«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 4 - 15 Giugno 1994

 

Dedicato ad un amico scomparso

 

 

A proposito del repentino passaggio, qui da noi, dalla la alla 2ª Repubblica, il giornalista Jacques Nobécourt notava che «gli Italiani voltano pagina con un sangue freddo che rasenta l'incoscienza o l'indifferenza».
Non voleva essere -ed in effetti non era- un complimento. Certo, si sarebbe potuto ribattere al malizioso cugino d'Oltralpe che il «voltar pagina» non è caratteristica «solo» peninsulare, e che, in fatto di fedeltà e coerenza, esse sì trovano neglette anche dalle sue galliche parti... Ma verità vuole e impone che qui si riconosca -sebbene a malincuore- come gli Italiani siano stati: borbonici prima e savoiardi poi, papalini e anticlericali accesi, fascistoni e quindi antifascisti d.o.c, comunistissimi dopo ultraliberali - e tutto (questo ed altro ancora) con il massimo trasporto e la medesima fidente partecipazione. Nell'espace d'un matin, da un passaggio all'altro.
Diciamolo allora: fermo restando il diritto-dovere d'ognuno di cambiare onestamente opinione - non è (almeno in linea di massima e di principio) che nel Belpaese siano state mai praticate molto virtù quali la fedeltà latu sensu, o la cosiddetta tenuta interiore e «roba» del genere... «Franza o Ispagna basta che se magna» fu il motto popolare che accompagnò nei secoli le italiche generazioni, contraddistinte da una straordinaria, e perdurante, capacità d'adattamenti alle circostanze. Tale naturale pronta disponibilità a mettersi a servizio presso il potente di turno, non è dunque frutto dei tempi moderni: le tatarelle nostrane han sempre nidificato numerose, fra le Alpi e il Lilibeo. Ma la storicità della cosa non mi è di sollievo, anzi.


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Ricordate la frase di A. Bonnard, quella che diceva: «la gioventù di un grande Paese in tempi felici riceve gli esempi, in tempi critici li dà»? Ebbene, in tutta franchezza, non riesco a scorgere attorno a me né una gran gioventù, né un grande Paese, né grandi esempi... Già ho avuto modo di professare il mio dissenso (: "Sulla democrazia", ediz. di Ar) sul moderno fatto «che il "confort", il denaro, la carriera vengano indicate come regole del vivere civile; che vengano additate come mèta, come fine ultimo dell'uomo. Se tale può dirsi, poi, un simile essere "ricostruito" quale egoistica, stereotipata unità che ha nello stomaco il proprio organo dirigente ...» -e lamentavo anche come fosse avvertibile- in Italia, forse più che altrove «il nulla di "questa" libertà. In un Paese dove le uniche istanze comunitarie, le sole aspirazioni nazionali vengono a condensarsi nella "partita", con i suoi simulacri di miti, di eroi, di vessilli».
«Noi» volevamo essere diversi, aspiravamo ad essere eccezioni. Eppoi, ce ne vorrebbero ancora, di miti. E di esempi veri. Ci vorrebbero persino, checché ne dica Bertolt Brecht, degli «eroi». Quest'ultimo termine, tanto impegnativo quanto desueto, mi è tornato alla mente in occasione dei funerali di Ayrton Senna, il pilota tragicamente scomparso (come si dice in questi casi) a Imola, e che l'iperbole del momento celebrava come «eroe». Eroe? Avrei capito l'uso di un tale vocabolo qualora, putacaso, il campione brasiliano si fosse coscientemente sacrificato per salvare la vita di un collega corridore... ma, così, essendo egli morto per una disgrazia professionale, perché «eroe»? Perché -e mi son dato la risposta- per essere eroi del giorno, e al giorno d'oggi, occorre esser di moda, avere successo, raggiungere la notorietà. E poi crepare. Ed allora -mi son anche detto- non sbagliava Brecht a... beatificare quei popoli che non avevano bisogno di certe glorie, perché gli eroi di cui si sente una gran mancanza, in realtà, sono di altro genere. Quel che manca è l'eroismo «spicciolo», l'eroismo «ordinario» di quanti -intellettuale o artigiano, operaio o avvocato, a venti come a sessanta anni- sappiano possedere un proprio stile di vita e di idee avulse da fughe in avanti o all'indietro; di chi sappia andare in controtendenza rispetto alla massa dominante, distaccandosene da mode ed abitudini - e proprio per questo può riuscire a cogliere il valore dei fatti e non l'estemporaneità degli episodi o la falsità delle illusioni. Il saper restare «inattuale»: questo conta, a guadagnare sul campo un po' di quell'«eroismo». Che è poi, nelle piccole dimensioni del quotidiano, la proiezione dell'eroismo che fu di Andrea Chénier e di Geronimo, di Mishima e di Bombacci, di Pisacane e di Evola, di Fabrizio Del Dongo e di Don Quichote: di personaggi così, insomma... se paragone ed esempi non spaventano troppo.


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Quell'amico mio dev'essersi spaventato.
C'è chi dice si sia arreso. Altri invece sostengono -e sono i più- che abbia vinto, che stavolta abbia finalmente vinto anche lui. Non saprei. Forse era proprio quello il traguardo, ed io sono andato troppo oltre, senza accorgermene. E così, mio malgrado, sono entrato nel «Nuovo». Ovvero, nell'era del Mercato passe-partout, nell'epoca del Liberalismo prèt-à-porter a tre versioni: in divisa doppiopetto blu-fininvest con cravatta a rigoni e telefonino d'ordinanza; in versione casual bossista; in orbace alla ragioniera dei grigio-furbi. In nessuna delle tre c'era la mia taglia. Dicono invece di lui, che una volta se ne fregava, si sia trovato subito a suo agio negli abiti nuovi. Ma non ho fatto in tempo a chiederglielo. Soprattutto a causa del troppo rumore che c'è là, nel nuovo vittorioso, fra yuppies e riciclati, ruspanti e rampanti. E non si capisce più nulla: federalismo o fascismo, ecologista e antifascista, liberali e/o rivoluzionari; né si distinguono i ministeriali dai neoliberali, i forzisti dai conformisti... inoltre, dal basso, provengono strane e flebili dissonanze... linea, linea futura, ordine e spazio nuovi.
... No, non lo sento e non lo vedo più, il mio vecchio amico. Sicché il pensiero è costretto a ricorrere ad un comune ricordo di anni non troppo lontani, quando un Giovin Maestro di Vita e di Pensiero -Bello per l'occasione- ammoniva sul "Secolo d'Italia" che: «Non è da tutti accorrere là dove non vi è prospettiva di guadagno o di successo, là dove sono i perdenti, i "maledetti" della storia, coloro che furono dalla parte sbagliata: si rischia non solo il proprio presente, la propria "pelle" malapartiana o la propria "roba" verghiana, ma si rischia anche la propria fama [...] Eppure, quasi a testimoniare che nell'uomo vi sono pulsioni che nulla hanno a che vedere con gli stimoli utilitaristici e i calcoli della ragione, la tentazione di andare "dall'altra parte" esiste e non si estingue mai». Belle parole.
Ecco, volevo solo ricordare all'amico scomparso -se ancora è in ascolto e può capire- che, tra il dire e il fare, è bene stare «dalla stessa parte».

 

Alberto Ostidich

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