«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 1 - 31 Gennaio 1994

 

«Quoque tu Gianfranco, Fini, mi!».
Fini non è grande, è Grandi



Siamo di quelli che credono alla sincerità di Gianfranco Fini. Riteniamo cioè, che egli sia in perfetta buona fede quando afferma di non essere fascista e, anzi, di voler depurare il MSI di ogni vestigia di fascismo onde metterlo in condizione di realizzare ciò che da sempre gli viene richiesto dai paladini dell'ordine sociale costituito: la cosiddetta «destra pulita», ossia monda di ogni compromettente elemento nostalgistico-totalitario e, dunque, idoneo a raggiungere -con la divisa «democratica» immacolata- il fronte dove si combatte la «guerra santa» contro la Sinistra. Probabilmente, il Nostro, mai ha fatto parte dei veri o presunti «fascisti», limitando il suo ruolo a quello di un reazionario tradizionale della più bell'acqua. Nulla di più, del resto, c'era da aspettarsi da chi s'era buttato in politica solo ed esclusivamente in odio a un gruppo di tangheri di "Potere Operaio", o roba del genere, che a Bologna gli avevano impedito -certamente con spirito liberticida, da condannare e punire senza la minima esitazione- la visione di un filmetto militarista USA interpretato da un attore maccarthysta quale John Wayne. Si trattava di "Berretti Verdi".
Che noi si sappia, nel MSI-DN non sono ancora venuti alla luce dissensi, che certo non possono non esserci, sul liquidazionismo finiano. Non si stenta a capire perché. L'Inquilino di Via della Scrofa si è rimangiato tutto, ha rinnegato tutto, però ha vinto anche se non stravinto -a Napoli e a Roma la poltrona di primo cittadino è stata solo un bel sogno- le elezioni. E in Italia, si sa, la mistica del Successo, la ferrea religione dell'Utile, l'epifania del Danaro, la teologia della Carriera, fanno premio sul dovere della coerenza, del rispetto di sé stessi, della fedeltà agli ideali che si dice di professare. Tuttavia più di un missino con le mani in pasta o, addirittura, addentro in certo modo e in qualche misura alle segrete cose, dice che fra i più intransigenti ancorché silenziosi oppositori del Segretario circola un'invettiva bruciante. Egli, cioè, sarebbe accusato non di post-fascismo o di a-fascismo, bensì di antifascismo. E scusate tanto se è poco nel partito dell'on. Tassi, quello che entra a Montecitorio con la camicia nera.
È fondata o no questa polemica con l'ex pupillo dell'on. Almirante? Noi possiamo tentare solo una risposta, per così dire, politologica. Ciò perché, come sa qualcuno dei Lettori che ci conosce, non apparteniamo al mondo della Fiamma o Destra che dir si voglia. Facciamo, anzi, riferimento allo schieramento di sinistra. Pertanto, certe sensibilità valutative ci mancano. Comunque, proveremo a dire la nostra.
Anzitutto, osserviamo, si può essere antifascisti -come, del resto, ogni altra cosa- in varia maniera e proporzione. Per esempio, si può professare un antifascismo urlato, sprezzante, perennemente vertenziale, duramente accusatorio. Ma, si capisce, immaginare l'on. Fini in questo ruolo sarebbe supremamente ridicolo. Di più: lo si potrebbe tranquillamente considerare -e pour cause- insanito e autolesionista. Al polo opposto si colloca un diverso tipo di antifascismo -magari in via provvisoria ammantato di fascismo- consistente nel disinnescare poco per volta, una alla volta, una volta per tutte, le varie mine «ideologiche» e «sociali» che recano il copyright mussoliniano. Mine del genere, insomma, di quelle cui fece riferimento -dicembre '44- Benito Mussolini con il discorso al "Lirico" di Milano trattando dell'avanzata degli eserciti angloamericani in Padania. Orbene, 1944 e Valle Padana a parte, esiste nella storia italiana un personaggio eccellente che incarna e riassume ed emblematizza questo atteggiarsi dell'antifascismo: Dino Grandi, conte di Mordano, autore della «quota» fascista del 25 luglio, oggettivamente unita ancorché soggettivamente separata dalle «quote» militare e regia.
Un Dino Grandi, guarda caso, bolognese come Gianfranco Fini; e, come lui, esponente dell'ala destra di estrema destra, «controrivoluzionaria», del fascismo. Non meno di lui, impegnato in una operazione di trasferimento di quanto utilizzabile dell'esistente -dopo idonea ripulitura di contenuti, di stile, di linguaggio- nel campo della Destra cosiddetta «pulita», delle forze conservatrici, reazionarie, moderate, per attivarlo contro il movimento operaio, le forze democratiche di avanguardia, le masse popolari.
