«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 4 - 15 Giugno 1994

 

I nuovi barbari


L'ultimo atto formale del governo Ciampi è consistito nella richiesta di estradizione del «criminale nazista» Priebke formulata dal Ministro della Giustizia Conso. Il primo atto del «nuovo» governo è stato compiuto dal Ministro di Polizia Maroni che ha sospeso i responsabili dell'ordine pubblico di Vicenza rei di aver consentito -in applicazione delle leggi dello Stato- una manifestazione di Naziskin. Chi temeva lo «strappo» tra il vecchio ed il nuovo dorma pure sonni tranquilli: la continuità ideale e politica è assicurata. Oggi sulla pelle dei Nazi vecchi e nuovi, domani su quella di chiunque oserà esprimere il proprio dissenso o tenterà soltanto di manifestare liberamente le proprie idee. Ieri come oggi: naturalmente in nome della democrazia con la benedizione della CEI.
D'altronde il garante della legge -l'ineffabile Vincenzo Parisi pesantemente coinvolto in uno dei più vergognosi scandali di regime- ha subito inteso rassicurare le sgomente popolazioni italiche affermando che in futuro «per motivi di ordine pubblico non saranno consentiti cortei e manifestazioni simboliche dello stesso tipo». I Nuovi Barbari sono avvertiti. «Loro», gli orridi, che osano ricollegarsi alla tradizione demonizzata dei Fascismi europei e che ne ostentano con orgoglio i simboli. «Loro», insomma, non hanno diritto di asilo in una società dove sono di casa prosseneti, cialtroni, Giuda, voltagabbana, ladri e assassini istituzionali, infami di ogni sorta.
«La nostra società sa, nella sua mala coscienza, di avere colpe innominabili; ma è pronta ad autoassolversi dicendosi intoccata da ciò che ha convenuto definire come il Male radicale». Il Fascismo, appunto. Di cui gli skin rappresentano l'espressione più «angosciante», e, quindi, più «pericolosa». Naturalmente per quanti -buoni borghesi o pseudo-ribelli di «sinistra»- si ispirano al mito incapacitante del Progresso. Ed allora, dai al «diverso» che non accetta le regole imposte e che ha la sfrontatezza di non nascondersi, di non mimetizzarsi, di ostentare -anzi- orgogliosamente la sua «diversità» perché vuole essere riconosciuto dal nemico.
«Il senso di adottare questo modo di vestire è politico: noi scegliamo come linea politica di esporci al massimo e il significato del vestiario è appunto questo: non potersi sottrarre. E, poi, chi si nasconde ha già perso».
Rozzezza, ingenuità? Certamente: ma ciò non sta a giustificare l'allarme giornalistico e le misure poliziesche di cui gli skin sono fatti bersaglio.
Altra è la ragione che spinge a reprimere il fenomeno skin, peraltro numericamente non inquietante. Ce lo ricordava con lucidità di analisi Fabio Granata nell'articolo "Arrivano i mostri?" pubblicato sul n. 4 del luglio del 1992 di "Tabularasa". «La figura dello skinhead, mitizzata ed amplificata, sostenuta dalle avvedute tesi di tanti intellettuali liberal angosciati dai rischi per la democrazia, diventa -viene fatta diventare- archetipo del barbaro distruttore, cosicché per sillogismo chiunque si pone contro la società multirazziale e mondialista, distruttrice delle specificità, diventa un barbaro irrazionale».
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Maurizio Blondet, non sospettabile di filo-nazismo anche se «marchiato» come tale da un certo istituto ebraico britannico, ha scritto nell'estate del 1993 un saggio per i caratteri della Effedieffe titolato "I Nuovi Barbari: gli Skinheads parlano". In esso ha inteso studiare il fenomeno skin e per come storicamente si è manifestato e per come si è andato esprimendo nella realtà sociale europea ed italiana. A me non interessa in questa sede analizzare i terreni delle «mode» e ricostruire i tempi ed i modi che hanno caratterizzato in senso «implosivo» l'emergere di una trasgressione che, partendo dalla voglia di provocare il puritanesimo anglosassone, è andata ad ancorarsi su posizioni politicizzate che richiamano i simboli e le ritualità delle Rivoluzioni nazionali europee del Novecento. Rimando -per questo- alla ricchezza ricostruttiva ed espositiva di Blondet e di quanti ancora hanno inteso studiare con gli strumenti concettuali della obiettività il fenomeno.
