«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 3 - 30 Aprile 1994

 

amare riflessioni di un «eretico»
Consumismo, psicologia. pedagogia
disastrosi effetti del modello dominante

 


Una breve, doverosa premessa.
Non intendiamo certo esaurire in questa sede l'estrema complessità del problema, ricco d'innumerevoli sfaccettature e di una casistica pressoché infinita, ma solo fornire al lettore degli spunti per meditare su di una situazione che tende progressivamente ad aggravarsi, i cui effetti deleteri e sconvolgenti sono ormai sotto gli occhi di tutti.
Non si vuole nemmeno, per ovvii problemi di spazio, condurre un'analisi puntuale del sistema capital-consumistico e della fenomenologia ad esso connessa, sia perché esso costituisce il modello ormai dominante e quindi ben conosciuto dei Paesi che si arroccano a difesa dei propri privilegi nella zona nord del pianeta, tendendo ad essere forzosamente esportato ed imposto a quelli in via di «sviluppo», sia perché altri lo hanno fatto prima e meglio di noi.
Ciò che intendiamo sfatare in quest'occasione, invece, è l'erronea convinzione che il capitalismo, come il suo necessario corollario consumistico, costituisce il migliore dei mondi possibili.
Infatti, intere civiltà, per millenni, si sono succedute sulla faccia della Terra senza optare per tale soluzione, non solo senza risentirne minimamente, ma anzi senza alterare il proprio equilibrio ed il loro armonico sviluppo. Alcune di esse sussistono anche ai nostri giorni. E ciò -si badi bene- non per ignoranza, per oscurantismo, per incapacità o imprevidenza, ma proprio in virtù di una libera scelta, di un meditato e consapevole rifiuto di tale sistema, solo recentemente spacciato come panacea di tutti i mali del genere umano, attraverso un sistematico inganno perpetrato ai danni dell'umanità intera.
Denunciando i mali di tale congiura planetaria, organizzata in modo davvero diabolico da menti acutissime, divenute consapevoli strumenti d'occhiuta rapina, non intendiamo certo riferirci alla critica a suo tempo condotta dal barbuto filosofo di Treviri e, quindi, apparire nostalgici fautori di un'alternativa che tale non è, dal momento che la visione economicistica della vita è comune ad ambedue gli schemi ideologici e poiché la scelta di attribuire la proprietà dei mezzi di produzione all'imprenditore privato od allo Stato rappresenta solo, in ultima analisi, una trascurabile variante.
Per individuare un modello politico a noi più congeniale e funzionale al sistema che intendiamo riproporre, si dovrebbe risalire a quello presentato dal divino Platone, che giustamente paventava l'avvento dei mercanti al governo, dal momento che avrebbero imposto la visione del mondo loro propria, consistente in un'indistinta massificazione dell'essere umano, ridotto ad una macchina che produce e consuma, privo di ogni dignità e capacità creativa. Tuttavia, per avvicinarci al periodo contemporaneo, si può citare l'esperienza dell'economia curtenze, di sussistenza certo, ma nel contempo capace di soddisfare tutte le esigenze primarie dell'individuo, senza ingenerare ad arte falsi bisogni, capaci di comportare mali altrimenti inesistenti, fino alle affermazioni (più teoriche che pratiche, a dire il vero) dei fascismi europei, per arrivare alle proposte davvero rivoluzionarie, visti i tempi, di un Tolstoi o di un Gandhi, sostenitori di un auspicabile ritorno alla terra ed all'artigianato, nonché alle soluzioni alternative presentate ai nostri giorni dai verdi integralisti.
Da quanto detto, si vede che non ci si muove affatto nel campo dell'utopia, ma che si propongono dei modelli di sviluppo (stavolta quello vero, perché armonico) o attuati storicamente in epoche ben precise, antiche o recenti che siano, oppure in ogni caso possibili, purché lo si voglia, non solo in un ambito ristretto come la polis greca o la curtis medievale.
È ovvio, però, che essi abbiano trovato feroci resistenze proprio ad opera di chi intendeva difendere i privilegi goduti, tali da assicurare uno smisurato potere ai loro detentori. Quello che ci preme affermare, tuttavia, non è tanto il ribadire concetti più o meno acquisiti, almeno in un'area politico-culturale che si va progressivamente delineando, non solo grazie alla salutare abitudine al dialogo ed al confronto tra gruppi spesso artatamente contrapposti (ed anche ciò fa parte della tecnica di potere del «divide et impera»), ma anche per lo sfascio sia dell'ideologia collettivistica che di quella capitalistica, considerato imprevedibile solo da chi s'illudeva che tali sistemi potessero reggere alla lunga alla prova dei fatti.
Noi intendiamo sottolineare, piuttosto, gli effetti che tale modello capital-consumistico ha prodotto ed ancora produce sulla psicologia individuale e collettiva, soprattutto nei riguardi dei giovani, nati, cresciuti e plagiati da esso.
E ormai cosa risaputa ed accusa abusata, anche se vera e provata, che la rivoluzione industriale ed il sistema capitalistico, pur diffondendo il cosiddetto benessere (ed, in ogni caso, solo nel mondo occidentale) abbia comportato anche mali talmente endemici, quali la perdita dei veri valori, l'ansia, l'alienazione, lo stress, l'inquinamento, nonché il materialismo dilagante, l'individualismo più sfrenato e quindi la violenza e l'insensibilità, al punto di chiedersi, dovendo fare un bilancio consuntivo, se si sia trattato di vero progresso e non, piuttosto, di elefantiasi della tecnologia, ma di morte dell'uomo e di un mondo costruito a sua misura.
