una brillante ricerca di
Moreno Marchi edita da "Settimo Sigillo"
Il «fascino indiscreto» della sinistra nella cultura
dei collaborazionisti francesi
Dobbiamo a Moreno Marchi, specialista di letteratura francese particolarmente
attratto dallo studio degli intellettuali «collabos», questo "Con il sangue e
con l'inchiostro - Scrittori collaborazionisti nella Francia occupata", un
saggio che ha, fra tanti, il non comune merito di venire in evidenza quale opera
squisitamente «laica», ossia sottratta alla benché minima tentazione di trattare
una materia tanto delicata e incandescente in chiave o beatificante o
demonizzante. Peraltro, che tale sia stata l'intenzione dell'Autore -già
illustratosi come esperto di vaglia del fenomeno «collabo» con il lavoro
bio-bibliografico "Drieu La Rochelle. Una bibliovita", anch'esso licenziato alle
stampe per i tipi della Editrice Settimo Sigillo di Roma- risulta dal tono di
una nota annessa al volume, della quale cogliamo le seguenti parole: «La vicenda
degli intellettuali parigini schierati dalla parte dell'occupante rappresenta,
all'interno di questo capitolo della storia francese, un dramma nel dramma,
continuamente rimosso e continuamente riemergente. Scrittori, giornalisti,
poeti, studiosi, scelsero, pur con mille motivazioni diverse, di stare dalla
parte degli invasori, pagando alla fine del conflitto un conto salatissimo. La
Francia non li ha mai perdonati».
II libro del Marchi è una autentica miniera di elementi di giudizio -ideologici,
esistenziali, politici, storici, culturali- offerti al Lettore in modo né
asettico né partigiano onde consentirgli di farsi un'idea di ciò che veramente
accadde in Francia e, successivamente, a Sigmaringen, capitale di un brandello
di stato collaborazionista trainato in territorio tedesco, in quel mondo di
«teste d'uovo» temerariamente a sostegno della guerra dell'Asse. E non soltanto
per ciò, ma per metterlo in condizione di esprimere una valutazione di uomini,
fatti e cose non di taglio moralistico e, soprattutto, depurato dall'imperativo
che chi ha vinto ha sempre e necessariamente ragione e chi ha perso sempre e
necessariamente torto.
Per conto nostro, siamo particolarmente desiderosi di segnalare un aspetto delle
vicende e delle propensioni teoriche di singoli ma notissimi esponenti della
«Collaborazione», normalmente poco osservato e men che meno approfondito: quello
che definiremmo, parafrasando e scherzosamente ritoccando il titolo di un
celeberrimo film di Bunuel, il «fascino indiscreto del socialismo» e perfino,
talvolta, del comunismo; una malìa proiettata su di essi dai due filoni storici
della Sinistra. Da tenere presente che tale processo di più o meno inconscia
immedesimazione in momenti fondativi della cultura del «nemico» si avvia fin
dall'anteguerra. Prova ne sia, anzitutto, un brano di Pierre Andreu
-intellettuale amico di Ugo Spirito, diffusore in Francia delle sue opere,
intimo di Emanuel Mounier, propugnatore del «congiungimento» del socialismo alla
nazione, autore di saggi su Sorel, sulla «grandezza e gli errori» dei preti
operai, su Max Jacob, su Drieu La Rochelle (in collaborazione, quest'ultimo, con
F. Grover)-, grandemente significativo in tale asseverazione: «Giovani
maurrassiani, giovani marxisti, giovani cattolici, denunziavano la medesima
impostura dei potenti. I giovani monarchici di "Réaction" alla ricerca dei
fondamenti dell'ordine, non riuscivano certo a trovarli nel disordine stabilito
della società liberale e capitalista che Mounier accusava con estremo vigore».
