Il lavoro come soggetto e
non oggetto della produzione
Tutta la storia dell'umanità è
piena della lotta tra il principio d'organizzazione rappresentato dallo Stato e
il principio di disgregazione rappresentato dagli individui e dai gruppi.
Naturale è la tendenza degli individui ad unirsi per difendere gli interessi
comuni.
Ma poiché nella società gli individui hanno interessi contrastanti, ciò porta le
parti avverse a lottarsi senza altra visione che non sia quella del loro
interesse. Ciò porta inevitabilmente alla violenza.
Si ricordi il proletariato, la cui violenza fu l'estremo rifugio e tutela, nei
secoli, dei diseredati. Dall'altro lato, i padroni, i capitalisti, assai poco
sensibili agli interessi dei lavoratori e, più in generale, agli interessi della
collettività.
Di fronte a questo duplice assalto, quale era la posizione dello Stato? (Mi
riferisco alla situazione quale cominciò a delinearsi già ai primi del secolo
XIX) Esso rimase estraneo alle competizioni tra lavoratori e datori di lavoro.
Compito dello Stato rimaneva soltanto la tutela dell'ordine pubblico.
Lo Stato liberale ebbe, sì, reali meriti nell'istituire alcune utili provvidenze
assistenziali, ma il nodo della questione non era mai affrontato.
Vi furono però pensatori di parere diverso; qui ricordo il filosofo Hegel che
designò col nome di «atomiche» quelle società nelle quali non c'è più coesione
tra i gruppi sociali. Anche il Pontefice Leone XIII, nell'enciclica «Rerum
Novarum», affermò che la società non può essere dominata dal solo contrasto
degli egoismi individuali, è necessaria invece la solidarietà fra le classi
sociali. Vi furono poi altri studiosi del problema, economisti e sindacalisti,
che riconobbero il fallimento della formula «lasciar fare, lasciar passare».
Intanto lo Stato, particolarmente in Italia, era giunto all'estremo pericolo,
privo d'ogni lume d'interna energia, dimentico della sua missione. Sindacati
operai e trusts industriali dominavano la società con i loro contrasti, divenuti
despoti dei pubblici e dei privati interessi. A questa situazione di anarchia
pose termine il fascismo che, con la "Carta del Lavoro", mirò a far entrare il
contrasto d'interessi fra le categorie sociali nel quadro delle competizioni
regolate dalla legge, per risolvere il problema di far risorgere l'autorità
dello Stato e, in pari tempo, di dar possibilità d'azione e di vita legale agli
organismi che la naturale tendenza del mondo economico aveva creato e nei quali
si univano le forze del capitale e del lavoro. In altre parole: si sforzò, il
fascismo, di ingenerare nel popolo la persuasione del dovere universale di
subordinare gli interessi particolari d'ogni classe sociale e di ogni individuo
agli interessi generali della Nazione. Non posso qui dilungarmi a fornire altri
particolari sulla "Carta del Lavoro" (1927) perché ci vorrebbe un libro, e non
poche note come queste mie.
Dirò soltanto che la Carta finì per essere soltanto una enunciazione
programmatica, sia per l'opposizione degli industriali e sia perché i sindacati
fascisti chiedevano che la "Carta" contenesse affermazioni di principio sgradite
ai datori di lavoro. E Mussolini fu costretto a compromessi. Sta di fatto, però,
che il fascismo apportò alle classi lavoratrici notevoli benefici con una
legislazione d'avanguardia.
Dopo l'8 settembre 1943, la più significativa iniziativa di Mussolini fu la
"Legge per la Socializzazione delle Imprese". Legge poi ibernata dal crollo del
25 aprile 1945. Non si trattò di una utopia, né di una enunciazione velleitaria,
né di un espediente demagogico. Quella legge schiudeva ai lavoratori possibilità
rivoluzionarie, possibilità che la vittoriosa reazione antifascista si affrettò
a soffocare.