Ritengo, invece, che sia mio dovere ricordare ai «demonizzatori» di professione che gli Skinheads costituiscono una microrealtà che a buon diritto può essere definita «barbara». Laddove il «barbaro» -il «nuovo barbaro»- è l'individuo che sceglie liberamente di dare il «senso» che vuole alla propria vita, rifiutando il «senso» corrente che lo vorrebbe catturato dalla logica edonistica del far danaro, del consumare e del godere. Se poi, senza passato, va alla ricerca di una tradizione e cerca di dare all'esistenza un contenuto ed un «obbligo» sulla base di «valori» considerati arcaici del pensiero modernista che conformisticamente si adagia sull'omologazione degli uomini e delle coscienze, non vedo chi possa arrogarsi il diritto di definire la sua trasgressione «devianza» e di invitarlo ad andare a lavorare in «miniera». Chi -come il fan di "berretti verdi"- non ha mai lavorato e non è stato mai libero non può tranciare cialtroneschi giudizi su chi lavora -e lo skin lavora!- e su chi paga ogni giorno duri pedaggi per conservare intiera la sua libertà.
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Nella primavera del 1993 scrissi a Vittorio Feltri -allora direttore de "L'Indipendente"- una lettera in cui l'invitavo a prendere posizione sulla decretazione con cui Mancino andava a suggellare la sua attività di Ministro della Polizia del governo Amato. Ricordavo a Feltri come in un suo editoriale del 1992 avesse sostenuto -a proposito dei naziskin- che si andava evocando un Nuovo Nemico a colpi di mobilitazioni antirazziste. E gli ricordavo ancora come, in un articolo pubblicato sul giornale da lui diretto in data 2 dicembre 1992, Irene Pivetti avesse assunto una posizione di dura censura nei confronti del decreto, poi convertito in legge.
«Facciamola questa legge razziale e che preveda la pena capitale: tanto nel paese di Pulcinella -così scriveva la Pivetti- in servizio permanente effettivo, tutto si risolve in grandi pagliacciate. I cementificatori dell'Amazzonia, gli affamatori della Somalia, gli aguzzini della Palestina, i taglieggiatori di ogni latitudine si faranno anche questa risata».
Era il tempo in cui s'ingigantiva ad arte un improbabile ritorno del nazismo, troppo comodo per quanti avevano interesse a combattere la rediviva Germania in nome degli interessi mondialisti e, quindi, antieuropei; e troppo comodo, ancora, per quanti in Italia cercavano di creare ad ogni costo la notizia soffiando sul fuoco dell'antisemitismo «per far perdere di vista gli altri veri problemi del Paese».
Le stelle di David appiccicate sui negozi di alcuni ebrei romani rappresentarono, nell'immaginario mediale, l'equivalente criminale dei fuochi di Rostock. E tutti corsero in Sinagoga per chiedere perdono per le azioni «criminali» delle nostrane teste rasate. Scalfaro e Parisi per primi. Dimenticando che gli unici episodi di violenza che avevano turbato le piazze italiane erano ascrivibili all'«intemperanza» di elementi della comunità israelitica...
Ebbene, sostenevo nel mio scritto come certe operazioni «mediali» e repressive fossero intese a provocare comportamenti atti, poi, a giustificare e le restrizioni delle libertà individuali e politiche e -in nome di una presunta lesa democrazia- il richiamo alla solita «solidarietà nazionale». «Insomma -affermavo- lo Stato (e per esso i gruppi e le cosche che lo rappresentano) elabora alchemicamente strategie emergenziali per distrarre l'opinione pubblica dai problemi reali ed indirizzarne l'attenzione in direzione di suggestioni "eversive". Intossicazione e provocazione vengono, così, a costituire una miscela micidiale ed a preparare il terreno di coltura per le più scellerate operazioni dette «destabilizzanti» laddove, invece, sono dirette a stabilizzare, a conservare la conduzione affaristica del potere».
Naturalmente la mia lettera non venne pubblicata su "L'Indipendente". Altrettanto naturalmente la legge Mancino-Violante (e perché no Modigliani?) è divenuta operante. E già ci si accinge ad introdurre anche in Italia la legge che eleva a reato, passibile di reclusione, la negazione dell'Olocausto.
Ma si sa: il potere politico -sostiene Max Weber- per poter «governare fonda la propria forza sul «monopolio della violenza legittima». E quasi sempre la violenza «legale» spinge verso la controviolenza «illegale». E quando ciò accade il gioco è fatto.
 

Paolo Signorelli

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