«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 3 - 30 Aprile 1994

 

una brillante ricerca di Moreno Marchi edita da "Settimo Sigillo"
Il «fascino indiscreto» della sinistra nella cultura
dei collaborazionisti francesi

 

Dobbiamo a Moreno Marchi, specialista di letteratura francese particolarmente attratto dallo studio degli intellettuali «collabos», questo "Con il sangue e con l'inchiostro - Scrittori collaborazionisti nella Francia occupata", un saggio che ha, fra tanti, il non comune merito di venire in evidenza quale opera squisitamente «laica», ossia sottratta alla benché minima tentazione di trattare una materia tanto delicata e incandescente in chiave o beatificante o demonizzante. Peraltro, che tale sia stata l'intenzione dell'Autore -già illustratosi come esperto di vaglia del fenomeno «collabo» con il lavoro bio-bibliografico "Drieu La Rochelle. Una bibliovita", anch'esso licenziato alle stampe per i tipi della Editrice Settimo Sigillo di Roma- risulta dal tono di una nota annessa al volume, della quale cogliamo le seguenti parole: «La vicenda degli intellettuali parigini schierati dalla parte dell'occupante rappresenta, all'interno di questo capitolo della storia francese, un dramma nel dramma, continuamente rimosso e continuamente riemergente. Scrittori, giornalisti, poeti, studiosi, scelsero, pur con mille motivazioni diverse, di stare dalla parte degli invasori, pagando alla fine del conflitto un conto salatissimo. La Francia non li ha mai perdonati».
II libro del Marchi è una autentica miniera di elementi di giudizio -ideologici, esistenziali, politici, storici, culturali- offerti al Lettore in modo né asettico né partigiano onde consentirgli di farsi un'idea di ciò che veramente accadde in Francia e, successivamente, a Sigmaringen, capitale di un brandello di stato collaborazionista trainato in territorio tedesco, in quel mondo di «teste d'uovo» temerariamente a sostegno della guerra dell'Asse. E non soltanto per ciò, ma per metterlo in condizione di esprimere una valutazione di uomini, fatti e cose non di taglio moralistico e, soprattutto, depurato dall'imperativo che chi ha vinto ha sempre e necessariamente ragione e chi ha perso sempre e necessariamente torto.
Per conto nostro, siamo particolarmente desiderosi di segnalare un aspetto delle vicende e delle propensioni teoriche di singoli ma notissimi esponenti della «Collaborazione», normalmente poco osservato e men che meno approfondito: quello che definiremmo, parafrasando e scherzosamente ritoccando il titolo di un celeberrimo film di Bunuel, il «fascino indiscreto del socialismo» e perfino, talvolta, del comunismo; una malìa proiettata su di essi dai due filoni storici della Sinistra. Da tenere presente che tale processo di più o meno inconscia immedesimazione in momenti fondativi della cultura del «nemico» si avvia fin dall'anteguerra. Prova ne sia, anzitutto, un brano di Pierre Andreu -intellettuale amico di Ugo Spirito, diffusore in Francia delle sue opere, intimo di Emanuel Mounier, propugnatore del «congiungimento» del socialismo alla nazione, autore di saggi su Sorel, sulla «grandezza e gli errori» dei preti operai, su Max Jacob, su Drieu La Rochelle (in collaborazione, quest'ultimo, con F. Grover)-, grandemente significativo in tale asseverazione: «Giovani maurrassiani, giovani marxisti, giovani cattolici, denunziavano la medesima impostura dei potenti. I giovani monarchici di "Réaction" alla ricerca dei fondamenti dell'ordine, non riuscivano certo a trovarli nel disordine stabilito della società liberale e capitalista che Mounier accusava con estremo vigore».