Pertanto, almeno per una volta, vogliamo sottolineare i danni pressoché irreversibili che si possono riscontrare a livello mentale nell'umanità contemporanea, disavvezza all'impegno, alla pazienza, al sacrificio, incapace di conquistarsi checchessìa mettendo a frutto le proprie capacità creative.
Infatti, oggi è tutto disponibile all'istante; il mercato prevede ed orienta gusti e tendenze, stereotipando e standardizzando tutto: dall'alimentazione alla moda, dalle opinioni ai prodotti culturali.
Soprattutto i giovani, abituati fin dalla nascita a questo mondo anodino, squallido, buio, ossessivamente deprimente, nonostante l'allegria forzosamente indotta e meccanicamente programmata, risentono di questo stato di cose. Basta osservare in modo impersonale il livello dei programmi televisivi cosiddetti «d'evasione», studiati apposta per rinfrancare il popolo-bue e predisporlo a tours de force sempre più massacranti, evitando accuratamente, però, che disturbi il manovratore, anzi alimentando desideri sempre più folli ed insaziabili, l'esatto contrario dell'antica saggezza mirante a sradicare la cupidigia, in vista di un'esistenza serena.
Allevati a canzonette, risate sguaiate ed insulse (rìsus abundat in ore stultorum!), a quiz e concorsi che mirano ad inculcare nelle menti il valore supremo del denaro, il grande capitale è riuscito nel suo intento di allevare dei servi sfruttati e contenti, il cui riso ebete perennemente aleggiante sui volti nasconde il vuoto pauroso delle loro anime.
Cosa poteva desiderare di meglio il Grande Fratello? Cornuti, mazziati e, nonostante tutto, convinti del «progresso» compiuto e felici di vivere in un'epoca storica invidiabile. È davvero il colmo!
Visto che il gregge bela soddisfatto anche quando è in procinto di essere condotto al macello (si vedano le professioni di fedeltà e le proteste che si sollevano da più parti, se qualcuno, non del tutto rincitrullito, osa mettere in dubbio la bontà delle guerre imperialiste programmate a scadenza regolare dal potere centrale), ci si renderà conto della vanità di ogni azione pedagogica alternativa, tesa a donare nuovamente dignità, autonomia di giudizio e d'azione, coraggio, spirito di sacrificio, valori positivi e, di conseguenza, sana e duratura soddisfazione per le azioni compiute, anche le più banali, avvertite come effetti di scelte personali e, quindi, in grado di donare fiducia in sé stessi, forza d'animo, perseveranza a questi giovani che hanno irrimediabilmente perduto tutto ciò, ma che lo vanno affannosamente cercando e, non trovandolo, appaiono fragili fino all'inverosimile, vittime della droga, dell'alcool, degli abusi e delle trasgressioni sessuali, affondando in una disperazione senza fine, che spesso sfocia nel suicidio o, quantomeno, nell'incomunicabilità e nella depressione.
A tanti mali si potrebbe ovviare cambiando la visione del mondo e, quindi, sistemi e modelli comportamentali, istituzioni, educazione, instaurando un mondo civile degno di questo nome. Tuttavia, non sussistendo termini di confronto, che non debbono nemmeno essere teorizzati, pena l'anatema e la scomunica, sembra proprio che, almeno per ora, non vi sia davvero alternativa di sorta. Non c'è che dire: un mostruoso marchingegno, pensato in modo tale da stritolare ogni pur minima opposizione.
Ciò che è tragico sta nel fatto che sia proprio la stessa massa degli schiavi ad inveire rabbiosamente verso chi intende agire per liberarla.
La storia si ripete: così agivano le plebi medievali contro i cosiddetti eretici, i vandeani nella Francia del secolo dei lumi, come del resto i lazzaroni napoletani in epoca risorgimentale. Cosa fare, allora?
Piuttosto che pensare ad ordire congiure destinate al fallimento e sperare in un rinsavimento a breve scadenza degli schiavi giulivi, non resta che attendere pazientemente. Scendiamo nelle catacombe con l'imperscrutabile sorriso degli dei sulle labbra. Alla forza impetuosa di un vento di breve durata opponiamo non la resistenza di un muro che può essere travolto, ma quella solo apparentemente inconsistente di una rete che lo lascia filtrare, restando però in piedi. Sediamoci pazientemente sulla riva del fiume, senza partecipare ai vani clamori del mondo esterno, anch'essi previsti ed orchestrati da chi manovra dietro le quinte, ivi compresi i «ludi cartacei» delle elezioni gattopardescamente bandite dai grandi illusionisti, padroni (per ora) del vapore. Attendiamo seraficamente che il destino si compia.
Non essendo animati (né ora, né mai) dal senso della comunità, del bene collettivo, ma accecati solo dall'utile personale e dalla brama del potere, finiranno per distruggersi a vicenda, come belve inferocite.
I prodromi della catastrofe finale, tappa obbligata di ogni tragedia che si rispetti, sono già visibili. A quel punto, e solo allora, vedremo passare dinanzi ai nostri occhi, galleggiando sulle acque forse rosse di sangue, il cadavere del nostro nemico. Se saremo riusciti a restare in piedi tra le rovine, nonostante tutto, ed a mantenerci imperturbabili e sereni come gli antichi saggi consigliavano, allora potremo proporre e ricostruire qualcosa.
 

 Alfredo Stirati

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