di filo-americanismo, di remore conservatrici, di cascami gladiatori... i diritti di primogenitura, il neo-fascismo se li è giocati. E li ha sperperati in quarantanni di subcultura reazionaria, di «battaglie» parlamentari, di contiguità democristiana, di retorica imbalsamatrice...
Una parte cospicua di quella grande eredità però resta. Resta come filone inesausto del fenomeno, composito e ricco di riferimenti, che storicamente prende nome di fascismo: ossia il filone «di sinistra» -se ancora vogliamo far uso di simili etichette- ovvero «movimentista», proprio alle fasi iniziale e terminale dell'esperienza fascista in Italia.
Quella, la parte d'eredità da recuperare e mettere a frutto, così come già sta facendosi ad opera di vari coeredi.
La vivificante idealità di un simile patrimonio suscita crescente interesse, muove progetti, alimenta nuove aggregazioni. Per quanti non abbiano voluto a suo tempo conformarsi e piegarsi al «vento del Sud», e poi dell'Ovest o dell'Est; per quanti abbiano atteso il passaggio dell'onda lunga di Sinistra e ora di Destra, è tempo di aprirsi al futuro.
Proprio quest'epoca di secolarizzazione, di leghismi disgregatori e di omologazioni mondialiste, presenta una domanda diffusa, ancorché inespressa, di identità. Dopo un lungo letargo, scandito da misconoscimenti o avversioni per le specificità, per i «sensi di appartenenza», per la «religione dello stare insieme», si sta manifestando una generale richiesta «pre-ideologica» di patria, di comunità, di nazione.
Né siamo in grado di proporre o riproporre una risposta tanto persuasiva ed in un certo qual senso totalizzante, se non facciamo nostre le parole di «un Socialista del 1914» così come riportate da Luigi Costa su "Aurora" n° 9/93: «Non ci può essere Nazione se non vi è un Popolo; non vi può essere un Popolo finché vi sono i troppo ricchi e i troppo poveri».
Risulta infatti impraticabile, in termini moderni, quell'insieme concettuale (: Patria, nazione, popolo, comunità...) senza l'ancoraggio ad un sistema di valori, valori «fermi» da sempre.
Più di qualcuno, proveniente da altre esperienze politico-culturali, lo ha ben compreso.
Dovendosi dunque dare per scontato il rifiuto sia della vecchia concezione giacobina di nazione, sia degli effetti devastanti del socialismo reale -la questione si apre in questi termini: possiede la «cultura alternativa» una forza di riserva capace di promuovere quelle «idee senza parole», in modo non lesivo alla dignità di ciascuno, alla logica e all'intelligenza storica; e -al tempo stesso- è quella cultura in grado di dar corpo ed anima ad una volontà autentica e decisiva di giustizia sociale?
C'è chi ci sta provando. Con risultati che destano concrete speranze.
Un solo rimpianto rimane, nell'animo mio e di altri: a «costruire la città che ha terrazze color delle stelle» non avremo a fianco, o davanti, uomini che ritenevamo del nostro stesso impasto di «sangue e spirito». Ci rammarichiamo di loro e per loro, della loro pigrizia o furbizia, delle piccole o grandi loro viltà.
Ed è ancora questo nostro sentire che, in altre circostanze, ci ha impedito di motivare quali scelte ideali (o pragmatiche, o comunque disinteressate), quanto invece appartiene all'esclusiva sfera del tornaconto personale, al materiale istinto di conservazione della propria mediocrità. Noi in ogni caso, se è vero quanto scrive Thomas Mann, che: «Le convinzioni appartengono a chi le possiede e muoiono solo quando non si saprà più affermarle», noi, quelle convinzioni vogliamo farle vivere.

 

Alberto Ostidich

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