Dunque, Fini non è -come pretendono contrabbandarlo i suoi non del tutto disinteressati fans- grande, bensì Grandi. Un Grandi formato tascabile, un piccolo... Grandi, se vogliamo, se paragonato ad un protagonista di dimensione storica ancorché discutibilissimo come l'ultimo presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Tanto più «tascabile» se i responsi delle urne di primavera non dovessero corroborare quelli prenatalizi. E se la cosiddetta Alleanza Nazionale dovesse rivelarsi non altro che la modestissima aggregazione al corpo missino di alcune frattaglie già democristiane, di serie C, quali Gustavo Selva, Publio Fiori, Potito Salatto (sic!) e ulteriori, ancor minori, aggiuntivi carneadi di cui non ci duoliamo di non ricordare il nome. Gente, sembra chiaro, venuta a scaldarsi alla Fiamma per non patire il gelo di un imminente futuro di trombature elettorali e di emarginazioni dall'arena della politica politicante. Insomma, degli ancora più minuscoli Giacchero edizione Anni Novanta, in compagnia dei quali non riusciamo a capire che diamine ci faccia un intellettuale prestigioso come Domenico Fisichella, da cui tutto ci divide sul piano delle scelte politiche, delle interpretazioni storiche, delle pulsioni ideologiche e ideali, ma meritevole di grande stima e rispetto. Il prof. Fisichella è indubbiamente degno di essere membro del Parlamento italiano -e, secondo noi, è uno scandalo che non ne faccia già parte-, ma, vivaddio, poteva ben coordinarsi con più plausibile sodalizio.
* * *
Nel contesto della svolta finiana appare un po' patetica e, francamente, anche un tantinello ridicola l'attuale vicenda del quotidiano ufficiale "Secolo d'Italia". Soprattutto nelle sue espressioni culturali e... fotografiche. Per esempio, fino alla vigilia della maxi-operazione trasformistica, un giorno sì e l'altro pure venivano ammannite alle smilze pattuglie di lettori fotografie di un Mussolini condito in tutte le salse: preferibilmente ritraenti il Duce in divisa di Primo Maresciallo dell'Impero, con relativi lustrini, pennacchi, medaglie e patacche varie. Di un Mussolini, quindi, che suscitava riserve, perplessità, perfino in un mussoliniano di stretta osservanza ma non privo di senso critico quale Beppe Niccolai. Ma da un paio di mesi in qua nel quotidiano che all'atto della fondazione si vantò di essere il continuatore de "Il Popolo d'Italia" non c'è quasi più traccia di tutto ciò, unitamente a quanto -nel bene e nel male- fa riferimento al regime littorio. E in primo luogo a quel che attiene alla Repubblica Sociale Italiana, alla sua programmatica socializzatrice, a quello che lo storico De Felice chiama «fascismo-movimento». (Tutti materiali, in verità, già fortemente censurati e abrogati). Insomma, si ha la sensazione che Benito Mussolini sia stato ucciso una seconda volta, colpito, ora non nella carne ma nella memoria storica, nello spirito, nel retaggio ideale, che, comunque lo si voglia giudicare, certamente di destra liberale, liberista, conservatore non è. Soprattutto se considerato nell'ottica dei seicento giorni della RSI; organicamente collegabili, peraltro, alla militanza socialista massimalista, alla costruzione della corrente rivoluzionaria dell'interventismo, alle suggestioni del diciannovismo sansepolcrista.
Il pensiero si rivolge commosso, a questo punto, a due redattori del quotidiano missino nostri cari amici personali: Gennaro Malgeri e Aldo di Lello, costretti ambedue dalla disciplina di partito a fare i salti mortali per mantenere -senza peraltro riuscirvi- un minimo di collegamento fra ciò che dicevano e facevano prima e ciò che debbono dire e fare oggi. Così Gennaro, corporativista costamagnano, si è sentito obbligato a indossare i panni del difensore senza macchia e senza paura del liberismo economico alla Antonio Martino; antiamericano puro e duro, si è ridotto a patrocinare i modelli di assetto economico cari a Reagan e Bush, oltre che alla signora Tatcher; fascista di severa obbedienza, ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco recandosi a Caltagirone, insieme ad un paio di democristiani di mezza tacca, per commemorare l'antifascistissimo Luigi Sturzo, in pari tempo tentando di convincere anzitutto sé stesso che esiste «un nostro Sturzo». E il sacrificio di identità del nostro povero amico apparirà ancor più bisognevole di congrua consolazione se ripensa che, notoriamente magnificatore delle italiche realtà dinastiche preunitarie, è oggi forzato dalla tristezza dei tempi a rendere omaggio all'ipernasuto ecclesiastico calatino resosi fiero e pugnace oppositore, fin dalla giovinezza, degli indirizzi clericali e restaurazionisti allora imperversanti nel campo della cultura cattolica militante.