Moreno Marchi segnala una «contiguità» altrettanto stimolatrice di curiosità e approfondimenti, che indusse la cultura comunista dell'epoca a sperare di avere trovato in Rene Destruche, alias Luis Ferdinand Celine, quanto meno un compagno di strada. A proposito di una famosa opera céliniana, "Voyage au but de la nuit", egli scrive: «II "Voyage" aveva addirittura conquistato ed entusiasmato le sinistre, convinte di avere trovato in Celine un proprio cantore, al punto che Elsa Triolet, compagna di Louis Aragon, si precipitò a curarne una traduzione in russo; non esente da tagli. A conferma di questo subitaneo interessamento, anche in URSS il libro riscosse un discreto successo che valse all'autore l'invito per un soggiorno».
Solo Leone Trotzky -ma trattasi, com'è risaputo, del capo dell'opposizione in esilio dello stalinismo imperante- non elegge Celine a «cantore» del marxismo-leninismo. Tuttavia, il Marchi parla di «benevolo accoglimento» appena venato di «qualche sfumata riserva» da parte di Leo Davidovich. Il che non è moltissimo ma neppure poco. In verità, i comunisti staliniani non tardano a smaltire le illusioni circa una presunta disponibilità sinergica dello scrittore. La rottura ha luogo allorché vede la luce un suo pamphlet, "Mea culpa", dalle cui pagine l'immagine dell'URSS esce a pezzi.
Ciò che, però, suscita sorpresa e, al contempo, coinvolgimento del campo delle sinistre non comuniste e delle minoranze antistaliniste del comunismo è il taglio essenzialmente socialista rivoluzionario o trotzkista di materiali importanti della requisitoria antisovietica di un homme de piume rispetto al quale, peraltro, le destre, pur «scoprendolo», si guarderanno bene dal superare «posizioni di dubbio e di scetticismo», secondo ci avverte sempre Marchi.
Che così riassume le denunce dell'irrequieto intellettuale relative alle magagne della società sovietica: «Quasi come appendice a "Mea culpa", il libro ("Bagatelles pour un massacre" - N.d.R.) riprende le dure critiche al comunismo, di cui Celine denunzia l'anacronistica, celata, ma ineluttabilmente presente, persistente suddivisione della società in classi. Senza dubbio in URSS all'apparenza tale male, sui cui presupposti vertono i canoni fondamentali dell'ideologia marxista, sembra essere definitivamente debellato, in realtà invece niente è mutato. Vi sono infatti i dirigenti, quelli che comandano, muniti di tutti i conforti e gli agi, che, ben pasciuti, se ne stanno dietro le loro scrivanie ad impartire disposizioni e vi sono gli operai, i contadini, quelli ovvero che continuano a lavorare, non più per un padrone, ma per lo Stato, che vivono in condizioni disagiate, se non addirittura miserevoli, e che si dannano l'esistenza lungo interminabili giornate lavorative».
L'Autore insiste nell'alludere ad un comunismo di Rene Destruche quasi scorrente come fiume carsico sotto la roccia di un collaborazionismo che ritiene, di fatto, inesistente, ad onta della collocazione dello scrittore nella lista di «collabos» di spicco pubblicata dalla rivista americana "Life" il 24 agosto '42 e delle invettive scagliate contro di lui dai gollisti di Londra con le trasmissioni della BBC. Dice in proposito, occupandosi del pamphlet "Les Beaux Drapes": «Nel libro per una rara volta si trovano anche dei propositi céliniani costruttivi. Propositi che, con tanta utopia per quanta ingenuità, sembrerebbero quasi sorpassare il comunismo addirittura a sinistra (comunismo alla Eugéne Labiche, piccolo borghese, con cento franchi al giorno per tutti e l'ereditario villino in periferia). "Les Beaux Draps" abbozza infatti un programma concernente l'economia, il salario unico, l'industria, l'agricoltura, una profonda riforma dell'insegnamento, quindi l'educazione giovanile, comprendente una sorta di sprone al recupero della gaiezza ed una specifica educazione riguardo la razza, vista come salvaguardia etica».
