«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 1 - 31 Gennaio 1994

 

Contro ogni sorta di moderatismo

 


C'è una prorompente rincorsa alla «moderazione». Par di vedere un fiume che scorre impetuoso, senza argini, fuori dall'alveo, verso impossibili sbocchi e che tutto travolge, dando luogo ad un'immensa e sordida palude. Dove vagano, senza riferimento alcuno, gli stessi saltimbanchi e trasformisti che hanno immiserito il nostro popolo e lo han reso simile ad una poltiglia gelatinosa incapace di esprimere gente malata di idee e passioni. Un popolo-canaglia la cui madre genera arlecchini e stenterelli; che ha perduto lo stampo dei geni del passato e partorisce mediocrità per l'aria vile e bestiale che respira. Il male di cui soffre nasce tutto dall'essersi messa contro natura, e nel tentativo di assimilare la «modernità» d'Oltreoceano, ha modellato e imbastardito lo spirito dei propri figli e le forme del loro vivere civile.
Tentare di spiegare l'attuale crisi con il fattore economico, o morale, o sociale, è troppo semplicistico. Ciascuno di essi è concomitante con gli altri due mali. Per logica coincidenza. Non è la crisi di una nazione, bensì di una civiltà obbligata a svilupparsi impropriamente e che tradendo l'intrinseca sua originalità storica, ha demandato ai mediocri il compito di rappresentarla.
Nostro dovere è disilludere chi ha speranza nel «nuovo» (sia esso mascherato sotto le spoglie di destra o di sinistra). Dobbiamo «fare del male» e combattere aspramente chi aspetta -chissà poi che cosa!- con pavidità e comodo ottimismo. Padronissimi tutti, se le nostre idee paiono astruse e condannabili, di considerarci bizzarri commentatori dell'Apocalisse, ma crediamo che l'unica maniera atta a risvegliare le coscienze sia quella di usare un franco linguaggio. Forse perché, nella terra dove questo foglio nasce, alita ancora veemente il respiro di gente «matta» e circola inalterato, nonostante lo scorrere dei secoli, sangue etrusco antichissimo e feroce.
Si dirà: che senso ha il predicare la rivolta tra individui timorosi delle grandi imprese, che godono dell'insopprimibile individualità e che tutt'al più manifestano lievi insofferenze quotidiane? Che in maggioranza assidono al desco sempre lurchi e con la trippa già rigonfia? Che non vogliono rischiare per non soffrire?
È vero che l'italiano, per natura, è anarchico, contrario ai sacrifici collettivamente intesi e sopportati; che sempre ricorre alla speranza di veder affacciarsi un tiranno che lo sappia prender per mano e mutarlo; che ogni tanto invoca pure la ribellione affinchè si avveri il cambiamento. Son desideri che nei secoli sono stati mitigati in nome della ragione e del sentimento.
Ma val la pena, oggi, che nonostante tutto c'è ancora la capacità di produrre logica e -perché no?- cinismo, farsi persuadere dal sentimento? È vero, è altrettanto vero che la storia ci ha insegnato come le misere prerogative rivoluzionarie o inquietudini passate, di questo popolo, debbono essere considerate come eccesso di cuore e fantasia. Infatti, furono per lo più segnali di egoismo freddo, arido, tenace che se han fatto sì che ogni strada si tramutasse in campo di battaglia, ogni campanile in fortezza, ogni famiglia contigua in nemico, hanno poi, in effetti, impedito di compiere quella tanto agognata rivoluzione che è per la nostra nazione una terribile necessità. Oggi più che mai necessaria.
Oggi. Oggi che ritorna in campo l'individualismo più sfrenato; oggi che c'è la tendenza ad etichettare ogni uomo con un numero; oggi che «progressisti» e «moderati» si riconoscono in una comune volontà di assoggettare il lavoro alle richieste dei «nuovi schiavisti»; oggi, popolo bue, ritrova l'orgoglio perduto. E fa' ribollire il tuo sangue prima che altri te lo faccia versare per suo uso e consumo.

 

a. c.

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