«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 1 - 31 Gennaio 1994

 

a proposito dell'ultimo film di Bertolucci...
Sulle orme del Buddha


«La religione del futuro sarà una religione cosmica; sarà una religione che trascenderà la nozione di un dio personale, che non comporterà né dogma, né teologia. Il buddhismo ha questi requisiti.
La religione compatibile con le esigenze scientifiche moderne è, probabilmente, il buddhismo»
Albert Einstein



Tra tanto ciarpame di stampo consumistico, insulsi films di cassetta ed ignobili lavori che degradano lo spettatore medio e costituiscono un vero e proprio insulto all'intelligenza di quello più evoluto, il recente "Piccolo Buddha" di Bertolucci costituisce una lodevole eccezione, che fa onore al grande cinema.
Va, innanzitutto, confutata un'accusa che da qualche parte è mossa all'autore, cioè quella di un eccessivo tono didattico, che appesantirebbe la visione del film, nell'intento di divulgare i contenuti del pensiero buddhista ai non iniziati. È un'osservazione che va contestata in quanto, in realtà, i riferimenti al buddhismo, ovviamente imprescindibili dal tema trattato, costituiscono solo dei cenni essenziali, oculatamente misurati e tuttavia esaurienti, capaci di stimolare lo spettatore ad affrontare per proprio conto ed in separata sede un discorso più complesso. In secondo luogo, va detto per inciso come non sia affatto semplice anche solo accennare ai princìpi essenziali del buddhismo, che non è una religione e nemmeno una filosofia, ma piuttosto un modo di vivere, al fine di sradicare il dolore che caratterizza la vita dell'uomo.
In esso, infatti, non esiste la figura di un dio più o meno antropomorfizzato da adorare od invocare; è assente anche una fede da seguire ciecamente, accompagnata da norme astratte, da riti esteriori, da un pensiero teologico molto spesso arzigogolato, contraddittorio ed illogico. Si tratta, invece, di un modo diverso di considerare le cose, per uscire finalmente dalla prigione costituita dall'illusione dei sensi e dalla ruota della rinascita. Non si promette, quindi, un premio od una salvezza da ottenere dopo la morte, in un'altra dimensione, casomai attraverso la redenzione vicaria, ottenuta da un salvatore o da una grazia, che operano esternamente rispetto a noi. Il buddhismo, invece, promette una liberazione ottenibile hic et nunc, cioè in questa vita e su questa terra, grazie ai nostri sforzi, al nostro impegno individuale, salvaguardando così l'idea di giustizia, altrimenti oltremodo compromessa. Si tratta, pertanto, di una via eminentemente pratica, che dona a tutti coloro che s'incamminano su tale sentiero la possibilità di verificare sperimentalmente i progressi compiuti e le mete raggiunte.
Ovviamente sussistono, come nelle religioni positive, ma non estrapolati da un contesto teorico, col rischio di vanificarli, dei princìpi etici a cui uniformarsi, per conseguire la suddetta liberazione.
Ognuno, quindi, è artefice del proprio destino e responsabile delle sue azioni. Non ci si illuda, però; la via non è né semplice, né rapida, ma possibile.
E questo è il messaggio di speranza lanciato da un grande Maestro circa 2600 anni orsono a tutto il mondo. Torniamo su un concetto basilare del buddhismo, quello dell'assenza di un dio personale, per sfatare una delle più ridicole accuse ad esso rivolte: quella di ateismo. Se riflettiamo un attimo su tale puerile obiezione, ci rendiamo conto della sua inconsistenza.
Innanzitutto, quello che si nega è il dio antropomorfizzato delle religioni exoteriche e non il Dio immanifesto, inconoscibile ed impersonale. Il dio che è morto è quello che deve morire, se non si vuol degradare la religione ad una farsa. Non è, quindi, negata a priori l'esistenza di un Dio; si afferma solo che, prima di porsi tale quesito, l'umanità deve risolvere tutte le sue insufficienze e ben altri problemi, che la rendono inquieta e tormentata: in primis, quello del dolore. Le indagini sull'infinità dell'universo, sulla sopravvivenza dell'anima, sui misteri metafisici impossibili a chiarirsi razionalmente verranno dopo e saranno risolte in modo naturale.
Abbiamo anche detto che in tale visione delle cose non servono dogmi e fede cieca. Eresia? A nostro avviso, no; infatti, si crede solo ciò che non si conosce. Invece, quando si sa che qualcosa è vero, non è necessario credervi.
Il bisogno di credere, in fondo, è un'implicita ammissione di ignoranza ed il Buddha insegna che l'ignoranza è causa di sofferenza. Il cerchio si chiude sempre più stretto; per cui, è impossibile ogni compromesso. Il nodo di gordio va troncato, prima che si strangoli. La verità, dunque, va trovata individualmente, senza turare in verba magistri, nemmeno su quelle del Buddha.
Come si vede, il metodo sperimentale, usato per le scienze umane, si dimostra valido anche nell'ambito della liberazione individuale. Il buddhismo, quindi, si limita a spiegare e ad indicare una via, su cui poi ciascuno deve provare la sua «nobilitade».
Interrompiamo qui la nostra digressione, per non tediare oltre i lettori, e torniamo al film di Bertolucci, che ha l'indiscusso merito non solo di chiarire i princìpi basilari del pensiero buddhista, come abbiamo già detto, con tocco sapiente e leggero, ma soprattutto di tradurli in chiave poetica e spettacolare; il che è ancor meno semplice.
Una grande opera, la migliore, a nostro avviso, nell'intera produzione del regista il quale, proprio perché proviene da un ambiente «laico», si dimostra in grado di intendere al meglio l'essenza del buddhismo, privo com'è di sovrastrutture ideologiche ed opinioni prefabbricate forzosamente imposte a chi, invece, ha ricevuto un'educazione confessionale di qualsiasi tipo. Concludiamo il nostro intervento sul film in questione, invitando i lettori non solo a visionare l'opera, ma, quel che è più importante, a meditarci su.
D'altra parte, ciò è inevitabile anche da parte dello spettatore più impreparato e sprovveduto. Sono, infatti, i contenuti stessi che s'impongono all'attenzione, stimolando una proficua, salutare e forse (chissà!) liberatoria riflessione sul nostro essere ed agire, in vista di un domani migliore per il singolo e l'intera specie umana.
Ci piace concludere, affermando che il piccolo Buddha del titolo non è solo o tanto il bimbo, possibile reincarnazione di un lama tibetano, quanto la metafora dello spirito, scintilla divina in ognuno di noi. Crediamo che questo sia il più vero messaggio di un grande regista, che modestamente parla di un «piccolo film», ma che individualmente è approdato a nuovi lidi, la cui esplorazione sarà utile a lui stesso ed all'uomo occidentale in genere, tali da costituire, più che un arrivo, un inizio dagli imprevedibili sviluppi. Ci auguriamo, pertanto, ma in realtà ci crediamo profondamente e lo sentiamo con incrollabile certezza, che quest'opera non potrà non segnare una svolta nella storia del cinema, rispondendo finalmente a quel bisogno di spiritualità troppo a lungo negato in un'epoca segnata dal materialismo, che non ha mancato, purtroppo, di mostrare i deleteri effetti di tale scelta insensata.


Alfredo Stirati

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