«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 2 - 15 Marzo 1994

 

A sinistra


 

Un amico fraterno, di quelli con i quali non riuscirei a litigare perché appartengono alla rarità umana degli intelligenti dall'onestà intellettuale, mi chiedeva se mi sentissi un Zangrandi o un Ingrao; insomma uno di quelli che Beppe Niccolai chiamava «cameragni»: camerati prima e compagni dopo. Me lo chiedeva perché una rete regionale televisiva aveva mandato in onda le mie sembianze, fisicamente presenti ad una convention, a latere di comunisti di Rifondazione, comunisti del PDS, socialisti «lombardiani», «cani sciolti» scoglionati dai partiti, ad appoggiare la candidatura d'un magistrato, il giudice Nicola Magrone, che negli Anni di Piombo era Pubblico Ministero nei tribunali dove processavano per violazione della XII Disposizione Transitoria quelli come me. Il perché della mia scelta è lungo (e secondario) da narrare. Per economia di spazio, data per certa la perfetta funzionalità del mio cervello e sgombrato il campo da presunte «voltagabbanerie», dirò soltanto ch'essa nasce dalla certezza che quel magistrato, odiato dagli apparati dei Partiti della Sinistra, odiato dalla DC, comunque camuffata, ha buttato alle ortiche la militanza in "Magistratura Democratica" di cui fu fondatore, e la sua faziosità ed è rimasto onesto nella palude in cui sguazzano i loricati alla Colajanni ed alla Binetti, sottosegretario di Grazia e Giustizia con pretese ministeriali.


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Sono un «cameragno»? Ho amato troppo il «selvaggio» Maccari per dimenticare uno dei suoi taglienti aforismi: «I comunisti li rispetto, ma non mi fanno pensare». Ho condiviso, dalla metà degli Anni Settanta, quel «selvaggio» refrain: «Appena ascolto Almirante, vado di corsa ad iscrivermi al PCI». Mi convinsi «selvaggiamente» che il «contraddirsi è l'unica forma di libertà», rafforzato dal Papini che voleva «la coerenza, l'unica virtù degli imbecilli». Potevo io diventare comunista, dopo essermi battuto in Italia e in Russia contro i bolscevichi, dopo aver conosciuto Valerij Anatol'evic Senderov, arrestato sulla Arbat, distrutto da sette anni di gulag e cinque di esilio, dopo aver visto con questi occhi quello che i leninisti avevano fatto a un popolo colto, generoso e spiritualmente ricco come quello russo? Rispondo con le parole di Aleksandr Solzenicyn: «Non darò mai fiducia a un comunista fintantoché non ammetterà in riunioni pubbliche il male che ha fatto, i milioni di morti che ha causato, e non si dichiarerà pronto al pentimento, e alla conversione». Ma di più: potevo diventare comunista nel momento in cui il comunismo è morto? Occhetto va a Londra a studiare tatcherismo, Napolitano va a Washington a genuflettersi davanti all'Imperatore, Bertinotti fa demagogia volendo tassare i BOT «al di sopra dei duecento milioni». Ma chi ha duecento milioni di BOT è forse un proletario? Per favore, bruciatemi sul rogo della vostra supposta ortodossia, da Emil Cioran ho imparato che «la libertà è il seme supremo solo per quelli che sono animati dalla volontà di essere eretici», ma rispettate la mia intelligenza. Spesso sono in giacca e cravatta ma non ho messo la cravatta di cuoio alla mia massa cerebrale. Alla fine di tutto, il giudice Magrone non è comunista.