Quanto, poi, al collaborazionismo, descritto come puramente putativo, afferma: «... Celine non svolse comunque alcuna pubblica attività collaborazionista; nessuna opera propagandistica tramite stampa sia con altri mezzi. Il suo ruolo di intellettuale differisce abbastanza da quello di altri. [...] Egli in definitiva è sempre rimasto un isolato, nel corso della sua intera esistenza, dando sfogo alla sua voce soltanto tramite i libri. Mai quindi usò far gruppo con altri, compresi gli stessi altri collaborazionisti». Personalmente, possiamo in fede dichiarare di avere letto -purtroppo non ricordiamo in quale opera di quale autore- che Celine ebbe la generosità di rifiutarsi di scrivere alcunché o di profferir motto contro gli ebrei durante l'occupazione e il regime di Vichy, argomentando che se li aveva combattuti quando erano forti e al sicuro si rifiutava di cooperare alla loro rovina ora che una ria sorte li aveva resi debolissimi ed esposti alle persecuzioni e alla morte. Il che getta una luce simpatica sulla pur discutibile e discussa figura di Rene Destruche; lo riconosciamo volentieri, anche se aborriamo qualsiasi razzismo sempre, dovunque, comunque si manifesti.
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Ma chi, fra gli intellettuali della «Collaborazione», maggiormente avverte il «fascino indiscreto» del socialismo è Pierre Drieu La Rochelle, che Moreno Marchi definisce l'unico, vero ideologo scaturito dal microcosmo della intellettualità collaborazionista.
Effettivamente, certi passaggi del Drieu-pensiero assomigliano in modo impressionante a elaborazioni tradizionali della cultura socialista più avanzata o addirittura rivoluzionaria. Ecco, per esempio, uno spunto segnalato dall'Autore: «... lo scrittore ha constatato la piatta riduttività egualitaria insita nella proposta del modello comunista da una parte e l'analoga massificazione consumistica proposta dal modello capitalista dall'altra. In alternativa a questi due poli, geograficamente riconducibili ai due super-imperialismi dominanti: il vuoto, l'inefficacia, l'impotenza di un continente impoverito e dilaniato da astorici, folli nazionalismi». L'analisi drieuista conclude, per questo aspetto, nella esigenza di una «Europa federata e possente» nella quale sia collocato «l'uomo, da restituire così alla sua dignità esistenziale».
Ecco un nucleo di idee che, prese in sé, qualsiasi militante di una forza socialista libertaria -e perché no?, anche un comunista revisionista «formato Dubcek», poniamo- potrebbe tranquillamente accettare. Da notare che, all'epoca, la loro formulazione venne offerta da Drieu in connessione con un marcatissimo disprezzo per l'esperienza di Vichy, espressivo di uno stato d'animo che il Marchi ricostruisce con le seguenti parole: «Vichy non è che una finzione, tenuta in piedi dai tedeschi, ma priva di autentico fondamento, priva di convinzione, di reciproca passione. Una finzione ben nota alla coscienza di tutti e che proprio nella sua disincantata constatazione trova la sua perfida soddisfazione, il suo sgangherato alibi».
Neppure il Reich sfugge a un giudizio di forte spessore critico: «Anche la Germania ha per Drieu le sue colpe. Seppure dedita all'azione totale, essa tradì il grande sogno: satura e tronfia di nazionalismo volle essere potenza imperialista, meramente conquistatrice, senza peritarsi di mutarsi in Europa, di assolvere quel vasto, essenziale compito da tanti atteso. [...] Ancora una volta comunque Drieu La Rochelle fu tra i primissimi a presagire, con intellettuale chiarezza e largo anticipo sugli altri, la tragica fine del millenario sogno tedesco, vittima in primo luogo della sua ambiziosa insufficienza». Diciamo la verità: il più intransigente uomo di sinistra non avrebbe meglio valutato il comportamento militare, politico, diplomatico dello Stato nazista.
