Non possumus
«Il fascismo è morto nel 1945». Con questa acritica e avventata affermazione si
è concluso l'ultimo Comitato centrale del MSI. Il più grigio è il più tristo.
Grigio e tristo come colui che tale frase ha pronunciato, come coloro che hanno
applaudito. Questo non ci scandalizza, né ci meraviglia. Casomai ci indigna e
lascia tanto amaro in bocca. Soprattutto a chi, non più troppo giovane ma
neppure troppo vecchio, per anni ed anni ha militato ed ha creduto in quello che
una volta si chiamava Movimento e al tempo stesso sociale. Fino a sacrificare
tutta la propria giovinezza. E qui potremmo profondere retorica a piene mani.
Sbattendo sul muso dei neomoderati e dei neocentristi dell'ultima ora le decine
di ragazzi morti, le centinaia e centinaia di famiglie rovinate, le migliaia di
militanti perseguitati e incarcerati, e tanto altro ancora. Non lo facciamo. Non
è nel nostro stile. Lasciamo il tutto alla coscienza di ciascuno. Ma una prima
considerazione ci sia consentita. La scelta di destra moderata, o di centro
destra, o di polo conservatore è un piccolo gioco per chi vuole rischiare poco e
momentaneamente guadagnare molto in termini elettoralistici e personali,
giocandosi però tanto e tutto per quel che riguarda la sua anima e la sua carta
d'identità. A questo piccolo gioco non ci siamo mai stati. Negli Anni Sessanta
quando Michelini ipotizzò la cosiddetta Grande destra con i liberali di
Malagodi. Negli Anni Settanta quando Almirante confezionò la Destra nazionale
con il ciarpame ed il vecchiume di sabauda memoria. Due anni orsono quando
uscimmo dal MSI perché, ahimè!, sapevamo già in anticipo dove l'uomo grigio e
tristo sarebbe andato a parare.
Non volevamo essere partecipi di questo ennesimo e stolto voltafaccia. E
ringraziamo Dio di averci dato, due anni e più orsono, il coraggio di una scelta
che a molti sembrò inopportuna e spropositata. Fu scelta tutt'altro che
nostalgica. Come nostalgiche non sono le odierne considerazioni, ma attuali e
realistiche. Anche se, è bene dirlo con chiarezza, ai camaleonti e agli
arrivisti preferiamo i nostalgici. A qualsiasi sponda appartengano. Non ci
piacque, all'indomani della caduta del Muro di Berlino, l'anticomunismo degli ex
comunisti. Non ci piace l'antifascismo degli ex fascisti. Non ci piace Occhetto
così come non ci piace Fini. Due facce di una stessa medaglia: la conservazione
dell'attuale sistema.
Ma un'altra considerazione ci sia consentita. Quando Pino Rauti ipotizzò ed
auspicò, e si badi bene senza nulla rinnegare e nella più autentica tradizione
nazionale, sociale e popolare del fascismo, lo sfondamento a sinistra, qualcuno
ironicamente e incautamente disse che avremmo così festeggiato il 1° maggio.
Costoro, oggi, festeggeranno il 25 aprile! E proprio a costoro ricordiamo quanto
ebbe a dire il grande storico Gioacchino Volpe: «La storia non si fa razzolando
tra i rifiuti».
Affermare che il fascismo è morto nel 1945 è pura e semplice follia. Significa
porsi fuori dalla storia. Significa non aver studiato, né letto, né «vissuto» in
questi cinquanta anni di becero e vuoto antifascismo e capitalismo selvaggio.
Chi prese una tessera nel «Ventennio» per conformismo o opportunismo o per
inserirsi nel grande gioco degli interessi, ha potuto facilmente voltare gabbana
e arruolarsi nei partiti ciellenisti per continuare a perseguire i suoi privati
obiettivi. Le recenti vicende del nostro Paese ampiamente lo dimostrano. Chi
invece ha abbracciato una fede politica ed ha accettato una concezione etica
della vita, adoperandosi per lo sviluppo e l'affermazione di una dottrina
unitaria nel campo politico, sociale, economico, battendosi per essa, non può
semplicemente abdicarvi. Altrimenti è in malafede o non vi ha mai creduto. Si
può credere alle evoluzioni ma non crediamo alle conversioni politiche.
