Per il lavoro italiano
Ma siamo davvero al giro di boa? L'Italia ha davvero girato pagina? Che fine
hanno fatto le oligarchie democristiane?
Quesiti semplici, spontanei, pertinenti che poniamo e ci poniamo giacché
affermiamo categoricamente di conoscere la storia del nostro popolo. E riteniamo
che il "Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa debba essere adottato come libro di
testo nelle scuole d'ogni ordine e grado dello Stato italiano, ad insegnare alle
giovani generazioni che l'italiano è solito correre, come sottolineava la
graffiante penna dell'indimenticabile Flaiano, in soccorso del vincitore.
È una storia dejà vu: questo è il popolo che era borbonico e poi savoiardo,
liberale e poi fascista e poi democristiano e poi comunista. L'abbraccio di
Bossi, Berlusconi e Fini è l'ennesimo capitolo d'una lunga storia. Nessun
problema, che noi altri stiamo all'opposizione. Con la stessa fermezza, con la
medesima determinazione, con uguale e inusitata caparbietà. Fintanto che i
moduli interpretativi della società agiranno all'insegna della differenziazione
fra capitale e lavoro, noi saremo «minoranza». E non è una posizione di comodo
giacché avremmo ottenuto molto se la voglia di sistemarci avesse presieduto alla
nostra visione del mondo. Il fatto è, invece, che la storia delle origini a cui
ci sentiamo culturalmente legati è una sola. Non siamo gente dedita alle
conversioni perché siamo eretici per ortodossia. Noi siamo nati a sinistra,
siamo vissuti da quelle parti e in quelle bande morremo. Checché ne dicano i
sacerdoti di destra e i satrapi d'una certa sinistra. A costoro dedichiamo il
passo di von Balthazar: «Mentre la tribù di sinistra mi giustizia come un
conservatore impenitente, faccio conoscenza col mucchio di immondizie in cui mi
trascina la destra».
* * *
Il nostro pensiero non ha nulla di classista. È la storia di noi ad aver
sgombrato il campo dalle tossine della lotta di classe. Noi poniamo all'apice
del nostro pensiero politico un valore che si chiama Nazione, ch'è unità morale,
politica ed economica. Una nazione che racchiude il meglio della storia di un
popolo e spurga le tossicità che l'hanno avvelenata. Sta in questo il nostro
revisionismo che non ha mai contemplato un benefico nazionalismo.
In virtù di questo credo non possiamo condividere l'ineluttabilità capitalistica
delle leggi. L'economia deve rimanere subordinata alle esigenze unitarie della
collettività nazionale. E il lavoro non può essere diritto. Questa concezione
produce l'effetto di considerarlo in guisa di mercé da scambiare in nome dei
postulati liberistici. Il lavoro è un dovere, com'ebbe ad individuarsi nella
dichiarazione XIV della Costituzione fiumana: «II lavoro, anche il più umile, il
più oscuro, se sia ben eseguito tende alla bellezza e orna il mondo». E solo in
quanto dovere deve essere tutelato dallo Stato, che si fa garante dei diritti
sociali che da esso scaturiscono.
La storia dei rapporti fra capitale e lavoro nel secondo dopoguerra è fin troppo
nota. La mancata attuazione dell'art. 39 della Costituzione ha prodotto un
disastro senza pari, le cui conseguenze saranno pagate pesantemente dai
lavoratori. E vediamo perché.
Oggi assistiamo al blocco totale dei contratti di lavoro. Ciò è possibile perché
il mancato riconoscimento giuridico dei sindacati (sia degli imprenditori che
dei prestatori d'opera) ha reso irrilevanti di fronte alla legge i soggetti di
negozio, producendo quella giungla retributiva nella quale hanno scorrazzato le
belve della politica sindacale. Oggi siamo al redde rationem e i lavoratori,
parte debole del comparto produttivo, languono.
