La sinistra e la
«questione fascista»
1° gennaio 1955. Il quotidiano
«paracomunista», come allora si diceva, "Paese Sera" ospita, dedicata ai temi
più vari, una intervista dell'on. Pietro Nenni, leader del Partito Socialista
Italiano. Vi si coglie una frase sorprendente, ancora oggi di grande interesse,
che dovrebbe incitare a serie riflessioni non solo e non tanto la cosiddetta
Alleanza Nazionale quanto il PSI, o ciò che di esso irrazionalmente disperso e
diruto resta. Vediamo: «Da noi la destra esprime soltanto istinti antisociali,
di conservazione e di reazione. Tipico il caso dei fascisti che, per inserirsi
nella politica reazionaria americana, non hanno esitato a pugnalare ancora una
volta il loro Capo ed a rinnegare l'unico elemento rispettabile della loro
tradizione, vale a dire l'opposizione al dominio delle cosiddette plutocrazie
dei paesi arrivati».
Sorprendente, nevvero? Ed anche, diremmo di straordinaria attualità. Non le
sembra, on. Fini? Pensi che lo spregio per i «pugnalatori» di Mussolini e il
riconoscimento della «rispettabilità» di una tradizione antiplutocratica vengono
non da un fascista dissidente, da un fascista «di sinistra», bensì da uno dei
massimi leaders dell'antifascismo puro e duro, da un grande esponente
dell'antifascismo militante e combattente.
Un giovane ex-marò della Decima Mas, ferito alla testa sul fronte di Nettuno
pugnando nei ranghi del battaglione "Barbarigo", Landò Dell'Amico, ritiene di
poter affermare -in un suo libro uscito nel febbraio del '55 per i tipi della
"Opere Nuove", editrice di ispirazione socialdemocratica, sotto il titolo "II
Mestiere di Comunista"- che in realtà Nenni «lamentava ancora in questi termini
l'assenza nel paese di un movimento fascista orientato a sinistra».
L'interpretazione ci sembra azzardata; però è anche vero che il Dell'Amico,
presidente di una struttura dei cosiddetti Partigiani della Pace (il "Comitato
Giovanile Patriottico contro le basi militari straniere in Italia"), era in
rapporti con il segretario del PSI da cui gerarchicamente dipendeva essendo
Nenni presidente nazionale e vicepresidente internazionale dell'organizzazione,
dalla quale si dimise nel '56 a seguito della invasione dell'Ungheria da parte
delle armate URSS e della solidarietà accordata dal PCI ai sovietici. Da notare
che Landò Dell'Amico aveva aderito ai Partigiani della Pace in rappresentanza di
un certo gruppo di fascisti di sinistra raccolti intorno alla rivista
quindicinale "Il Pensiero Nazionale", diretto dallo scrittore e giornalista
Stanis Ruinas, esponente culturale della RSI. Ma nel '53 ruppe con gli uni e con
gli altri in conseguenza delle repressioni antioperaie a Berlino Est.
Ora, indipendentemente dal discutibile identikit di quelle sinistre e dalla
plausibilità ideologica di quelle alleanze, quanto riferito e ci accingiamo a
riferire dimostrano ad abundantiam la insostenibilità della tesi di Fini, e di
coloro che lo hanno preceduto alla testa del MSI-DN, stando alla quale essi non
avrebbero avuto altra scelta che quella di Destra, causa l'avversione viscerale
di tutte indistintamente le sinistre nei confronti del notevolmente residuato
dall'esperienza del Littorio anche a livello sociale e di interpretazione
storica.
Ma seguiamo ancora il marò del "Barbarigo" nella scorribanda rievocativa. A
proposito delle citate parole nenniane così chiosa: «È da notare che l'on.
