«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 1 - 31 Gennaio 1994

 

Il lavoro, questo sconosciuto

 


«Inavvertitamente il fenomeno del diseredato, del proletario, ha assunto tratti inediti: il mondo è gremito di nuove incarnazioni del dolore. Sono gli esiliati, i proscritti, i violentati, i milioni di esseri umani strappati alla loro patria e alla loro terra, o brutalmente respinti al fondo dell'abisso. Sono queste le catacombe di oggi, che non vengono aperte se non per concedere, di tanto in tanto, il voto ai diseredati: essi sono chiamati a decidere in che modo la burocrazia debba amministrare le loro miserie»

Così scrive Ernst Jünger nel "Trattato del Ribelle", Adelphi Editore, pag. 121.

 


Ai piedi di Cristo

C'è un rumore assordante. Che porta all'inconcludenza. Mentre l'Italia è «ai piedi di Cristo». Occhetto proclama la fondazione della "Unione dei Progressisti" e chiama a sé Cossutta e i brezneviani. Sarebbero i progressisti.
Mentre l'Italia è ancora «ai piedi di Cristo», Fini, che riteneva ("Secolo d'Italia", 1.4.1988) «nostro compito [è] quello di attualizzare, in una società post-industriale e alle soglie del Duemila, gli insegnamenti del Fascismo che con la Carta del Lavoro, l'Umanesimo del Lavoro di Gentile e i 18 Punti di Verona della RSI, ha lasciato un testamento spirituale dal contenuto profondamente sociale, dal quale non possiamo prescindere», stila l'atto di morte morale del Fascismo e fonda "Alleanza Nazionale" in compagnia di Publio Fiori, andreottiano, Francesco Cossiga, scherano del Viminale, Maria Fida Moro, suffragetta dalle mille bandiere, Gustavo Selva della Loggia Propaganda 2. Sarebbero i nazionali.
Mentre l'Italia continua ad essere «ai piedi di Cristo», Mariotto Segni, ovvero «dalla DC e ritorno», annuncia la costituzione del "Patto di Rinascita Nazionale" del Gran Maestro Gelli. Quello che previde come avvelenare il MSI degli anni ruggenti con la "Costituente di Destra" e poi spaccarlo creando "Democrazia Nazionale". Si è come smarriti in questa «selva oscura».
Nel frattempo c'è la guerra delle statistiche economiche. Un giorno si va su e la massaia si rincuora, il giorno dopo si ritorna «ai piedi di Cristo». Altalena dei tempi di transizione, dicono. Mentre in televisione ti fanno vedere i grandi ladri di regime che sfilano in tribunale, ridanciani mentre ammettono di aver rubato o pontificano come il Cinghialone o non perdono il vizio di negare l'evidenza dei fatti come il Coniglio Mannaro.
«Signore, perdonami tu» e pensi a quanto sarebbe più efficace impiccarli ai lampioni nelle strade o spararli nella schiena, faccia al muro. Lo meriterebbero per una sorta di legge del contrappasso della storia: hanno vissuto nell'«eroico ricordo» delle Corti d'Assise Speciali di cui Scalfaro Oscar Luigi, professionista della politica che tuona contro il professionismo politico, era Pubblico Ministero; hanno costruito la loro fortuna politica sull'eredità del sangue dei plotoni d'esecuzione di Cino Moscatelli e della Volante Rossa.
Sarebbe bello che si avverasse ancora una volta la giustezza di «chi di coltello ferisce, di coltello perisce». Ma è un sogno. E i sogni muoiono all'alba.