Moreno Marchi segnala una «contiguità» altrettanto stimolatrice di curiosità e
approfondimenti, che indusse la cultura comunista dell'epoca a sperare di avere
trovato in Rene Destruche, alias Luis Ferdinand Celine, quanto meno un compagno
di strada. A proposito di una famosa opera céliniana, "Voyage au but de la
nuit", egli scrive: «II "Voyage" aveva addirittura conquistato ed entusiasmato
le sinistre, convinte di avere trovato in Celine un proprio cantore, al punto
che Elsa Triolet, compagna di Louis Aragon, si precipitò a curarne una
traduzione in russo; non esente da tagli. A conferma di questo subitaneo
interessamento, anche in URSS il libro riscosse un discreto successo che valse
all'autore l'invito per un soggiorno».
Solo Leone Trotzky -ma trattasi, com'è risaputo, del capo dell'opposizione in
esilio dello stalinismo imperante- non elegge Celine a «cantore» del
marxismo-leninismo. Tuttavia, il Marchi parla di «benevolo accoglimento» appena
venato di «qualche sfumata riserva» da parte di Leo Davidovich. Il che non è
moltissimo ma neppure poco. In verità, i comunisti staliniani non tardano a
smaltire le illusioni circa una presunta disponibilità sinergica dello
scrittore. La rottura ha luogo allorché vede la luce un suo pamphlet, "Mea
culpa", dalle cui pagine l'immagine dell'URSS esce a pezzi.
Ciò che, però, suscita sorpresa e, al contempo, coinvolgimento del campo delle
sinistre non comuniste e delle minoranze antistaliniste del comunismo è il
taglio essenzialmente socialista rivoluzionario o trotzkista di materiali
importanti della requisitoria antisovietica di un homme de piume rispetto al
quale, peraltro, le destre, pur «scoprendolo», si guarderanno bene dal superare
«posizioni di dubbio e di scetticismo», secondo ci avverte sempre Marchi.
Che così riassume le denunce dell'irrequieto intellettuale relative alle magagne
della società sovietica: «Quasi come appendice a "Mea culpa", il libro
("Bagatelles pour un massacre" - N.d.R.) riprende le dure critiche al comunismo,
di cui Celine denunzia l'anacronistica, celata, ma ineluttabilmente presente,
persistente suddivisione della società in classi. Senza dubbio in URSS
all'apparenza tale male, sui cui presupposti vertono i canoni fondamentali
dell'ideologia marxista, sembra essere definitivamente debellato, in realtà
invece niente è mutato. Vi sono infatti i dirigenti, quelli che comandano,
muniti di tutti i conforti e gli agi, che, ben pasciuti, se ne stanno dietro le
loro scrivanie ad impartire disposizioni e vi sono gli operai, i contadini,
quelli ovvero che continuano a lavorare, non più per un padrone, ma per lo
Stato, che vivono in condizioni disagiate, se non addirittura miserevoli, e che
si dannano l'esistenza lungo interminabili giornate lavorative».
L'Autore insiste nell'alludere ad un comunismo di Rene Destruche quasi scorrente
come fiume carsico sotto la roccia di un collaborazionismo che ritiene, di
fatto, inesistente, ad onta della collocazione dello scrittore nella lista di
«collabos» di spicco pubblicata dalla rivista americana "Life" il 24 agosto '42
e delle invettive scagliate contro di lui dai gollisti di Londra con le
trasmissioni della BBC. Dice in proposito, occupandosi del pamphlet "Les Beaux
Drapes": «Nel libro per una rara volta si trovano anche dei propositi céliniani
costruttivi. Propositi che, con tanta utopia per quanta ingenuità, sembrerebbero
quasi sorpassare il comunismo addirittura a sinistra (comunismo alla Eugéne
Labiche, piccolo borghese, con cento franchi al giorno per tutti e l'ereditario
villino in periferia). "Les Beaux Draps" abbozza infatti un programma
concernente l'economia, il salario unico, l'industria, l'agricoltura, una
profonda riforma dell'insegnamento, quindi l'educazione giovanile, comprendente
una sorta di sprone al recupero della gaiezza ed una specifica educazione
riguardo la razza, vista come salvaguardia etica».