Che il fascismo, quello che va dagli «orientamenti teorici e postulati pratici»
del 1920 al «Manifesto di Verona» del 1943, dalla «Carta del Lavoro» del 1927 al
discorso del Lirico del 16 dicembre 1944, sia morto e fallito è tutto da
dimostrare, anzi è vero l'esatto contrario. Ha perso una guerra, ma è caduto in
piedi. Lanciando e lasciando quel rivoluzionario messaggio sociale che si
sintetizza proprio nei Diciotto Punti di Verona. A differenza del comunismo,
morto e fallito proprio sul piano sociale e nel modo ignominioso che tutti
conosciamo. Sicuramente nel 1945 morì il regime fascista, ma non il fascismo in
quanto tale.
Sicuramente nel 1945 vinse il liberalcapitalismo. Vinse l'attuale partitocrazia
in cui la volontà prevaricatrice degli apparati dei partiti si è sovrapposta
alla volontà degli elettori. Con i danni e le ingiustizie che stanno di fronte
agli occhi di tutti. Ai vincitori del 1945 spetta il compito di ripensare e
abiurare. Non certo a coloro che persero cadendo in piedi sull'ultima trincea o
a coloro che nel dopoguerra scelsero i vinti. Tocca ai figli del CLN recarsi a
Piazzale Loreto per cancellare quella ignobile pagina di storia italiana. La
pacificazione nazionale passa anche e soprattutto attraverso quel gesto.
Prezzolini ebbe a scrivere: «Quando di un morto si parla tanto è segno che è
ancora vivo».
Ma in quel grigio e tristo Comitato centrale di metà dicembre 1993 ci si è
dimenticati di tutto e di tutti. Un colpo di spugna, e avanti. A razzolare tra i
rifiuti. A cercare voti, posti, prebende e poltrone. Per vincere, si dice. Ma su
quali presupposti e su quali programmi? Per il libero mercato, contro lo stato
sociale. Con il capitalismo, contro la socializzazione e la partecipazione. Con
l'America, contro la dignità e l'indipendenza dei popoli. Con le multinazionali
e le lobbies, contro la comunità nazionale. Con il consumismo più efferato,
contro i bisogni alti della società. In sintesi contro quei valori sociali e
morali di cui l'autentico fascismo fu ed è portatore. Non più alternativa a
questo sistema, ma dentro a sguazzarvi. Come Scalfaro, Occhetto, Segni,
Berlusconi, Martinazzoli e così via. Ecco come si spiega la scelta di quel
grigio e tristo Comitato centrale.
«Il fascismo è morto nel 1945» è affermazione oltre che folle, ingiustificata e
non giustificabile. Con simili battute forse si entra, per qualche mese?, nella
fredda cronaca. Ma si esce dalla storia. Ed il fascismo, volenti o nolenti, è
storia di ieri e di oggi. Non certo quello, peraltro assai marginale, dei
mediocri e spocchiosi gerarchi e gerarchetti, dei provincialotti ambiziosi, dei
fedeloni arroganti, dei ras locali. Tutto un mondo che esisteva prima e si
potenzierà, dopo la caduta del fascismo, in senso peggiorativo. Quell'aspetto
del fascismo, che è poi caratteristica prettamente italiana, lo ha ereditato ed
ampliato la scellerata partitocrazia nata dalla resistenza. MSI compreso.
Al contrario, oggi più che mai, si può affermare che il fascismo non è morto. E
ci riferiamo a quel fascismo che faceva scrivere, il 16 luglio del 1937, da
Mussolini al prefetto di Torino: «Comunichi al senatore Agnelli che nei nuovi
stabilimenti FIAT devono esserci comodi e decorosi refettori degli operai. Gli
dica che il lavoratore che mangia in fretta e furia vicino alla macchina non è
di questo tempo fascista. Aggiunga che l'uomo non è una macchina adibita ad
un'altra macchina».