Sorprendente lo sbocco che il celebre letterato francese da ai suoi disinganni. Invece di prendere le distanze dalla Germania, come pur aveva fatto Robert Brasillach nel '43, egli, ci dice ancora il saggista, «fedele sempre al suo alto senso dell'onore e della coerenza, perseverò nel suo ormai disperato schierarsi, scegliendo così con tanta rassegnazione per quanta risolutezza, una strada unidirezionalmente volta verso una inevitabile, terrificante apocalisse, munito soltanto di un agghiacciante nichilismo».
Dunque, la risposta che Drieu da alla sua crisi si appalesa di indole squisitamente letteraria. Più politica, viceversa, la decisione di «sostituire» la Germania di Hitler con l'URSS di Stalin nel suo spirito tormentato di rivoluzionario alla ricerca di sé stesso non meno che della rivoluzione, da lui vagheggiata come socialista. Ancora Marchi: «... il suo sguardo di sconfitto si volse, illuminato da quella serenità interiore possibile soltanto a chi sa di star lasciando per sempre il campo, verso l'URSS stalinista». Conseguentemente, la nuova scelta -al momento di dare, da suicida, soluzione di continuità alla sua stagione terrena- viene iniettata nel testamento politico.
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Il punto debole della posizione con la quale Drieu si presenta sulla scena in veste di dottrinario e di militante? È presto detto: l'aver fatto della Germania in camicia bruna il pilone portante del suo sistema di pensiero e il baricentro della strategia giornalistica e politica diretta ad attuarlo. E questo perché vede illusoriamente nella Croce Uncinata il simbolo di una rivoluzione destinata a farsi da nazionale in europea al fine di diffondere nel Vecchio Continente il messaggio del socialismo.
Evidentemente la denominazione del partito hitleriano lo trae in inganno. Come mai non ha riflettuto sulla «notte dei lunghi coltelli», quando le SS sterminarono Rohm e le sue SA, componente militare e rivoluzionaria dell'ala sinistra del regime -di cui Goebbels aveva fatto in un primo tempo parte-, invisa allo stato maggiore reazionario con cui il Führer aveva stretto un patto di ferro? Certo, se nel '43-'44 avesse avuto contezza della feroce opposizione tedesca alla socializzazione mussoliniana in operante solidarietà con il capitalismo più conservatore si sarebbe giovato di una ulteriore prova dell'assoluto deficit di spirito riformatore dei nazisti.
Per sfogarsi, Drieu affida amare riflessioni, in un articolo dal significativo titolo "Pauvre Europe", al giornale "Révolution Nationale", diretto da Lucien Combelle. Lo scritto viene mutilato di quasi due terzi dalla censura dell'occupante, decisa a far sparire quelle sue parti che suonano atto di accusa alle orecchie dei boches. Moreno Marchi ne pubblica alcuni periodi, icasticamente espressivi della depressione di Drieu: «... la Germania incapace di superare il suo nazionalismo, il suo imperialismo, incapace di sfornare la sua rivoluzione particolare in rivoluzione universale, incapace di eliminare le arretratezze che ancora ha in sé, per ardere, pura forza socialista, sull'altare della patria europea, la Germania impedisce alla comunità di questo continente di federarsi attorno a lei».
Per ciò che quindi concerne i metodi nazisti di gestione dei paesi conquistati, le parole adoperate da Drieu sono queste: «Non si può chiedere a dei popoli, che essendo occupati si considerino in procinto di essere assoggettati, di procurare operai e soldati per una guerra esterna, se non si prospetta loro al contempo un compito interno. Compito che essendo insito simultaneamente in ogni popolo europeo, si manifesta così comune all'intero continente».
A quale «compito interno» fa riferimento il letterato-pensatore? È il socialismo che ognora domina le sue pagine e i suoi atti. Lo si evince ancora da "Pauvre Europe": «Gli americani contano fedeli alleati nei democratici; i russi nei comunisti; i tedeschi non hanno invece riconosciuto i loro naturali alleati nei socialisti europei. E questi, poco numerosi all'inizio, non potevano sviluppare le loro forze se non in un clima di generale rivolgimento, di ardenti convergenze».