A sua volta Aldo, che può vantare nel suo pedigree di intellettuale una tradizione di servizi culturali del "Secolo d'Italia" belli e interessanti -a parte, naturalmente, il taglio ideologico e storico, per noi impossibile da condividere-, è oggi in evidente difficoltà non sapendo bene che pesci pigliare. Basta dare uno sguardo alle terze pagine ora da lui approntate per avere, netta, contezza del periodo critico che si trova ad affrontare.
La verità è che il buon Fini è giovanilmente imprevidente. Queste avventure trasformistiche non vanno improvvisate, bensì accuratamente preparate perfino nei dettagli. Pietro Nenni, del quale pure si criticava una vera o presunta tendenza all'empirismo, ha portato il PSI al governo (1964) dopo ben nove anni di preparazione ideologica, organizzativa, strategica, tattica, caratterizzata anche da fasi tormentose e traumatiche separazioni, iniziata al congresso di Torino nel 1955. E il passaggio del PCI nel campo della sinistra «accettata», effettuato da Achille Occhetto con notevole abilità, è operazione che affonda le radici in epoche abbastanza remote. Risale, cioè, addirittura all'era Togliatti. Il bel Gianfranco, invece, ha preteso fare tutto in quattro e quattr'otto, giocando d'azzardo. Stavolta gli è andata bene, salvo conferma alle prossime «politiche». Ma, al di là dei risultati di cui può legittimamente farsi vanto, che non tutto sia filato e fili per il giusto verso è assolutamente perspicuo. La linea delle alleanze non funziona. Poi, a icasticamente evidenziare che settori attivi ed esposti del partito o non sono pronti per una
mutazione genetica tanto radicale ed impegnativa o non l'hanno digerita, ci si mette pure il Fronte della Gioventù che, per commemorare i tre poveri ragazzi di via Acca Larentia, non trova niente di meglio che affidare la celebrazione della messa a un prete piemontese il quale, non sappiamo se più colpevole o più cretino, pronuncia un allucinante discorso antisemita incitando alla crociata contro «l'ebraismo e il comunismo inventato dall'ebreo Carlo Marx». Tutto questo senza suscitare la benché minima reazione da parte delle 500 persone presenti e con l'on. Teodoro Buontempo che si limita a farfugliare a un giornalista de "Il Messaggero" qualche spiegazione che non spiega un bel niente. Sic stantibus rebus, l'on. Fini se la sogna la «destra di governo»! E dovrà aspettare un bel pezzo prima di arrivare -se mai ci arriverà- alla poltrona di vice presidente di un governo conservatore. Intanto il PRI ha diramato un comunicato con cui, anche prendendo spunto dall'episodio testé segnalato, informa di «mantenere una pregiudiziale politica forte e invalicabile di civiltà democratica nei confronti del MSI». E i repubblicani, checché ne dica l'amico Malgeri che ironizza sulla loro gracilità elettorale, contano molto in Italia e fuori d'Italia, indipendentemente dalla circostanza di essere al governo o all'opposizione, in molti o in pochi. Non si dimentichi che dagli Anni Sessanta in poi il centro sinistra ballò con la musica composta e diretta da Ugo La Malfa, capo di un partito pressoché inesistente. Poteva infatti contare su non più di cinque o sei deputati, alcuni dei quali neppure tesserati.