Nenni, alla vigilia delle elezioni del 1953, aveva tentato un'operazione di
questo genere aprendo le pagine de "l'Avanti!" all'ex direttore "erresseista"
del quotidiano "La Stampa" di Torino, Concetto Pettinato, il quale non venne poi
incluso nelle liste elettorali fiancheggiatrici (come avvenne, invece, per il
membro del governo di Salò Ferruccio Ferrini e per altri noti esponenti della
RSI), solo per l'energica reazione degli ambienti partigiani torinesi che
accusavano il Pettinato di aver denunziato ai tedeschi, nel 1944, i giornalisti
e i tipografi antifascisti de "La Stampa"». Dove il giovane Dell'Amico fa un po'
di demagogia per farsi accettare dagli antifascisti più intrattabili, certamente
in preda a pulsioni emotive anche per la relativa prossimità temporale agli anni
della guerra civile. In verità, chi montò sul caval d'Orlando fu Vittorio Foa,
che scrisse una pepatissima lettera di protesta al direttore del quotidiano
socialista, Tullio Vecchietti, così costretto a desistere dal tentativo di
dialogo.
Il Foa di oggi è altra cosa. Secondo noi, eccede in senso opposto quando, lui
uomo di sinistra -e sia pure di una certa sinistra che, deplorevolmente,
annuncia la morte di un socialismo neppure nato come realizzazione effettuale-,
plaude a Gianfranco Fini intuito come il possibile e desiderabile autore di una
destra democratica, costituzionale, sistemica. Meglio avrebbe fatto, negli Anni
Cinquanta, a favorire o, quanto meno, a non ostacolare l'iniziativa di Nenni e
Vecchietti. Che, sia detto per inciso, non celava affatto una operazione
filo-sovietica, perché proprio nel '53 il PSI veniva elaborando la strategia
della «alternativa socialista» annunciatrice della svolta autonomista. Allora
Vittorio Foa, esponente autorevolissimo della corrente più estrema, non si rese
conto che solo da uomini come Pettinato si sarebbe potuto attendere efficaci
ausili nella buona battaglia combattuta (e perduta) per evitare che la
liquidazione del frontismo e la disponibilità a governare sfociassero nel
ministerialismo, nel moderatismo, nell'imborghesimento e, in definitiva, in
Tangentopoli.
Ma, siamo giusti, neppure i comunisti potrebbero essere tacciati di indifferenza
verso il problema di un rapporto costruttivo e vitalizzante con le masse reduci
dalla complessa vicenda fascista e con i loro gruppi dirigenti. Vediamo come in
proposito, si esprimeva nell'agosto del '47 Palmiro Togliatti, promulgatore nel
precedente anno di una larga amnistia pacificatrice, concessa nella sua veste di
ministro di grazia e giustizia: «Non nascondiamo le nostre simpatie per quegli
ex fascisti, giovani o adulti, che sotto il passato regime appartenevano a
quella corrente in cui si sentiva l'ansia per la scoperta di nuovi orizzonti
sociali... Noi riconosciamo agli ex fascisti di sinistra il diritto di riunirsi
e di esprimersi liberamente conservando la propria autonomia».
C'era, in queste enunciazioni -apparse ne "La Repubblica d'Italia", quotidiano
serotino di Roma da cui "Paese Sera" sarebbe stato poi filiato-, un interesse
comunista a contattare i lavoratori, i combattenti, i giovani della sponda
mussoliniana o, di farne degli alleati nella lotta per il potere? Sicuramente,
perché essa si annunciava particolarmente dura per il terrificante potenziale
d'urto che caratterizzava lo schieramento avversario, nel quale figuravano
ninnoli come gli USA, la grande stampa d'informazione, tutto il variegato mondo
occidentale, le confederazioni padronali, il sindacalismo cattolico e
laico-socialdemocratico, la Chiesa, i partiti moderati di centro, la destra etc.
etc. E tuttavia l'interesse per il tema dell'unità della «generazione della
Gotica» -queste le parole per alludere alla famosa «linea» che aveva diviso
l'Italia in due e non solo territorialmente- era autentico ancorché ancora privo
di innesti elaborativi adeguati. Peraltro, quale leader propone «superamenti» e
sinergie senza avere in mente un qualche vantaggio per la causa di cui è
paladino?
