«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 2 - 15 Marzo 1994

 

In lode a Gianfranco Fini


 

La recente svolta del MSI-DN ha dato luogo, qui su "Tabularasa", ad una serie d'interventi particolarmente polemici. Interventi, aggiungo, che in almeno un paio di casi mi hanno emotivamente coinvolto, e per i quali avrei voluto e dovuto impiegare altre, meno «burocratiche» aggettivazioni. Me ne esento, per due ordini di motivi fra loro contraddittori.
Il primo: su questo «foglio» libertario sono tollerate le più svariate opinioni, ma vige una rigida censura per i toni auto-celebrativi, per gli incensi apologetici... e per i cretini in genere, mi par di poter aggiungere.
Secondo: non ho affatto intenzioni incensatone inter nos, anzi mi riprometto -in coerenza col titolo di cui sopra- d'esprimere il mio apprezzamento a colui che di quella «svolta» è il principale artefice, l'on. Gianfranco Fini.
Sarà però opportuno, onde non incorrere nelle censure di 3° tipo -e così rientrare (forzosamente, spero) nella vasta categoria umana dei cretini- specificare e rasserenare i sospettosi. Che non mancano mai, nemmeno nelle migliori famiglie di lettori. Questa non è la voce del Padrone. Non è che, dopo aver passato mezza vita a sputare sul piatto dei moderati, degli entristi, dei liberaldemocratici, degli occidentalisti, dei conformisti (vero Marcello? vero Stenio? vero Gennaro? vero Alfredo, Pietrangelo, Fabrizio...?), anche qui si abbia messo su famiglia e testa a posto. Non siamo ancora in vista di una giusta sistemazione sul Mercato, né di un pre-pensionamento volontario. Il quieto vivere e la ragion di Stato, poi, non ci hanno mai vinto e convinto del tutto, qui a "Tabularasa".
Ed allora, la ragione vera del manifestato apprezzamento è di altra natura. Essa è dovuta al semplice fatto che d'ora in avanti non sarà consentito, a chicchessia, di qualificarsi in un certo modo -facendo salvi ideali, valori e buonafede- e restare ancora nell'organizzazione capeggiata da Fini. È questo un suo merito innegabile: aver segnato la fine di un grande equivoco; e la fine di troppi alibi, fascistici ed antifascistici. E tutto «alla luce del sole».
Del resto, cosa si può imputare a Fini & soci? Loro -a parte talune forzature esteriori, a parte certe sbavature nostalgiche, certi estremismi parolai ad uso e consumo del volgo- «loro», fascisti non sono mai stati. Dunque non hanno rinnegato nulla, perché nulla -di vero, di sostanziale- c'era per loro e in loro da rinnegare.
Se vogliamo, lo stesso titolare della ditta di traslochi (secondo la sagace definizione letta su queste pagine) è vent'anni che è coerente con sé stesso. Ragionieristicamente coerente. E televisivamente ben impostate. E calato in pieno nel personaggio. Lui, il Gianfranco, non ha agito che secondo copione, e si merita gloria ed applausi.
Sono altri -i Pini, i Giulii, gli Alteri- a far pena e nausea. E schifo.


