«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 3 - 30 Aprile 1994

 

Per il lavoro italiano

 


Ma siamo davvero al giro di boa? L'Italia ha davvero girato pagina? Che fine hanno fatto le oligarchie democristiane?
Quesiti semplici, spontanei, pertinenti che poniamo e ci poniamo giacché affermiamo categoricamente di conoscere la storia del nostro popolo. E riteniamo che il "Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa debba essere adottato come libro di testo nelle scuole d'ogni ordine e grado dello Stato italiano, ad insegnare alle giovani generazioni che l'italiano è solito correre, come sottolineava la graffiante penna dell'indimenticabile Flaiano, in soccorso del vincitore.
È una storia dejà vu: questo è il popolo che era borbonico e poi savoiardo, liberale e poi fascista e poi democristiano e poi comunista. L'abbraccio di Bossi, Berlusconi e Fini è l'ennesimo capitolo d'una lunga storia. Nessun problema, che noi altri stiamo all'opposizione. Con la stessa fermezza, con la medesima determinazione, con uguale e inusitata caparbietà. Fintanto che i moduli interpretativi della società agiranno all'insegna della differenziazione fra capitale e lavoro, noi saremo «minoranza». E non è una posizione di comodo giacché avremmo ottenuto molto se la voglia di sistemarci avesse presieduto alla nostra visione del mondo. Il fatto è, invece, che la storia delle origini a cui ci sentiamo culturalmente legati è una sola. Non siamo gente dedita alle conversioni perché siamo eretici per ortodossia. Noi siamo nati a sinistra, siamo vissuti da quelle parti e in quelle bande morremo. Checché ne dicano i sacerdoti di destra e i satrapi d'una certa sinistra. A costoro dedichiamo il passo di von Balthazar: «Mentre la tribù di sinistra mi giustizia come un conservatore impenitente, faccio conoscenza col mucchio di immondizie in cui mi trascina la destra».


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Il nostro pensiero non ha nulla di classista. È la storia di noi ad aver sgombrato il campo dalle tossine della lotta di classe. Noi poniamo all'apice del nostro pensiero politico un valore che si chiama Nazione, ch'è unità morale, politica ed economica. Una nazione che racchiude il meglio della storia di un popolo e spurga le tossicità che l'hanno avvelenata. Sta in questo il nostro revisionismo che non ha mai contemplato un benefico nazionalismo.
In virtù di questo credo non possiamo condividere l'ineluttabilità capitalistica delle leggi. L'economia deve rimanere subordinata alle esigenze unitarie della collettività nazionale. E il lavoro non può essere diritto. Questa concezione produce l'effetto di considerarlo in guisa di mercé da scambiare in nome dei postulati liberistici. Il lavoro è un dovere, com'ebbe ad individuarsi nella dichiarazione XIV della Costituzione fiumana: «II lavoro, anche il più umile, il più oscuro, se sia ben eseguito tende alla bellezza e orna il mondo». E solo in quanto dovere deve essere tutelato dallo Stato, che si fa garante dei diritti sociali che da esso scaturiscono.
La storia dei rapporti fra capitale e lavoro nel secondo dopoguerra è fin troppo nota. La mancata attuazione dell'art. 39 della Costituzione ha prodotto un disastro senza pari, le cui conseguenze saranno pagate pesantemente dai lavoratori. E vediamo perché.
Oggi assistiamo al blocco totale dei contratti di lavoro. Ciò è possibile perché il mancato riconoscimento giuridico dei sindacati (sia degli imprenditori che dei prestatori d'opera) ha reso irrilevanti di fronte alla legge i soggetti di negozio, producendo quella giungla retributiva nella quale hanno scorrazzato le belve della politica sindacale. Oggi siamo al redde rationem e i lavoratori, parte debole del comparto produttivo, languono.
Ma c'è di più: la regolamentazione del diritto di sciopero, che la Carta Costituzionale prevedeva all'art. 40, è stata attuata unilateralmente dal padronato che ha preso la palla al balzo d'una nausea collettiva, generata dall'abuso di quel diritto, per togliere de facto ai lavoratori ogni possibilità di protesta per un metodo di produzione che sta annullando diuturnamente i diritti sociali inalienabili.
Ora si vuoi mettere mano ad una nuova Costituzione. Noi dubitiamo fortemente (dati i soggetti che hanno preso il potere, le cui caratteristiche non si discostano dai predecessori quando non si verifica il gattopardismo dei tanti che succedono a loro stessi) che ci possa essere un cambiamento rivoluzionario, stante lo spirare d'un vento liberista che non gradisce imbrigliature, ma dovremo dedicare ogni nostra energia affinchè ciò avvenga. I sindacati (padronali e dei lavoratori) devono avere un riconoscimento giuridico e i contratti di lavoro assumere forza di legge. Solo così può ottenersi la solidarietà fra i fattori vari della produzione ed essere vinto l'egoismo delle parti, che uccide la visione patriottica della produzione.
Come non ammettiamo che si creino «unioni italiane», giacché la repubblica si estende dal Brennero al Lilibeo in un'unità consacrata dal sangue delle generazioni meridionali e settentrionali e tale intendiamo che resti, disposti a difenderla anche a mano armata, così che non permetteremo la creazione di «gabbie salariali» che sancirebbero la diversità fra lavoratori del Nord e del Sud. Il lavoro è uno e unico e italiano deve restare, con pari dignità, uguali diritti, medesimi doveri e nessuna differenza né di latitudini né di longitudini.
Una visione che dal campo nazionale trasmigra in quello internazionale. Oggi è quantomeno risibile sostenere che i capitalisti si preoccupino di una produzione ritenuta nazionale. La loro è una visione mondialista da cui discende un cosmopolitismo che fa del profitto l'unico vessillo da far garrire sulle tolde delle proprie ammiraglie. Assistiamo alla concretizzazione di un progetto assassino.


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Le lobbies affaristiche che avevano permeato il tessuto statale, distruggendolo come fa il glioma con un corpo sano, ad un certo momento sferrano il colpo mortale agli interessi della Nazione. Con le privatizzazioni un popolo, già prigioniero della volontà straniera per gli effetti che la storia produsse, finisce spappolato e venduto a tocchi sul mercato mondiale del liberismo di mercato.
Quarantacinque anni di politica agricola forsennata distruggono il settore primario della produzione. Importiamo carne, latte, frumento e derivati dai quattro angoli del globo. Restavano da distruggere i settori strategici industriali. Con le privatizzazioni il settore siderurgico è annientato, la produzione chimica annullata.
Nel Canale d'Otranto, al limite delle acque territoriali italiane, furono scoperti importanti giacimenti di petrolio: ci dissero che sarebbe stato soddisfatto un terzo del fabbisogno nazionale. Sulla vicenda è calata una spessa coltre di silenzio mentre sui pozzi di Trecate è stata imbastita una vergognosa campagna denigratoria che si concluderà con lo smantellamento della rete estrattiva.
Ne guadagneranno le colture di riso fino a quando qualche solone non sosterrà che le importazioni della graminacea dalla Cina, velocemente avviatasi al capitalismo liberista, risultino più convenienti da un punto di vista economico. Perché è questa la grande impostura infettaci: il prezzo del grano, prodotto nelle praterie americane, era il più economico di quello dei cereali seminati sulle balze del Bradano e del Basente.
Sta qui l'essenza della nostra opposizione. Che resterà dura, durissima, capace anche di scontri di piazza, fintanto che non vedremo garantiti gli interessi della Nazione.
 

Vito Errico

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