Quanto, poi, al collaborazionismo, descritto come puramente putativo, afferma:
«... Celine non svolse comunque alcuna pubblica attività collaborazionista;
nessuna opera propagandistica tramite stampa sia con altri mezzi. Il suo ruolo
di intellettuale differisce abbastanza da quello di altri. [...] Egli in
definitiva è sempre rimasto un isolato, nel corso della sua intera esistenza,
dando sfogo alla sua voce soltanto tramite i libri. Mai quindi usò far gruppo
con altri, compresi gli stessi altri collaborazionisti». Personalmente, possiamo
in fede dichiarare di avere letto -purtroppo non ricordiamo in quale opera di
quale autore- che Celine ebbe la generosità di rifiutarsi di scrivere alcunché o
di profferir motto contro gli ebrei durante l'occupazione e il regime di Vichy,
argomentando che se li aveva combattuti quando erano forti e al sicuro si
rifiutava di cooperare alla loro rovina ora che una ria sorte li aveva resi
debolissimi ed esposti alle persecuzioni e alla morte. Il che getta una luce
simpatica sulla pur discutibile e discussa figura di Rene Destruche; lo
riconosciamo volentieri, anche se aborriamo qualsiasi razzismo sempre, dovunque,
comunque si manifesti.
* * *
Ma chi, fra gli intellettuali della «Collaborazione», maggiormente avverte il
«fascino indiscreto» del socialismo è Pierre Drieu La Rochelle, che Moreno
Marchi definisce l'unico, vero ideologo scaturito dal microcosmo della
intellettualità collaborazionista.
Effettivamente, certi passaggi del Drieu-pensiero assomigliano in modo
impressionante a elaborazioni tradizionali della cultura socialista più avanzata
o addirittura rivoluzionaria. Ecco, per esempio, uno spunto segnalato
dall'Autore: «... lo scrittore ha constatato la piatta riduttività egualitaria
insita nella proposta del modello comunista da una parte e l'analoga
massificazione consumistica proposta dal modello capitalista dall'altra. In
alternativa a questi due poli, geograficamente riconducibili ai due
super-imperialismi dominanti: il vuoto, l'inefficacia, l'impotenza di un
continente impoverito e dilaniato da astorici, folli nazionalismi». L'analisi
drieuista conclude, per questo aspetto, nella esigenza di una «Europa federata e
possente» nella quale sia collocato «l'uomo, da restituire così alla sua dignità
esistenziale».
Ecco un nucleo di idee che, prese in sé, qualsiasi militante di una forza
socialista libertaria -e perché no?, anche un comunista revisionista «formato
Dubcek», poniamo- potrebbe tranquillamente accettare. Da notare che, all'epoca,
la loro formulazione venne offerta da Drieu in connessione con un marcatissimo
disprezzo per l'esperienza di Vichy, espressivo di uno stato d'animo che il
Marchi ricostruisce con le seguenti parole: «Vichy non è che una finzione,
tenuta in piedi dai tedeschi, ma priva di autentico fondamento, priva di
convinzione, di reciproca passione. Una finzione ben nota alla coscienza di
tutti e che proprio nella sua disincantata constatazione trova la sua perfida
soddisfazione, il suo sgangherato alibi».
Neppure il Reich sfugge a un giudizio di forte spessore critico: «Anche la
Germania ha per Drieu le sue colpe. Seppure dedita all'azione totale, essa tradì
il grande sogno: satura e tronfia di nazionalismo volle essere potenza
imperialista, meramente conquistatrice, senza peritarsi di mutarsi in Europa, di
assolvere quel vasto, essenziale compito da tanti atteso. [...] Ancora una volta
comunque Drieu La Rochelle fu tra i primissimi a presagire, con intellettuale
chiarezza e largo anticipo sugli altri, la tragica fine del millenario sogno
tedesco, vittima in primo luogo della sua ambiziosa insufficienza». Diciamo la
verità: il più intransigente uomo di sinistra non avrebbe meglio valutato il
comportamento militare, politico, diplomatico dello Stato nazista.
Sorprendente lo sbocco che il celebre letterato francese da ai suoi disinganni.
