«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 1 - 31 Gennaio 1994

 

Non possumus



«Il fascismo è morto nel 1945». Con questa acritica e avventata affermazione si è concluso l'ultimo Comitato centrale del MSI. Il più grigio è il più tristo. Grigio e tristo come colui che tale frase ha pronunciato, come coloro che hanno applaudito. Questo non ci scandalizza, né ci meraviglia. Casomai ci indigna e lascia tanto amaro in bocca. Soprattutto a chi, non più troppo giovane ma neppure troppo vecchio, per anni ed anni ha militato ed ha creduto in quello che una volta si chiamava Movimento e al tempo stesso sociale. Fino a sacrificare tutta la propria giovinezza. E qui potremmo profondere retorica a piene mani. Sbattendo sul muso dei neomoderati e dei neocentristi dell'ultima ora le decine di ragazzi morti, le centinaia e centinaia di famiglie rovinate, le migliaia di militanti perseguitati e incarcerati, e tanto altro ancora. Non lo facciamo. Non è nel nostro stile. Lasciamo il tutto alla coscienza di ciascuno. Ma una prima considerazione ci sia consentita. La scelta di destra moderata, o di centro destra, o di polo conservatore è un piccolo gioco per chi vuole rischiare poco e momentaneamente guadagnare molto in termini elettoralistici e personali, giocandosi però tanto e tutto per quel che riguarda la sua anima e la sua carta d'identità. A questo piccolo gioco non ci siamo mai stati. Negli Anni Sessanta quando Michelini ipotizzò la cosiddetta Grande destra con i liberali di Malagodi. Negli Anni Settanta quando Almirante confezionò la Destra nazionale con il ciarpame ed il vecchiume di sabauda memoria. Due anni orsono quando uscimmo dal MSI perché, ahimè!, sapevamo già in anticipo dove l'uomo grigio e tristo sarebbe andato a parare.
Non volevamo essere partecipi di questo ennesimo e stolto voltafaccia. E ringraziamo Dio di averci dato, due anni e più orsono, il coraggio di una scelta che a molti sembrò inopportuna e spropositata. Fu scelta tutt'altro che nostalgica. Come nostalgiche non sono le odierne considerazioni, ma attuali e realistiche. Anche se, è bene dirlo con chiarezza, ai camaleonti e agli arrivisti preferiamo i nostalgici. A qualsiasi sponda appartengano. Non ci piacque, all'indomani della caduta del Muro di Berlino, l'anticomunismo degli ex comunisti. Non ci piace l'antifascismo degli ex fascisti. Non ci piace Occhetto così come non ci piace Fini. Due facce di una stessa medaglia: la conservazione dell'attuale sistema.
Ma un'altra considerazione ci sia consentita. Quando Pino Rauti ipotizzò ed auspicò, e si badi bene senza nulla rinnegare e nella più autentica tradizione nazionale, sociale e popolare del fascismo, lo sfondamento a sinistra, qualcuno ironicamente e incautamente disse che avremmo così festeggiato il 1° maggio. Costoro, oggi, festeggeranno il 25 aprile! E proprio a costoro ricordiamo quanto ebbe a dire il grande storico Gioacchino Volpe: «La storia non si fa razzolando tra i rifiuti».
Affermare che il fascismo è morto nel 1945 è pura e semplice follia. Significa porsi fuori dalla storia. Significa non aver studiato, né letto, né «vissuto» in questi cinquanta anni di becero e vuoto antifascismo e capitalismo selvaggio. Chi prese una tessera nel «Ventennio» per conformismo o opportunismo o per inserirsi nel grande gioco degli interessi, ha potuto facilmente voltare gabbana e arruolarsi nei partiti ciellenisti per continuare a perseguire i suoi privati obiettivi. Le recenti vicende del nostro Paese ampiamente lo dimostrano. Chi invece ha abbracciato una fede politica ed ha accettato una concezione etica della vita, adoperandosi per lo sviluppo e l'affermazione di una dottrina unitaria nel campo politico, sociale, economico, battendosi per essa, non può semplicemente abdicarvi. Altrimenti è in malafede o non vi ha mai creduto. Si può credere alle evoluzioni ma non crediamo alle conversioni politiche.