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Lo strascico d'un certo tipo di Italia è questo groviglio di inconcludenti fazioni, di destra e di sinistra. L'anima dell'uomo aveva tre possibilità.
Stare al centro, con i nei pelosi di Martinazzoli e il pendolarismo piccolo-borghese e moderato di Segni. Ma Berto Ricci (di cui si parla ancora e spesso, caro Accame, seppure senza l'autorevolezza di Beppe Niccolai ma a cura nostra, quelli di questo «fogliaccio») lasciò scritto: «II centro è una media aritmetica, noi fummo una composizione di forze. Il centro, cioè la mediocrità accomodante, fu e resta per noi il nemico numero uno».
Oppure andare a destra. Potevo, senza perdere la mia rispettabilità? Mi sforzo di essere un uomo che crede in quel che fa perché dall'azione s'è espulsa e non s'è mai avuta la purulenza del calcolo. Considero la politica come lotta e Randolfo Pacciardi scriveva ad Andreotti, ringraziandolo degli auguri per il suo novantesimo genetliaco: «Un combattente non è tale se non ha forti credenze e intransigenza, cioè cattivo carattere». E sulla mia essenza di «pessimo soggetto» non c'è chi possa dubitare: i sentimenti sono forza. Amo, odio e disprezzo con pari intensità e capacità. Dalla Destra mi allontanai nauseato e stanco d'una collocazione innaturale in cui la storia mi aveva incatenato. Giuseppe Attilio Fanelli ("Perché seguimmo e disubbidimmo Mussolini", Le Sorgenti Editrice) mi fornisce la giustificazione: «Nella vita del pensiero, come in quella dei sensi, basta interrompere risolutamente una pratica che dopo qualche tempo ciò che aveva esaltato il nostro spirito e scosso la nostra carne, non ci procura più alcuna emozione».
Potevo andare con Bossi? Ho un senso della questione morale che non potrà mai concedermi la cittadinanza di Tangentopoli ma soprattutto batte sui miei timpani l'eco lontano delle parole dell'Augusteo, quell'8 novembre 1921: «Si deve volere che dentro i confini non vi siano più veneti, romagnoli, toscani, siciliani e sardi, ma italiani, solo italiani. E per questo si sarà contro ogni tentativo separatistico, e quando le autonomie che oggi si reclamano dovessero portarci al separatismo, noi dovremmo essere contro. Noi siamo per un decentramento amministrativo, non per la divisione dell'Italia».
Potevo andare col Palazzinaro di Arcore? Facciamo parlare ("La Gazzetta del Mezzogiorno, 22.2.1994") il Principe Lillio Ruspoli «Zapata», il vecchio amico dell'Uomo di Cardinale, in quel di Catanzaro: «Adesso ho l'impressione che gruppi di uomini legati alla massoneria, ai grandi potentati che hanno egemonizzato il potere in Italia, stiano tentando di sfruttare il nostro successo per fini loro».
Io ho una dignità e le mie idee non si mercificano sul mercato della carta stampata. Non devo preoccuparmi di vendere «settimanali d'Italia» e non sopporto che un «cappuccio» della P2 mi sieda a fianco, in qualità di alleato del Cavaliere dalla Tessera n° 1816. Mi piacerebbe sentire l'onorevole Matteoli, di Alleanza Nazionale, che nella "Relazione di Minoranza" della Commissione Parlamentare d'inchiesta sulla Loggia Massonica P2 scriveva: «Ne è venuto fuori uno spaccato, morale più che politico, per cui onestà vorrebbe che, nella relazione conclusiva dei lavori, durati più di due anni, si scrivesse, a chiare lettere: la prima Repubblica è finita, va seppellita. Occorre pensarne una seconda, in termini di libertà e dì pulizia, restituendo così l'Italia agli Italiani che dalla partitocrazia sono stati prima invasi, poi sistematicamente occupati. Nell'anima, prima che nelle cose». Ecco come si manifesta quel pensiero d'una nuova Italia «libera e pulita»: andando a braccetto col peggio del CAF, amico degli amici di maneggioni, corrotti, corruttori e mafiosi. Non potevo seguire questo Cavaliere dell'Apocalisse, che parla con il plurale maiestatico, che usa una retorica patriottarda «da ultimo rifugio di lazzaroni», che si spertica in demagogiche prolusioni, che imbonisce come un magliaro, che «scende in campo» non per ridare un destino all'Italia bensì per continuare ad assicurarsi le protezioni dell'alta finanza, ch'è pieno di debiti tanto da ipotecare il 54% delle azioni Standa e il 51% delle «ordinarie» Mondadori. Con Berlusconi al governo la massoneria cessa d'essere una società segreta.


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Non potevo stare con questa gente. Ma potevo «andare a casa» per passare «non più un inverno in trincea». Ma Caporetto e Cassibile non sono la mia storia. Né sarò mai un «aventiniano».
Non potevo non andare a sinistra. Per essere contro la destra, il grosso delle truppe reazionarie (che le salmerie non contano) che vuole annullare ogni forma di previdenza, usbergo dei poveri e dei deboli, che i nostri padri ci diedero pagando col sangue del loro cuore. Per difendere ancora quegli ultimi bastioni della socialità, contro la quale tirano a morte i rinnegati delle alleanze che parlano ancora di nazione senza accorgersi di essersi messi al servizio del mondialismo, assassino delle bandiere, che fa del liberismo la sua religione. Una sinistra che non s'ha da confondersi con quella di Occhetto e Cossutta, che si genuflettono davanti al Totem del Mercato. La mia vita è consacrata alla lotta per il lavoro, affinchè abbia pari dignità col capitale e non ne sia mercé.
Ci sono riferimenti storici miei ad indicarmi la strada. E Nicolino Bombacci è una pietra miliare. Contro le massonerie d'ogni obbedienza, per un socialismo nazionale. Per L'Italia contro il mondialismo. Per la Repubblica contro le monarchie. Per la Socializzazione contro il capitalismo.
 

Vito Errico

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