Sulla questione fascista la Sinistra, allora, fu insufficiente, non colpevole.
Anzi, il fatto di averne intuito l'esistenza è da ascrivere a suo merito.
Casomai, è stata ed è responsabile di un successivo disinteresse, degenerato,
poi, fino al punto di sospettare di filo-fascismo e, addirittura, di fascismo
occulto chi ne segnalava l'esistenza, l'attualità, l'imprescindibilità. Ed ha
finito col trovarsi fra i piedi un MSI-DN dilatato oltre ogni dire e una massa
di gente graziosamente regalata alle forze reazionarie. Di più: notevoli realtà
attivistiche ed intellettuali interne al partito missino sono restate
prigioniere della politica conservatrice di Gianfranco Fini perché senza
prospettive di confronti, di Ioghi, aperture, diversi da quelli con i transfughi
della destra democristiana e con Forza Italia.
A dicembre la Sinistra nel suo insieme, e particolarmente il PDS, ha raccolto
nell'area ex o post fascista la tempesta che era logico attendersi dopo avere
seminato tanto vento. E ora tenta di esorcizzare il «mostro» -così una volta
essa chiamava qualunque cosa riteneva, a torto o a ragione, apparentata con il
fascismo- scagliandogli nelle fauci cioccolatini e petali di rosa. Pertanto,
assistiamo a quegli sdilinquimenti televisivi fra il segretario della Fiamma e
Massimo D'Alema che mandano in brodo di giuggiole gli amici de "L'Italia
settimanale" mentre a noi, viceversa, fanno saltare i nervi ritenendo, da
sinistra, la «questione fascista» talmente seria, importante, fondamentale, da
non meritare l'ingresso nelle pagine di "Grand'Hotel" o di "Sorrisi e Canzoni".
Ancor più intollerabile è, sempre per noi, la traduzione politica di questo
minuetto nel quale si distinguono insieme a Foa vari personaggi della sinistra
di radice azionista come, ad esempio, Valiani e Bobbio. Costoro, più o meno
esplicitamente, diffondono dichiarazioni di compiacimento per una vera o
presunta intenzione del Fini di dotare l'Italia di una destra democratica.
Evidentemente, per gli eminenti personaggi citati ed altri di pari indirizzo, il
compito della Sinistra consiste nello stimolare una buona qualità della Destra
onde metterla nella migliore condizione per farla vincere e non nel dilatare la
Sinistra oltre i suoi spazi tradizionali per elevarne le potenzialità d'urto e
di successo.
* * *
Chi si contenta gode. Ben diversa è la nostra posizione. Noi riteniamo che la
«questione fascista» possa avere un interesse solo a patto che le si dia -anche
mediante l'intervento positivo di culture espressive delle tradizioni migliori
del movimento operaio- uno sbocco fisiologico. Intendiamo con ciò dire che essa
deve risolversi nel senso dell'utilizzo pieno della sostanza del
fascismo-movimento -e relativi contenuti di rivoluzione sociale, di avanguardia
democratica, di estensione e irrobustimento del ruolo internazionale
dell'Italia- che è stato merito grande, non solo sotto il profilo scientifico,
di Renzo De Felice avere messo in luce. Pensiamo, conseguentemente, che la
Sinistra debba, cessata la bagarre elettoralistica, mettersi a fare le cose con
molta serietà. Ossia: smetterla con le occhiatine tenere al Gianfranco Fini in
versione più o meno «democratica», ormai assolutamente irrecuperabile, con tutto
il suo gruppo dirigente e i suoi giornali, a un discorso che abbia un qualche
senso per la Sinistra; riscoprire la «questione fascista» in termini aggiornati
rispetto a quelli -troppo «perdonistici» e riciclatorii- degli Anni
Quaranta-Cinquanta; farla riemergere icasticamente attraverso uno strumento
perfettamente rivoluzionario quale il dialogo diffuso e sinergico; acquisire la
consapevolezza che il suo baricentro non può che essere nelle realtà profonde di
un partito come quello missino, tutte da liberare da un gruppo dirigente ormai
irrimediabilmente compromesso non solo con le idee conservatrici, ma con gli
interessi di quella che una volta soleva chiamarsi «destra economica»; guarire
dall'errore di offrire ai vari o presunti «fascisti» soluzioni e messaggi
improntati al moderatismo, solo perché ritenuti, in quanto coinvolti, magari
loro malgrado, in vicende di destra, proclivi al minimalismo e alle
radicalizzazioni nazionali; rendersi conto che chi guarda con coinvolgimento
alla storia e ai modelli della Repubblica Sociale Italiana non è necessariamente
fascista e se lo è nello scegliersi quel referente ha inteso optare non per la
conservazione e il moderatismo bensì per la rivoluzione; uscire dal pregiudizio
che chi opera nell'ambiente che, per farci intendere, definiremo
«popolare-nazionale», è inevitabilmente un nemico della democrazia e un
liberticida.