Ma c'è di più: la regolamentazione del diritto di sciopero, che la Carta
Costituzionale prevedeva all'art. 40, è stata attuata unilateralmente dal
padronato che ha preso la palla al balzo d'una nausea collettiva, generata
dall'abuso di quel diritto, per togliere de facto ai lavoratori ogni possibilità
di protesta per un metodo di produzione che sta annullando diuturnamente i
diritti sociali inalienabili.
Ora si vuoi mettere mano ad una nuova Costituzione. Noi dubitiamo fortemente
(dati i soggetti che hanno preso il potere, le cui caratteristiche non si
discostano dai predecessori quando non si verifica il gattopardismo dei tanti
che succedono a loro stessi) che ci possa essere un cambiamento rivoluzionario,
stante lo spirare d'un vento liberista che non gradisce imbrigliature, ma
dovremo dedicare ogni nostra energia affinchè ciò avvenga. I sindacati
(padronali e dei lavoratori) devono avere un riconoscimento giuridico e i
contratti di lavoro assumere forza di legge. Solo così può ottenersi la
solidarietà fra i fattori vari della produzione ed essere vinto l'egoismo delle
parti, che uccide la visione patriottica della produzione.
Come non ammettiamo che si creino «unioni italiane», giacché la repubblica si
estende dal Brennero al Lilibeo in un'unità consacrata dal sangue delle
generazioni meridionali e settentrionali e tale intendiamo che resti, disposti a
difenderla anche a mano armata, così che non permetteremo la creazione di
«gabbie salariali» che sancirebbero la diversità fra lavoratori del Nord e del
Sud. Il lavoro è uno e unico e italiano deve restare, con pari dignità, uguali
diritti, medesimi doveri e nessuna differenza né di latitudini né di
longitudini.
Una visione che dal campo nazionale trasmigra in quello internazionale. Oggi è
quantomeno risibile sostenere che i capitalisti si preoccupino di una produzione
ritenuta nazionale. La loro è una visione mondialista da cui discende un
cosmopolitismo che fa del profitto l'unico vessillo da far garrire sulle tolde
delle proprie ammiraglie. Assistiamo alla concretizzazione di un progetto
assassino.
* * *
Le lobbies affaristiche che avevano permeato il tessuto statale, distruggendolo
come fa il glioma con un corpo sano, ad un certo momento sferrano il colpo
mortale agli interessi della Nazione. Con le privatizzazioni un popolo, già
prigioniero della volontà straniera per gli effetti che la storia produsse,
finisce spappolato e venduto a tocchi sul mercato mondiale del liberismo di
mercato.
Quarantacinque anni di politica agricola forsennata distruggono il settore
primario della produzione. Importiamo carne, latte, frumento e derivati dai
quattro angoli del globo. Restavano da distruggere i settori strategici
industriali. Con le privatizzazioni il settore siderurgico è annientato, la
produzione chimica annullata.
Nel Canale d'Otranto, al limite delle acque territoriali italiane, furono
scoperti importanti giacimenti di petrolio: ci dissero che sarebbe stato
soddisfatto un terzo del fabbisogno nazionale. Sulla vicenda è calata una spessa
coltre di silenzio mentre sui pozzi di Trecate è stata imbastita una vergognosa
campagna denigratoria che si concluderà con lo smantellamento della rete
estrattiva.
Ne guadagneranno le colture di riso fino a quando qualche solone non sosterrà
che le importazioni della graminacea dalla Cina, velocemente avviatasi al
capitalismo liberista, risultino più convenienti da un punto di vista economico.
Perché è questa la grande impostura infettaci: il prezzo del grano, prodotto
nelle praterie americane, era il più economico di quello dei cereali seminati
sulle balze del Bradano e del Basente.
Sta qui l'essenza della nostra opposizione. Che resterà dura, durissima, capace
anche di scontri di piazza, fintanto che non vedremo garantiti gli interessi
della Nazione.
Vito Errico
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