Quel fascismo che faceva dire a Berto Ricci nel 1927: «L'antiRoma c'è, ma non è
Mosca. Contro Roma, città dell'anima, sta Chicago, capitale del maiale».
Quel fascismo che faceva scrivere a Pino Romualdi, il 22 novembre del 1944:
«Siamo tendenzialmente dei socialisti. La parola socialismo non ci fa alcuna
paura, anzi ci conforta, perché sentiamo in essa il senso di una giustizia
sociale che perseguiamo da anni, e per la quale abbiamo tanto lottato».
Quel fascismo che si compendia nelle parole di Mussolini: «La socializzazione
altro non è se non la realizzazione italiana, umana, nostra, effettuabile del
socialismo; dico nostra in quanto fa del lavoro il soggetto unico dell'economia,
ma respinge le meccaniche livellazioni di tutto e di tutti».
Quel fascismo che fa confessare, sempre a Mussolini, nell'aprile del 1945: «II
mio testamento politico: Italia, Repubblica, Socializzazione. Anzi, se si
potesse dire, socialistizzazione. Prima era il lavoro al servizio del capitale,
ora è il capitale al servizio del lavoro».
Quel fascismo che il sindacalista rivoluzionario George Sorel così mirabilmente
sintetizzò: «Mussolini, che non è un socialista in senso borghese, ha inventato
qualcosa che non è nei miei libri: l'unione del nazionale e del sociale».
Quel fascismo che fa scrivere a Drieu La Rochelle nel suo romanzo Gilles: «So
perfettamente di essere fascista dal sei febbraio 1934 e so bene in che cosa
consista. Consiste nel voler fare il socialismo senza sbraitare che lo si farà,
ma al contrario nel farlo. Essere fascista significa che non si può fare altro
che il socialismo; che bisogna mettere in galera i capi attuali dell'economia,
irresponsabili di fronte alla politica, e i capi politici, irresponsabili sul
piano economico».
Quel fascismo che fece scrivere, nel 1987, a Beppe Niccolai: «La RSI fu
ribellione, fu rabbia civica e nazionale, fu passione. Oltre il fascismo: quello
degli alala, delle divise, quello di "ordine e zitti!". L'eresia, la
trasgressione, è il carattere nostro [...] tra Bombacci e Grandi, sto con
Bombacci».
In un'epoca in cui si è perso ogni senso di solidarietà e di giustizia sociale.
In tempi in cui sempre più si assiste allo sfaldamento della comunità nazionale
e alla omologazione con modi di vivere e pensare a noi del tutto estranei; nel
momento in cui prevalgono l'egoismo, l'usura, lo sfruttamento, l'interesse dei
singoli a scapito della collettività; di fronte a tutto questo è impensabile e
suicida gettare nel cestino il patrimonio culturale e sociale che proprio il
fascismo ci ha lasciato in eredità. Per decenni siamo restati in piedi in mezzo
alle rovine. Abbiamo pagato, sofferto, subito umiliazioni e vessazioni. Ma non
ci siamo mai arresi. Dovremmo farlo proprio oggi? Proprio oggi dovremmo
accettare, per fini e scopi esclusivamente elettoralistici e di convenienza
momentanea, un tipo di società ed un sistema politico che sempre ci hanno fatto
schifo? Chi se la sente, o già se l'è sentita, si accomodi pure. Si sieda pure
al tavolo delle trattative e dei compromessi. Si cali pure le brache. Vada pure,
con il vestito nuovo e la coscienza sporca, al mercato delle vacche. Svenda pure
anima e coscienza. Noi rispondiamo: non possumus. Perché il fascismo, quello che
più sopra abbiamo tentato di descrivere, non è sicuramente morto.
Gianni
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