Invece di prendere le distanze dalla Germania, come pur aveva fatto Robert
Brasillach nel '43, egli, ci dice ancora il saggista, «fedele sempre al suo alto
senso dell'onore e della coerenza, perseverò nel suo ormai disperato schierarsi,
scegliendo così con tanta rassegnazione per quanta risolutezza, una strada
unidirezionalmente volta verso una inevitabile, terrificante apocalisse, munito
soltanto di un agghiacciante nichilismo».
Dunque, la risposta che Drieu da alla sua crisi si appalesa di indole
squisitamente letteraria. Più politica, viceversa, la decisione di «sostituire»
la Germania di Hitler con l'URSS di Stalin nel suo spirito tormentato di
rivoluzionario alla ricerca di sé stesso non meno che della rivoluzione, da lui
vagheggiata come socialista. Ancora Marchi: «... il suo sguardo di sconfitto si
volse, illuminato da quella serenità interiore possibile soltanto a chi sa di
star lasciando per sempre il campo, verso l'URSS stalinista». Conseguentemente,
la nuova scelta -al momento di dare, da suicida, soluzione di continuità alla
sua stagione terrena- viene iniettata nel testamento politico.
* * *
Il punto debole della posizione con la quale Drieu si presenta sulla scena in
veste di dottrinario e di militante? È presto detto: l'aver fatto della Germania
in camicia bruna il pilone portante del suo sistema di pensiero e il baricentro
della strategia giornalistica e politica diretta ad attuarlo. E questo perché
vede illusoriamente nella Croce Uncinata il simbolo di una rivoluzione destinata
a farsi da nazionale in europea al fine di diffondere nel Vecchio Continente il
messaggio del socialismo.
Evidentemente la denominazione del partito hitleriano lo trae in inganno. Come
mai non ha riflettuto sulla «notte dei lunghi coltelli», quando le SS
sterminarono Rohm e le sue SA, componente militare e rivoluzionaria dell'ala
sinistra del regime -di cui Goebbels aveva fatto in un primo tempo parte-,
invisa allo stato maggiore reazionario con cui il Führer aveva stretto un patto
di ferro? Certo, se nel '43-'44 avesse avuto contezza della feroce opposizione
tedesca alla socializzazione mussoliniana in operante solidarietà con il
capitalismo più conservatore si sarebbe giovato di una ulteriore prova
dell'assoluto deficit di spirito riformatore dei nazisti.
Per sfogarsi, Drieu affida amare riflessioni, in un articolo dal significativo
titolo "Pauvre Europe", al giornale "Révolution Nationale", diretto da Lucien
Combelle. Lo scritto viene mutilato di quasi due terzi dalla censura
dell'occupante, decisa a far sparire quelle sue parti che suonano atto di accusa
alle orecchie dei boches. Moreno Marchi ne pubblica alcuni periodi,
icasticamente espressivi della depressione di Drieu: «... la Germania incapace
di superare il suo nazionalismo, il suo imperialismo, incapace di sfornare la
sua rivoluzione particolare in rivoluzione universale, incapace di eliminare le
arretratezze che ancora ha in sé, per ardere, pura forza socialista, sull'altare
della patria europea, la Germania impedisce alla comunità di questo continente
di federarsi attorno a lei».
Per ciò che quindi concerne i metodi nazisti di gestione dei paesi conquistati,
le parole adoperate da Drieu sono queste: «Non si può chiedere a dei popoli, che
essendo occupati si considerino in procinto di essere assoggettati, di procurare
operai e soldati per una guerra esterna, se non si prospetta loro al contempo un
compito interno. Compito che essendo insito simultaneamente in ogni popolo
europeo, si manifesta così comune all'intero continente».
A quale «compito interno» fa riferimento il letterato-pensatore? È il socialismo
che ognora domina le sue pagine e i suoi atti. Lo si evince ancora da "Pauvre
Europe": «Gli americani contano fedeli alleati nei democratici; i russi nei
comunisti; i tedeschi non hanno invece riconosciuto i loro naturali alleati nei
socialisti europei. E questi, poco numerosi all'inizio, non potevano sviluppare
le loro forze se non in un clima di generale rivolgimento, di ardenti
convergenze».