* * *
È pronta la Sinistra per un compito del genere? Rispondere affermativamente
sarebbe temerario. Rispondere negativamente sarebbe da pessimisti, da
rinunciatari, da disfattisti, da deboli. I nostri dubbi hanno un sostrato
ideologico, anzitutto. In generale la Sinistra risulta troppo appesantita e
deformata da quel che c'è di frenante -e non tutto, sicuramente, lo è- nella
cultura dell'azionismo. Specie dopo la svolta occhettiana del PDS, che non ha
sostituito in modo soddisfacente il vecchio assetto ideologico marxista
leninista del fu PCI. Noi mai credemmo alla favola strumentale della egemonia
marxista leninista sulla cultura italiana. Chi voleva vedere e, soprattutto,
capire, non poteva non rendersi conto che, al di là delle apparenze, in cabina
di regia c'era l'azionismo, che esercitava un imperium indiretto, implicito,
soft, in primo luogo proprio sui partiti che, formalmente, si richiamavano al
marxismo leninismo e, dunque, su di esso.
Rispetto alla «questione fascista» -peraltro dagli azionisti reputata
inesistente- quale ne era, ne è, il canone ineludibile? È presto detto: per la
dottrina dell'azionismo, fino alla consumazione dei secoli il pianeta sempre si
dividerà in fascisti e antifascisti, perché questa sarebbe la contraddizione
fondamentale, per non dire unica, della storia. Il Lettore non si lasci
ingannare dall'involucro moralistico di codesta posizione. La sua funzione
consiste nel garantire la massima copertura -all'interno della Sinistra,
latamente intesa- ai grandi interessi borghesi e ai loro collegamenti
internazionali, rispetto alle contraddizioni reali della società capitalistica,
ossia quelle di classe.
Evidente è che al capitalismo italiano e internazionale giova un discorso
«progressista» e «nuovista» che agganci masse di ceto medio su tematiche
laiciste, permissiviste, istintualiste, istituzionaliste, portate politicamente
avanti anche con grande audacia progettuale, ma non fino al punto di mettere
minimamente in discussione gli assetti di potere fondati sul primato del
capitale monopolistico e della ideologia borghese, suo portavoce nello scontro
decisivo nel campo del pensiero. Giova, soprattutto, che aspetti basilari di
quest'ultima trovino sempre più udienza in un partito operaio, popolare, di
massa largamente condizionabile perché uscito esausto, sconfitto da una lunga,
complessa, contraddittoria ventura marxisticamente e leninisticamente ispirata
e, pertanto, desideroso di rilanciarsi, di rimontare, presentandosi come
«sinistra di governo» con concetti e linguaggi esaustivamente rinnovati in una
chiave di moderazione che, talvolta, finisce per assumere i tratti del
moderatismo.