Ed eccoci alle questioni simboliche: «Potremmo avere altra bandiera che quella rossa sulla superficie di un continente ridotto infine, per amore o per forza, al socialismo? Chi potrà mai risollevare l'Europa dalle sue macerie, se non il socialismo? Non di certo le banche e i trusts. È ora che i tedeschi non proclamino soltanto, ma realizzino il socialismo europeo sulle rovine dell'Europa [...] È in piena guerra che si compiono le decisive trasformazioni sociali [...] È in piena guerra, quando i russi avanzano, che necessita compiere le azioni risolutivamente europee e socialiste».
Pierre Drieu La Rochelle addirittura fantastica, per quanto attiene al fronte dell'Est, di una guerra di socialisti contro comunisti: «Essa (l'Europa) non può capire la guerra esterna se non nel travaglio di una guerra interna, non può capire la guerra contro il comunismo se non nella realizzazione della guerra socialista [...] I tedeschi non interessano nessuno perché tali, non più degli inglesi, americani o russi; quel che conta è quanto questi apportino: il comunismo gli uni, la democrazia capitalista gli altri. I tedeschi dovevano apportare il socialismo. Ogni occupazione da parte della Germania doveva mutarsi in rivoluzione nazionale; ogni rivoluzione nazionale doveva costituire un palpito della rivoluzione europea».
Davvero incredibile che un intellettuale della stessa nazionalità -più o meno- dell'«occupante» permanente, per vocazione, Napoleone Bonaparte, si sia potuto illudere sulle taumaturgiche virtù rivoluzionarie di una occupazione straniera.
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Ma non è questa la sola contraddizione che aduggia il discorso del La Rochelle. Per esempio, mentre non lesina in querele per le attitudini dominatrici del Terzo Reich, non rista dall'insistere sulla necessità che la Germania dia luogo ad una sua compiuta egemonia sulla «nuova» Europa, bisognosa, a suo dire, di una nazione dotata di possenti ancorché idealistiche capacità federatrici e di guida. Né gli è chiaro -per certi limiti romantici delle sue impostazioni politiche- che la guerra «socialista» contro l'URSS, con relativa seppure non desiderata proiezione interna in versione «collabo» contro la Resistenza, è una assoluta assurdità. L'Unione Sovietica, infatti, non va distrutta per offrirla su di un piatto d'argento -come faranno in altra, più recente situazione storica con diseguali responsabilità, Gorbaciov ed Eltsin con il capitalismo americano- alla plutocrazia teutonica mascherata con un presunto socialismo nazionale. Essa, invece, va profondamente, radicalmente, rivoluzionariamente trasformata convertendo la collettivizzazione burocratica-livellatrice-autoritaria in socializzazione autogestionaria-democratica-libertaria. Ossia sostituendo i burocrati —-la «nuova classe» di cui parla Milovan Gilas- con i Consigli Operai.
Drieu non si rende conto -salvo, poi, concedersi allo stalinismo in articulo mortis, nel tentativo di guarire il colera con la peste- che mettere in conflitto, per di più a mano armata, un modo di essere della sinistra contro un altro, è da sempre connotazione saliente della strategia di qualunque tipo di reazione. Dunque, anche di quella tedesca truccata con i colori prestigiosi e stupendi del socialismo. Insofferente di ogni egualitarismo
-che confonde, è nostra impressione, con l'eguaglianza, della quale esso esprime un momento degenerativo- si dichiara antidemocratico e -quasi stabilendo un rapporto di conseguenzialità- qualifica come fascista il suo socialismo.
Non è il solo. Tuttavia, immaginiamo, il fatto che le sue prose spesso e, forse, volentieri siano state assunte quali bersagli privilegiati dalla censura degli occupanti lo avrà pure indotto ad apprezzare i vantaggi -specie per un uomo di cultura non conformista- di quella libertà di stampa garantibile solo da un assetto democratico.