In breve: con quella legge, al lavoro veniva finalmente riconosciuto il diritto
di dir la sua sui criteri di gestione delle aziende, portando il contributo di
una competenza e di una esperienza specifiche, a fianco dei rappresentanti del
capitale che sempre hanno considerato la produzione come un problema di propria
esclusiva pertinenza; un'area, quindi, nella quale il lavoro non poteva avere
alcuna voce in capitolo. Soltanto se il lavoro riuscirà a portare nelle aziende
criteri di ordine sociale, sarà possibile fare della produzione un bene davvero
collettivo, un patrimonio da equamente ripartire fra tutte le componenti della
collettività nazionale. Solo così sarà possibile realizzare una più alta
giustizia sociale.
Purtroppo, a vincere fu un principio del tutto opposto: quello
dell'individualismo, in cui l'uomo è tutto e la comunità è nulla. Dottrina,
quindi, che si ribella ad ogni principio superiore di etica. Il che porta al
disgregamento e alla decomposizione di ogni società umana, che è quel che sta
avvenendo ai nostri giorni. Disgregata è la famiglia, l'idea di Patria è
scomparsa, la religiosità è negata o mortificata in forme esteriori. La nostra
società è materialistica, non si riconosce più la validità di un principio
superiore di etica.
Non si parli, dunque, di «Stato di diritto», e si riconosca che vige soltanto la
legge del più forte.
Ernesto Daquanno, fucilato a Dongo il 28 aprile 1945 (era stato direttore
generale della "Agenzia Stefani" e redattore sindacale de "Il lavoro fascista",
organo della Confederazione nazionale dei Lavoratori dell'Industria; fu lui a
scrivere numerosi articoli sulla Legge per la socializzazione delle imprese)
così scrisse: «Non tutto è materia nella vita dell'uomo, a dominare dev'essere
lo spirito, altrimenti l'uomo sarebbe un bruto, privo di ogni sentimento, di
ogni nobile aspirazione che è un anelito verso l'alto».
In sintesi: il nocciolo rivoluzionario della socializzazione stava nel fatto che
al lavoro veniva riconosciuto il diritto di dir la sua sui criteri di gestione
delle aziende. Il lavoro diventava «soggetto» dell'economia. Ernesto Daquanno
non potè immaginare nel 1944 la fantapolitica italiana odierna. «Ma avvertì
lucidamente i lavoratori -come scrisse suo figlio Ezio- che la posta in gioco
non era solamente economica, ma morale e politica, denunciando l'individualismo
che domina l'economia capitalistica. Sarebbe spettata ai lavoratori la
responsabilità di non far prevalere interessi egoistici, ma di elevarsi, da
strumenti subordinati dei processi di produzione, ad attori del dramma storico».
Oggi il problema dei rapporti tra le forze della produzione e lo Stato, forze
che non trovano una disciplina giuridica nella Costituzione, rimane insoluto. Al
pari delle organizzazioni sindacali, anche i partiti politici sono, per la
Costituzione nostra, semplici associazioni prive di personalità giuridica; si
possono così comprendere le cause politiche, fermamente volute e mantenute,
della crisi che coinvolge Stato e società e che consente, di riflesso, al grande
capitalismo speculativo di dettar legge o patteggiare con i centri del potere
politico.
Si può comprendere, istruiti dalle esperienze odierne, l'importanza del
tentativo che compirono nel fascismo i corporativisti e i sindacalisti per dar
vita ad uno Stato rappresentativo di tutte le forze sociali e giuridicamente
ordinato. Quel lontano provvedimento legislativo del 1944 dovrebbe costituire un
punto di riferimento per un rinnovamento degli istituti giuridici e della
mentalità collettiva.
Claudio
Simonetti
Postilla
È possibile la riforma d'Italia? Io, al riguardo, sono scettico. La maggior
parte degli italiani è ormai scarsamente animata da devozione per la cosa
pubblica. In questo nostro televisivo Paese, i detentori degli strumenti di
«diffusione culturale» spargono ad arte gli interessi pettegoli, la rozzezza,
diffondendo un laicismo che non può che produrre scellerata scemenza. Raramente
appare qualcosa di buono. In coloro che ci governano, lo spirito di partito è il
solo che domina.
C. S.
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