* * *
Sarebbe interessante conoscere l'opinione dell'on. Giorgio Almirante circa l'operato di colui al quale accordò una determinante protezione. Purtroppo ha da un lustro concluso la sua stagione terrena e noi non gratifichiamo di gran credito le sedute spiritiche. Di Almirante apprezzammo alcune cose molto importanti. Anzitutto, la sofferta, sincera autocritica relativa al suo passato di attivo fautore delle teorie razziste. Quindi, certe eleganze spirituali, il comportamento cavalleresco con gli avversari. Ricordiamo, in proposito, le parole affettuose, accorate, di augurio di guarigione al Berlinguer morente dopo un comizio a Padova, nell'84. E la successiva visita di commosso omaggio alla salma. Però mai ci capitò di essere convinti, sia pure dall'esterno della logica e della cultura missina, delle analisi politiche, delle impostazioni strategiche dello storico leader della Fiamma. In varie occasioni non mancammo di rilevare come i due pilastri della scuola di pensiero da lui incarnati non suggerissero alcun rapporto di compatibilità. L'Almirante, infatti, riteneva di poter propugnare al tempo stesso, e anzi in stretta connessione, la più rigida ortodossia fascista mussoliniana -spinta fino ai limiti del fondamentalismo e della pregiudiziale separazione rispetto alle altre culture in campo, viste quali veicoli di infezione, strumenti dissolutivi e cavalli di Troia del nemico- e la collocazione all'estrema destra nel Parlamento e nel Paese. Forse senza aver contezza che proprio la connotazione di destra -ad onta dei vari qualificativi con cui veniva corredata: «sociale», «popolare», «nazionale» etc.- spingeva il suo partito, con la terribile ineluttabilità di un grigio e mortificante destino, verso rive e derive dell'odiato «sistema». Insomma, la contraddizione almirantiana sempre ebbe ad appalesarsi, ai nostri occhi, non creativa bensì ineludibilmente antagonistica. Veniva da sorridere, per dirne una, nel leggere sul "Secolo d'Italia", il giornale più caotico che sia dato immaginare sotto il profilo ideologico, le costanti magnificazioni della RSI -ossia di uno stato che, soprattutto per impulso di Mussolini e di Bombacci, aveva in programma ed anche in fase di notevole attuazione la socializzazione integrale dell'economia- pubblicate accanto a titoli e prose che, per contenuti, ispirazioni e stile ne erano la puntuale negazione. E a questo punto è giusto annotare che Fini -con il suo lucido, razionale, opportunistico, trasformistico cinismo- ha ben chiarito la situazione, mettendo in soffitta Benito Mussolini così come, all'inizio del presente e morente secolo si diceva avessero fatto i socialisti con Carlo Marx, anche se non era vero.
Giorgio Almirante veramente voleva arrivare dove Gianfranco Fini è arrivato?
L'interrogativo racchiude un segreto che si è portato nella tomba. A noi non resta, quindi, che far luogo a qualche riflessione, anzitutto rilevando che se il successore altro non ha fatto che porre in essere un disegno a suo tempo e segretamente elaborato, è giocoforza riconoscere al vecchio leader eccezionali doti di genialità strategica e tattica, pur se velate da una ambiguità di fondo niente affatto conciliabile con la minuziosa costruzione di una personale immagine di sacerdote della mistica mussoliniana.
Ove, viceversa, il Fini avesse agito sua sponte, obbedendo a una irriducibile vocazione reazionaria, non si potrebbe fare a meno di riconoscergli piena autonomia di pensiero e di decisione, sia pure malamente usata; al tempo stesso attribuendogli una parentela spirituale col Guicciardini piuttosto che col Machiavelli. Insomma, costui è da considerare ancora un almirantiano o no? Se più non lo fosse -come, tutto considerato, saremmo indotti a ritenere- ben potremmo immaginare un Almirante che cesariamente esclami: «Quoque tu, Gianfranco, Fini mi!».
Resta da stabilire quale figura storica, quale atleta del pensiero, quale cursore del Concetto, è destinato -una volta distrutto perfino il ricordo di Giovanni Gentile- a ricoprire il ruolo di ideologo ufficiale del nuovo MSI di rito doppiamente bolognese antico ed accettato da tutta l'eletta schiera dei reazionari italiani ed esteri. Indisponibile il prof. Marcello Veneziani, troppo impegnato a riciclarsi in Alleanza Nazionale mediante "L'Italia settimanale" -pubblicazione ponte fra il «Processo all'Occidente» e la novella Santa Alleanza con autorevoli ultra dell'occidentalismo come Potito Salatto e Gustavo Selva- la scelta sembra dover cadere su Leopoldo Fregoli, di cui la emerita e benemerita Enciclopedia Pomba ci offre la seguente definizione: «Artista del teatro di varietà (Roma, 1867 - Viareggio, 1936), fu trasformista famoso, la cui arte consisteva nella possibilità di procedere a fulminee complete trasformazioni della sua personalità in macchiette e tipi diversissimi, o isolati o impegnati in un'azione a parecchi personaggi impersonati da lui solo». Vi par poco?
 

Enrico Landolfi

Indice