Quanto al fascismo, se il riferimento è al modello italiano, occorre precisare che il Littorio non nacque contro di essa e morì con un Mussolini che, ammaestrato dall'esperienza, aveva ideato una repubblica nel cui programma c'era, insieme a tutte le altre libertà, quella di stampa. E se non potè andare oltre una incoraggiante molto ampia tolleranza ciò fu dovuto alla situazione militare della RSI, all'opprimente presenza nazista, al naufragio nella sconfitta. Quindi, l'equazione fascismo-antidemocrazia, se proposta in una interpretazione rigidamente, diremmo inanimatamente meccanicistica, è da considerare fallace.
Ulteriore spunto socialista nella travagliata vicenda umana e politica di Pierre Drieu La Rochelle. Invitato dal Combelle a collaborare a "Révolution Nationale", dapprima si schermisce poi decide di accettare. Così pubblica su quel giornale ben 35 articoli, per due dei quali il direttore deve attingere a tutte le risorse della diplomazia per vincere le riluttanze dei censori di Hitler. Guarda caso, trattasi di due pezzi aventi per tema il socialismo. Loro titoli: "Prospectives Socialistes" e "Le socialisme à l'épreve".
A proposito di Lucien Combelle, traiamo dal numero del 29 dicembre '44 di "Combat", che pubblica il testo dell'interrogatorio al suo processo nel resoconto di Michel Hiunfker, queste parole: «Adesso Lucien Combelle parla. Ha una voce molto gradevole e la sua è una vera e propria conferenza sul socialismo. Spiega le sue idee riguardo a una federazione europea dei lavoratori. Nel 1943 credeva che soltanto l'esercito tedesco fosse in grado di realizzarla, è per questo che scrisse "Per noi la giusta causa non allogava nel campo francese". La Francia e Vichy, aggiunge, erano ancora nelle mani dei trusts e dei capitalisti, nei miei articoli l'ho quindi detto». Se non è questa un'altra prova provata dell'eterno, inossidabile, insostituibile «fascino indiscreto» della Sinistra...!
Pochi cenni su "Révolution Nationale". Ideato nell'ottobre '41 da Jean Fontenoy e da Eugene Deloncle, capo delle leghe fasciste francesi del '34, all'avvio svolgeva un ruolo intuito come espressivo della linea del Mouvement Social Révolutionnaire, dopo la secessione di questi dal Rassemblement National Populaire di Marcel Déat. E si presentava con un sottotitolo fortemente programmatico: "Settimanale politico del MSR, organo di combattimento dei lavoratori francesi".
Secondo Moreno Marchi «con la direzione di Combelle il giornale elimina questo sottotitolo per assumere una configurazione politica e letteraria, collocandosi all'estrema destra dei vari indirizzi della collaborazione». È da supporre, dunque, che nella personalità e nella identità ideologica del Combelle debbano essersi progressivamente prodotti ritocchi sostanziali, se è vero, come è vero, che egli assume il rischio della tutela del socialismo di Drieu presso le inciprignite autorità d'occupazione germaniche del '44 e, per soprammercato, tiene conferenze sul medesimo al cospetto di un tribunale che, giudicandolo per alto tradimento, potrebbe mandarlo a morte.
Piccola curiosità. Negli Anni Trenta Marcel Déat sicuramente e, se non ricordiamo male, Paul Marion (altro ministro collaborazionista puro sangue), furono tra i collaboratori di "Giustizia e Libertà", la pubblicazione diretta da Carlo Rosselli, allora interessato alle loro tesi neo-socialiste. Va da sé che il teorico e leader del socialismo liberale era distante trilioni di anni luce dall'immaginare gli sviluppi successivi di quei suoi troppo irrequieti e inquieti pupilli.
 

Enrico Landolfi

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