* * *
Ma non sarà che, dalle nostre parti, si sia un po' troppo delicati di stomaco? Non saremo forse noi ad avere l'apparato digerente inadatto alle idee come ai cibi correnti; inadatto ai programmi precotti, alle ricette artefatte, alle sofisticazioni multiuso? O magari non saremo, per caso, degli snob viscerali che non sopportano il vino in tetrapack e i mulini falso-bianchi, i frequentatori di fast food e quanti pasteggiano a coca cola? Dei «viscerali», insomma che hanno in orrore post-comunisti e merendine implasticate, primizie in scatola e post-fascisti, post di ogni tipo e surgelati vari?!
Restando con il dubbio (e con la speranza di non rimanere troppo soli in salute), chiarisco a me stesso che gli «interventi particolarmente polemici» di cui si diceva all'inizio, non eran certo rivolti in direzione di personali «nostalgie». Quegli interventi -in linea retta con le annate di "Tabularasa" e de "l'Eco"- testimoniano piuttosto di un trovarsi e ritrovarsi in opposizione ad ogni reducismo museale, all'imbalsamazione delle idee, alla conservazione sotto vuoto spinto.
Alla luce di quanto detto si sarebbe allora portati a sostenere, a proposito dell'operazione «Alleanza Nazionale», che essa ha significato la (necessaria) uscita dal tunnel del neofascismo, ma dalla parte sbagliata. Per dirla aulicamente con Orazio: «Gli stolti mentre fuggono un errore cadono in quello contrario» ("Sermones"). Ovvero, gli stolti abbandonano quanto del fascismo come sistema di idee, era ed è attuale, vitale, vincente; per mantenere invece un inconfessato fascismo di facciata, una sorta di «fascismo in maschera», burlesco, rassicurante, servizievole.
Non ho peraltro dubbi che l'operazione A.N. sia stata democraticamente ineccepibile, politicamente opportuna, elettoralmente doverosa.
Poco conta che "L'Italia settimanale", forse in un sussulto di dignità, abbia scritto, riferendosi al congresso di Alleanza Nazionale, di un'assise «in grigio», «sottotono», «abulica» (P.S. - Non ci sarà un qualche novello Fede che, credendosi Napoleone, chiederà la cacciata dello schizofrenico direttore di testata?): l'operazione, per chi è alla ricerca solo di numeri, è stata commercialmente raccomandata e destramente assicurata.
Per chi ha dalla sua una immagine ben costruita, il giusto look da Tivvù, giuste coperture e favorevoli circostanze - stavolta, la «pesca delle occasioni» non potrà che risultare copiosa. D'altronde la concorrenza è quella che è, e il Nostro -in un contesto dominato dai priapismi di Bossi, dalle melensaggini di Occhetto, dai languori di Orlando, dalle depressioni di Martinazzoli- ci fa obiettivamente la sua bella figura.
Solo che simili «figure» non ci interessano: che, grazie a trasformismi e svendite di capitale, l'ex MSI possa presentarsi all'incasso, il 28 marzo, per ottenere un 10% oppure un 20% - ci può lasciare perplessi, ma non propriamente turbati.
A disturbare piuttosto è il gioco in sé, limitato ad uno scontro fra conservatori liberali e progressisti liberali. Che poi sulla ruota esca il nero berlusconiano ovvero il rosso debenedettino, sai cosa cambia!?! (E puntare sullo «zero» di Segni-Martinazzoli non pare davvero -scarse probabilità a parte- una gran soluzione!).
In parole povere, e al di là del risultato delle urne -che, ripeto, ci è indifferente, perché indifferenti sono le alternative possibili- quel che preoccupa è il clima da Nuova Frontiera; un clima da far west, dove sembra vincere il più forte e chi spara per primo.
Certo, ciò è anche, e soprattutto, il portato di una democrazia di massa ormai priva del suo braccio sinistro, caduto con il Muro. Certo, sono questi i frutti velenosi di una lotta degeneratasi con la fine delle ideologie e con l'avvento massiccio delle TV «all'americana». E bisogna ormai mettere in preventivo che la gara viene a svolgersi tra chi urla di più, tra chi è più abile a sparare spots e slogans. Che tutto si svolge fra ciarlatani di idee e saltimbanchi dei sentimenti, fra trucchi da baraccone e raffinati effetti speciali.
In questo tipo di rappresentazione, Fini, con la «spalla» della Mussolini, è tra quelli che recitano meglio. Addirittura con un certo stile. E la parte loro assegnata è ormai ben chiara. Chiara a tutti coloro che abbiano occhi per vedere e mente per giudicare...


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Sì, c'è una regia dietro le quinte, a muovere lo spettacolo. A far credere, illusionisticamente, alla brava gente di poter scegliere i protagonisti, di poter avere i «suoi» interpreti; mentre in realtà, sul palcoscenico e fuori, i giuochi sono già stati fatti.
Ha scritto Spengler: «Siamo nati in questo tempo e dobbiamo percorrerlo coraggiosamente sino alla fine».
Noi, immeritevolmente suoi posteri, riteniamo, quindi, fra tanto fragore, fra tante luci abbaglianti, tra tanta volgare rissosità, di essere politicamente destinati al pubblico «beneducato» e del tutto minoritario. Di dover essere fra quelli che non si rassegnano a fare da spettatori abulici o da comparse in ruoli obbligatori; perché sanno che, in realtà, i giuochi non sono quasi mai completamente fatti, e stabilmente fatti. È, in fondo, questione di carattere, prima ancora che d'idee. E queste si potranno anche cambiare, ma quello resta, quando lo si ha.
 

Alberto Ostidich

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