Ed eccoci alle questioni simboliche: «Potremmo avere altra bandiera che quella
rossa sulla superficie di un continente ridotto infine, per amore o per forza,
al socialismo? Chi potrà mai risollevare l'Europa dalle sue macerie, se non il
socialismo? Non di certo le banche e i trusts. È ora che i tedeschi non
proclamino soltanto, ma realizzino il socialismo europeo sulle rovine
dell'Europa [...] È in piena guerra che si compiono le decisive trasformazioni
sociali [...] È in piena guerra, quando i russi avanzano, che necessita compiere
le azioni risolutivamente europee e socialiste».
Pierre Drieu La Rochelle addirittura fantastica, per quanto attiene al fronte
dell'Est, di una guerra di socialisti contro comunisti: «Essa (l'Europa) non può
capire la guerra esterna se non nel travaglio di una guerra interna, non può
capire la guerra contro il comunismo se non nella realizzazione della guerra
socialista [...] I tedeschi non interessano nessuno perché tali, non più degli
inglesi, americani o russi; quel che conta è quanto questi apportino: il
comunismo gli uni, la democrazia capitalista gli altri. I tedeschi dovevano
apportare il socialismo. Ogni occupazione da parte della Germania doveva mutarsi
in rivoluzione nazionale; ogni rivoluzione nazionale doveva costituire un
palpito della rivoluzione europea».
Davvero incredibile che un intellettuale della stessa nazionalità -più o meno-
dell'«occupante» permanente, per vocazione, Napoleone Bonaparte, si sia potuto
illudere sulle taumaturgiche virtù rivoluzionarie di una occupazione straniera.
* * *
Ma non è questa la sola contraddizione che aduggia il discorso del La Rochelle.
Per esempio, mentre non lesina in querele per le attitudini dominatrici del
Terzo Reich, non rista dall'insistere sulla necessità che la Germania dia luogo
ad una sua compiuta egemonia sulla «nuova» Europa, bisognosa, a suo dire, di una
nazione dotata di possenti ancorché idealistiche capacità federatrici e di
guida. Né gli è chiaro -per certi limiti romantici delle sue impostazioni
politiche- che la guerra «socialista» contro l'URSS, con relativa seppure non
desiderata proiezione interna in versione «collabo» contro la Resistenza, è una
assoluta assurdità. L'Unione Sovietica, infatti, non va distrutta per offrirla
su di un piatto d'argento -come faranno in altra, più recente situazione storica
con diseguali responsabilità, Gorbaciov ed Eltsin con il capitalismo americano-
alla plutocrazia teutonica mascherata con un presunto socialismo nazionale.
Essa, invece, va profondamente, radicalmente, rivoluzionariamente trasformata
convertendo la collettivizzazione burocratica-livellatrice-autoritaria in
socializzazione autogestionaria-democratica-libertaria. Ossia sostituendo i
burocrati —-la «nuova classe» di cui parla Milovan Gilas- con i Consigli Operai.
Drieu non si rende conto -salvo, poi, concedersi allo stalinismo in articulo
mortis, nel tentativo di guarire il colera con la peste- che mettere in
conflitto, per di più a mano armata, un modo di essere della sinistra contro un
altro, è da sempre connotazione saliente della strategia di qualunque tipo di
reazione. Dunque, anche di quella tedesca truccata con i colori prestigiosi e
stupendi del socialismo. Insofferente di ogni egualitarismo
-che confonde, è nostra impressione, con l'eguaglianza, della quale esso esprime
un momento degenerativo- si dichiara antidemocratico e -quasi stabilendo un
rapporto di conseguenzialità- qualifica come fascista il suo socialismo.
Non è il solo. Tuttavia, immaginiamo, il fatto che le sue prose spesso e, forse,
volentieri siano state assunte quali bersagli privilegiati dalla censura degli
occupanti lo avrà pure indotto ad apprezzare i vantaggi -specie per un uomo di
cultura non conformista- di quella libertà di stampa garantibile solo da un
assetto democratico.