Che il fascismo, quello che va dagli «orientamenti teorici e postulati pratici» del 1920 al «Manifesto di Verona» del 1943, dalla «Carta del Lavoro» del 1927 al discorso del Lirico del 16 dicembre 1944, sia morto e fallito è tutto da dimostrare, anzi è vero l'esatto contrario. Ha perso una guerra, ma è caduto in piedi. Lanciando e lasciando quel rivoluzionario messaggio sociale che si sintetizza proprio nei Diciotto Punti di Verona. A differenza del comunismo, morto e fallito proprio sul piano sociale e nel modo ignominioso che tutti conosciamo. Sicuramente nel 1945 morì il regime fascista, ma non il fascismo in quanto tale.
Sicuramente nel 1945 vinse il liberalcapitalismo. Vinse l'attuale partitocrazia in cui la volontà prevaricatrice degli apparati dei partiti si è sovrapposta alla volontà degli elettori. Con i danni e le ingiustizie che stanno di fronte agli occhi di tutti. Ai vincitori del 1945 spetta il compito di ripensare e abiurare. Non certo a coloro che persero cadendo in piedi sull'ultima trincea o a coloro che nel dopoguerra scelsero i vinti. Tocca ai figli del CLN recarsi a Piazzale Loreto per cancellare quella ignobile pagina di storia italiana. La pacificazione nazionale passa anche e soprattutto attraverso quel gesto. Prezzolini ebbe a scrivere: «Quando di un morto si parla tanto è segno che è ancora vivo».
Ma in quel grigio e tristo Comitato centrale di metà dicembre 1993 ci si è dimenticati di tutto e di tutti. Un colpo di spugna, e avanti. A razzolare tra i rifiuti. A cercare voti, posti, prebende e poltrone. Per vincere, si dice. Ma su quali presupposti e su quali programmi? Per il libero mercato, contro lo stato sociale. Con il capitalismo, contro la socializzazione e la partecipazione. Con l'America, contro la dignità e l'indipendenza dei popoli. Con le multinazionali e le lobbies, contro la comunità nazionale. Con il consumismo più efferato, contro i bisogni alti della società. In sintesi contro quei valori sociali e morali di cui l'autentico fascismo fu ed è portatore. Non più alternativa a questo sistema, ma dentro a sguazzarvi. Come Scalfaro, Occhetto, Segni, Berlusconi, Martinazzoli e così via. Ecco come si spiega la scelta di quel grigio e tristo Comitato centrale.
«Il fascismo è morto nel 1945» è affermazione oltre che folle, ingiustificata e non giustificabile. Con simili battute forse si entra, per qualche mese?, nella fredda cronaca. Ma si esce dalla storia. Ed il fascismo, volenti o nolenti, è storia di ieri e di oggi. Non certo quello, peraltro assai marginale, dei mediocri e spocchiosi gerarchi e gerarchetti, dei provincialotti ambiziosi, dei fedeloni arroganti, dei ras locali. Tutto un mondo che esisteva prima e si potenzierà, dopo la caduta del fascismo, in senso peggiorativo. Quell'aspetto del fascismo, che è poi caratteristica prettamente italiana, lo ha ereditato ed ampliato la scellerata partitocrazia nata dalla resistenza. MSI compreso.
Al contrario, oggi più che mai, si può affermare che il fascismo non è morto. E ci riferiamo a quel fascismo che faceva scrivere, il 16 luglio del 1937, da Mussolini al prefetto di Torino: «Comunichi al senatore Agnelli che nei nuovi stabilimenti FIAT devono esserci comodi e decorosi refettori degli operai. Gli dica che il lavoratore che mangia in fretta e furia vicino alla macchina non è di questo tempo fascista. Aggiunga che l'uomo non è una macchina adibita ad un'altra macchina».