* * *
In rapporto a tutto ciò appaiono funzionali la tesi, la parola d'ordine,
l'ossessione di un fascismo perennemente «nemico principale» e, anzi, «unico»;
rischio permanente per la civiltà; pericolo da sempre e per sempre e in ogni
luogo del mondo incombente, contro il quale è giusto, sacrosanto, doveroso,
inevitabile mobilitare tutto l'antifascismo possibile e immaginabile in una
dimensione tanto «unitaria» da rendere insignificanti, le differenze di classe
fra i suoi comparti e, dunque, da stabilizzare l'egemonia plutocratica. Orbene,
proprio tale «funzionalità» rende, oggi, la Sinistra impermeabile ad una
caratterizzazione dialogica idonea a farne l'interlocutore credibile della
cultura, delle pubblicazioni militanti, delle forze le cui radici affondano
nell' humus di quel «fascismo movimento» di sapore popolare-nazionale calamitato
nel dibattito contemporaneo dalle ricerche e dalle analisi di Renzo De Felice.
Esso tante somiglianze suggerisce se non con l'esperienza pratica, con gli
annali, con le res gestae, certo con le elaborazioni del movimento operaio,
purché si accetti di guardare alle idee, agli ideali, alle battaglie di quella
corrente con occhi non velati da pregiudizi e da pregiudiziali. E mondi dalle
passioni, dilaceranti e infeconde, accumulate in tre quarti di secolo. Anzi,
nutrendo la convinzione ferma che da un confronto serio, pacato, profondo,
possono scaturire stimoli per comuni traguardi sociali e per una generale
liberazione dai condizionamenti variamente di destra che si patiscono dentro i
rispettivi schieramenti.
Direttore permettendo, torneremo sul tema, anzi sui temi, del rapporto (prima) e
del non rapporto (poi) della Sinistra con quella che ci piace continuare a
chiamare la «questione fascista». Affrontarla con idee più lucide e maggiore
spinta propulsiva, sia a livello psicologico che politico, ci sembra compito di
grande attualità e debito ineludibile. Soprattutto in vista di quella Seconda
Repubblica che nascerà fra un mese. Fra i primi vagiti che emetterà speriamo,
caro Direttore, possa essercene qualcuno a noi gradito. Come sempre, ben
distinguibile, da quelli ad altri accetti, ma non tanto da lasciarci ancora in
solitudine. È gran tempo, ormai, di dialogo.
Enrico
Landolfi
Post Scriptum.
L'amico carissimo Mario Bernardi
Guardi si presenta candidato al senato della Repubblica in un collegio di Pisa,
o del Pisano, nelle liste della cosiddetta Alleanza Nazionale. Ha chiesto a chi
firma questo articolo di augurargli successo e di esplicitare questo suo
augurio. Per quanto al Lettore possa sembrare strano, anzi strampalato, che chi,
come noi, si sente, ed è, parte integrante dell'area socialista e, più in
generale, della Sinistra -e per una lista e un candidato di sinistra si accinge
a votare, così come, del resto, fa da quasi mezzo secolo- noi abbiamo aderito
alla richiesta di Mario. Però, attenzione. A noi interessa lui, non il suo
partito, il partito liberista conservatore, di destra, di Gianfranco Fini, di
cui siamo dichiaratamente avversari e contro cui ci battiamo senza mezzi
termini. Noi puntiamo su Mario proprio nello spirito di quanto testé scritto.
Egli, infatti, è un uomo di dialogo, di buona fede, apertissimo al confronto,
certo alla critica ma anche all'autocritica, per nulla chiuso al rapporto sia
umano che dialogico, con la Sinistra. La sua propensione democratica l'ha
dimostrata collaborando -da intellettuale di liberi spiriti e di buona volontà-
con pubblicazioni esterne alla sua area, comprese quelle socialiste. Senza, con
ciò, si capisce, negare e rinnegare sé stesso. Speriamo davvero che ce la
faccia.
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