Quanto al fascismo, se il riferimento è al modello italiano, occorre precisare
che il Littorio non nacque contro di essa e morì con un Mussolini che,
ammaestrato dall'esperienza, aveva ideato una repubblica nel cui programma
c'era, insieme a tutte le altre libertà, quella di stampa. E se non potè andare
oltre una incoraggiante molto ampia tolleranza ciò fu dovuto alla situazione
militare della RSI, all'opprimente presenza nazista, al naufragio nella
sconfitta. Quindi, l'equazione fascismo-antidemocrazia, se proposta in una
interpretazione rigidamente, diremmo inanimatamente meccanicistica, è da
considerare fallace.
Ulteriore spunto socialista nella travagliata vicenda umana e politica di Pierre
Drieu La Rochelle. Invitato dal Combelle a collaborare a "Révolution Nationale",
dapprima si schermisce poi decide di accettare. Così pubblica su quel giornale
ben 35 articoli, per due dei quali il direttore deve attingere a tutte le
risorse della diplomazia per vincere le riluttanze dei censori di Hitler. Guarda
caso, trattasi di due pezzi aventi per tema il socialismo. Loro titoli:
"Prospectives Socialistes" e "Le socialisme à l'épreve".
A proposito di Lucien Combelle, traiamo dal numero del 29 dicembre '44 di
"Combat", che pubblica il testo dell'interrogatorio al suo processo nel
resoconto di Michel Hiunfker, queste parole: «Adesso Lucien Combelle parla. Ha
una voce molto gradevole e la sua è una vera e propria conferenza sul
socialismo. Spiega le sue idee riguardo a una federazione europea dei
lavoratori. Nel 1943 credeva che soltanto l'esercito tedesco fosse in grado di
realizzarla, è per questo che scrisse "Per noi la giusta causa non allogava nel
campo francese". La Francia e Vichy, aggiunge, erano ancora nelle mani dei
trusts e dei capitalisti, nei miei articoli l'ho quindi detto». Se non è questa
un'altra prova provata dell'eterno, inossidabile, insostituibile «fascino
indiscreto» della Sinistra...!
Pochi cenni su "Révolution Nationale". Ideato nell'ottobre '41 da Jean Fontenoy
e da Eugene Deloncle, capo delle leghe fasciste francesi del '34, all'avvio
svolgeva un ruolo intuito come espressivo della linea del Mouvement Social
Révolutionnaire, dopo la secessione di questi dal Rassemblement National
Populaire di Marcel Déat. E si presentava con un sottotitolo fortemente
programmatico: "Settimanale politico del MSR, organo di combattimento dei
lavoratori francesi".
Secondo Moreno Marchi «con la direzione di Combelle il giornale elimina questo
sottotitolo per assumere una configurazione politica e letteraria, collocandosi
all'estrema destra dei vari indirizzi della collaborazione». È da supporre,
dunque, che nella personalità e nella identità ideologica del Combelle debbano
essersi progressivamente prodotti ritocchi sostanziali, se è vero, come è vero,
che egli assume il rischio della tutela del socialismo di Drieu presso le
inciprignite autorità d'occupazione germaniche del '44 e, per soprammercato,
tiene conferenze sul medesimo al cospetto di un tribunale che, giudicandolo per
alto tradimento, potrebbe mandarlo a morte.
Piccola curiosità. Negli Anni Trenta Marcel Déat sicuramente e, se non
ricordiamo male, Paul Marion (altro ministro collaborazionista puro sangue),
furono tra i collaboratori di "Giustizia e Libertà", la pubblicazione diretta da
Carlo Rosselli, allora interessato alle loro tesi neo-socialiste. Va da sé che
il teorico e leader del socialismo liberale era distante trilioni di anni luce
dall'immaginare gli sviluppi successivi di quei suoi troppo irrequieti e
inquieti pupilli.
Enrico
Landolfi
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