Lavoro e Civiltà


Solo gli operai muoiono in ogni momento. Alcuni cadono subito. Si suicidano per disperazione. Sembra rivivere le pagine di John Steinbeck. Bisogna rileggere "Uomini e topi". Altri muoiono lentamente, un po' alla volta, una volta al giorno. Hanno fatto credere loro che potevano andare in paradiso come «classe» e poi, tutto ad un tratto, scoprono che la vita è un inferno. Con il mutuo della casa che non si può più pagare e quindi la si perde e si vanificano i sacrifici di anni passati in catena. Con il fisco che ti mangia tutto quel po' che guadagni. Con i figli che fra poco, grazie a Rosa Russo Jervolino, non potranno andare al di là della scuola d'obbligo. Perché non ci sono soldi per pagare le rette della scuola privatizzata. E i soldi non li hai perché non hai più lavoro. Perché l'operaio non serve più quando l'azienda è in crisi. Per colpa del padrone.
L'operaio è un uomo? No, è una mercé. Come il contadino, come lo studente, come il ragazzo che ha conseguito la laurea con 110 e lode e deve vendere i libri «porta a porta» per risparmiarsi l'umiliazione di dover chiedere ancora a papa la mancia settimanale per comprare le sigarette. Questa è la realtà.
Tutti si affannano a stilare patti, a formare alleanze, a programmare unioni. C'è un solo argomento, ch'è negletto da tutti: come dare lavoro a chi vuoi lavorare per campare la famiglia, per formare una famiglia, per dirsi dignitosamente uomo.
I padroni, che sono gli Agnelli, i Pirelli, gli Abete non amano che li si chiami così. Preferiscono il termine «imprenditori». Ma padroni restano, nel momento in cui trattano gli operai da schiavi. Che vendono secondo l'uzzolo di giornata. All'insegna del «nuovo» hanno inventato una filosofia. Anzi no, addirittura una «cultura». La cultura della flessibilità. Cioè spiegano che il falegname, l'idraulico, l'elettricista non possono più pretendere di fare sempre il proprio lavoro. Ognuno deve essere interscambiabile: deve saper fare l'uno e l'altro e l'altro ancora. In una giornata due ore il primo, tre ore il secondo, quattro ore il terzo. Di questo passo diranno che il medico deve imparare a fare il contabile e, chissà, insegnare lettere. È il mercato a richiederlo.
Il Mercato, questo nuovo dio di un «Tempo senza Dio». Il tutto, a sentire il Santone della Confindustria, quell'Abete che non porta natale nei cuori ma disperazione di morte, dovrebbe avvenire in un clima di rispetto. Cioè gli operai dovrebbero rispettare chi li mette in croce. Una sorta di «Padre, perdona loro: non sanno quel che fanno.» Assurdo! Perché sanno benissimo quel che stanno facendo. Ci stanno portando indietro di settant'anni.
E lo sa anche il Sindacato, quest'accolita di nuovi negrieri che vende impietosamente sui banchi di macelleria del mercato capitalistico carne umana. Il Bruno Trentin della CGIL ha studiato ad Harward, nell'America di Nixon e Kissinger. E lì insegnano che il lavoro è una mercé. E la mercé si vende secondo la legge della domanda e dell'offerta che regola il mercato, il quale, ci hanno insegnato all'università italiana sui testi di Stanley Fischer e Rudiger Dornbusch della «Scuola di Chicago», tende all'equilibrio. Ma non lo raggiunge mai.
Leggiamo che cosa c'insegnavano all'università ("Economia", Hoepli Editore): «II capitale umano misura quanto vale la capacità di lavoro e di guadagno di un individuo: è il risultato di un processo di investimento e genera un flusso di reddito nel tempo». Capito? Ognuno di noi è come una macchina, un tornio, una fresa. Se no, perché Franco Modigliani, premio Nobel per l'economia, a Roma per il centenario di Bankitalia, avrebbe beneaugurato un governo Occhetto?
Poneteveli, questi quesiti, uomini che pensate solo alle unioni, alle alleanze, ai patti. Io, ce l'ho una risposta, che viene dai sacri testi d'un passato nobile seppure carico di tragedie ma anche di speranza. Per me «il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato. Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale».
È il Capo II della «Carta del Lavoro». Un incunabolo, a detta di molti, datato 21 aprile 1927, festa del Natale di Roma. Ma sfido chiunque a dimostrarmi ch'è roba vecchia, ormai inservibile.

 

Vito Errico
"Rataplan", in "Meridiano sud", Bari, 31.12.1993

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