Quel fascismo che faceva dire a Berto Ricci nel 1927: «L'antiRoma c'è, ma non è Mosca. Contro Roma, città dell'anima, sta Chicago, capitale del maiale».
Quel fascismo che faceva scrivere a Pino Romualdi, il 22 novembre del 1944: «Siamo tendenzialmente dei socialisti. La parola socialismo non ci fa alcuna paura, anzi ci conforta, perché sentiamo in essa il senso di una giustizia sociale che perseguiamo da anni, e per la quale abbiamo tanto lottato».
Quel fascismo che si compendia nelle parole di Mussolini: «La socializzazione altro non è se non la realizzazione italiana, umana, nostra, effettuabile del socialismo; dico nostra in quanto fa del lavoro il soggetto unico dell'economia, ma respinge le meccaniche livellazioni di tutto e di tutti».
Quel fascismo che fa confessare, sempre a Mussolini, nell'aprile del 1945: «II mio testamento politico: Italia, Repubblica, Socializzazione. Anzi, se si potesse dire, socialistizzazione. Prima era il lavoro al servizio del capitale, ora è il capitale al servizio del lavoro».
Quel fascismo che il sindacalista rivoluzionario George Sorel così mirabilmente sintetizzò: «Mussolini, che non è un socialista in senso borghese, ha inventato qualcosa che non è nei miei libri: l'unione del nazionale e del sociale».
Quel fascismo che fa scrivere a Drieu La Rochelle nel suo romanzo Gilles: «So perfettamente di essere fascista dal sei febbraio 1934 e so bene in che cosa consista. Consiste nel voler fare il socialismo senza sbraitare che lo si farà, ma al contrario nel farlo. Essere fascista significa che non si può fare altro che il socialismo; che bisogna mettere in galera i capi attuali dell'economia, irresponsabili di fronte alla politica, e i capi politici, irresponsabili sul piano economico».
Quel fascismo che fece scrivere, nel 1987, a Beppe Niccolai: «La RSI fu ribellione, fu rabbia civica e nazionale, fu passione. Oltre il fascismo: quello degli alala, delle divise, quello di "ordine e zitti!". L'eresia, la trasgressione, è il carattere nostro [...] tra Bombacci e Grandi, sto con Bombacci».
In un'epoca in cui si è perso ogni senso di solidarietà e di giustizia sociale. In tempi in cui sempre più si assiste allo sfaldamento della comunità nazionale e alla omologazione con modi di vivere e pensare a noi del tutto estranei; nel momento in cui prevalgono l'egoismo, l'usura, lo sfruttamento, l'interesse dei singoli a scapito della collettività; di fronte a tutto questo è impensabile e suicida gettare nel cestino il patrimonio culturale e sociale che proprio il fascismo ci ha lasciato in eredità. Per decenni siamo restati in piedi in mezzo alle rovine. Abbiamo pagato, sofferto, subito umiliazioni e vessazioni. Ma non ci siamo mai arresi. Dovremmo farlo proprio oggi? Proprio oggi dovremmo accettare, per fini e scopi esclusivamente elettoralistici e di convenienza momentanea, un tipo di società ed un sistema politico che sempre ci hanno fatto schifo? Chi se la sente, o già se l'è sentita, si accomodi pure. Si sieda pure al tavolo delle trattative e dei compromessi. Si cali pure le brache. Vada pure, con il vestito nuovo e la coscienza sporca, al mercato delle vacche. Svenda pure anima e coscienza. Noi rispondiamo: non possumus. Perché il fascismo, quello che più sopra abbiamo tentato di descrivere, non è sicuramente morto.
 

Gianni Benvenuti

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