I nuovi barbari
L'ultimo atto formale del governo Ciampi è consistito nella richiesta di
estradizione del «criminale nazista» Priebke formulata dal Ministro della
Giustizia Conso. Il primo atto del «nuovo» governo è stato compiuto dal Ministro
di Polizia Maroni che ha sospeso i responsabili dell'ordine pubblico di Vicenza
rei di aver consentito -in applicazione delle leggi dello Stato- una
manifestazione di Naziskin. Chi temeva lo «strappo» tra il vecchio ed il nuovo
dorma pure sonni tranquilli: la continuità ideale e politica è assicurata. Oggi
sulla pelle dei Nazi vecchi e nuovi, domani su quella di chiunque oserà
esprimere il proprio dissenso o tenterà soltanto di manifestare liberamente le
proprie idee. Ieri come oggi: naturalmente in nome della democrazia con la
benedizione della CEI.
D'altronde il garante della legge -l'ineffabile Vincenzo Parisi pesantemente
coinvolto in uno dei più vergognosi scandali di regime- ha subito inteso
rassicurare le sgomente popolazioni italiche affermando che in futuro «per
motivi di ordine pubblico non saranno consentiti cortei e manifestazioni
simboliche dello stesso tipo». I Nuovi Barbari sono avvertiti. «Loro», gli
orridi, che osano ricollegarsi alla tradizione demonizzata dei Fascismi europei
e che ne ostentano con orgoglio i simboli. «Loro», insomma, non hanno diritto di
asilo in una società dove sono di casa prosseneti, cialtroni, Giuda,
voltagabbana, ladri e assassini istituzionali, infami di ogni sorta.
«La nostra società sa, nella sua mala coscienza, di avere colpe innominabili; ma
è pronta ad autoassolversi dicendosi intoccata da ciò che ha convenuto definire
come il Male radicale». Il Fascismo, appunto. Di cui gli skin rappresentano
l'espressione più «angosciante», e, quindi, più «pericolosa». Naturalmente per
quanti -buoni borghesi o pseudo-ribelli di «sinistra»- si ispirano al mito
incapacitante del Progresso. Ed allora, dai al «diverso» che non accetta le
regole imposte e che ha la sfrontatezza di non nascondersi, di non mimetizzarsi,
di ostentare -anzi- orgogliosamente la sua «diversità» perché vuole essere
riconosciuto dal nemico.
«Il senso di adottare questo modo di vestire è politico: noi scegliamo come
linea politica di esporci al massimo e il significato del vestiario è appunto
questo: non potersi sottrarre. E, poi, chi si nasconde ha già perso».
Rozzezza, ingenuità? Certamente: ma ciò non sta a giustificare l'allarme
giornalistico e le misure poliziesche di cui gli skin sono fatti bersaglio.
Altra è la ragione che spinge a reprimere il fenomeno skin, peraltro
numericamente non inquietante. Ce lo ricordava con lucidità di analisi Fabio
Granata nell'articolo "Arrivano i mostri?" pubblicato sul n. 4 del luglio del
1992 di "Tabularasa". «La figura dello skinhead, mitizzata ed amplificata,
sostenuta dalle avvedute tesi di tanti intellettuali liberal angosciati dai
rischi per la democrazia, diventa -viene fatta diventare- archetipo del barbaro
distruttore, cosicché per sillogismo chiunque si pone contro la società
multirazziale e mondialista, distruttrice delle specificità, diventa un barbaro
irrazionale».
* * *
Maurizio Blondet, non sospettabile di filo-nazismo anche se «marchiato» come
tale da un certo istituto ebraico britannico, ha scritto nell'estate del 1993 un
saggio per i caratteri della Effedieffe titolato "I Nuovi Barbari: gli Skinheads
parlano". In esso ha inteso studiare il fenomeno skin e per come storicamente si
è manifestato e per come si è andato esprimendo nella realtà sociale europea ed
italiana. A me non interessa in questa sede analizzare i terreni delle «mode» e
ricostruire i tempi ed i modi che hanno caratterizzato in senso «implosivo»
l'emergere di una trasgressione che, partendo dalla voglia di provocare il
puritanesimo anglosassone, è andata ad ancorarsi su posizioni politicizzate che
richiamano i simboli e le ritualità delle Rivoluzioni nazionali europee del
Novecento. Rimando -per questo- alla ricchezza ricostruttiva ed espositiva di
Blondet e di quanti ancora hanno inteso studiare con gli strumenti concettuali
della obiettività il fenomeno.
Ritengo, invece, che sia mio dovere ricordare ai «demonizzatori» di professione
che gli Skinheads costituiscono una microrealtà che a buon diritto può essere
definita «barbara». Laddove il «barbaro» -il «nuovo barbaro»- è l'individuo che
sceglie liberamente di dare il «senso» che vuole alla propria vita, rifiutando
il «senso» corrente che lo vorrebbe catturato dalla logica edonistica del far
danaro, del consumare e del godere. Se poi, senza passato, va alla ricerca di
una tradizione e cerca di dare all'esistenza un contenuto ed un «obbligo» sulla
base di «valori» considerati arcaici del pensiero modernista che
conformisticamente si adagia sull'omologazione degli uomini e delle coscienze,
non vedo chi possa arrogarsi il diritto di definire la sua trasgressione
«devianza» e di invitarlo ad andare a lavorare in «miniera». Chi -come il fan di
"berretti verdi"- non ha mai lavorato e non è stato mai libero non può tranciare
cialtroneschi giudizi su chi lavora -e lo skin lavora!- e su chi paga ogni
giorno duri pedaggi per conservare intiera la sua libertà.
* * *
Nella primavera del 1993 scrissi a Vittorio Feltri -allora direttore de
"L'Indipendente"- una lettera in cui l'invitavo a prendere posizione sulla
decretazione con cui Mancino andava a suggellare la sua attività di Ministro
della Polizia del governo Amato. Ricordavo a Feltri come in un suo editoriale
del 1992 avesse sostenuto -a proposito dei naziskin- che si andava evocando un
Nuovo Nemico a colpi di mobilitazioni antirazziste. E gli ricordavo ancora come,
in un articolo pubblicato sul giornale da lui diretto in data 2 dicembre 1992,
Irene Pivetti avesse assunto una posizione di dura censura nei confronti del
decreto, poi convertito in legge.
«Facciamola questa legge razziale e che preveda la pena capitale: tanto nel
paese di Pulcinella -così scriveva la Pivetti- in servizio permanente effettivo,
tutto si risolve in grandi pagliacciate. I cementificatori dell'Amazzonia, gli
affamatori della Somalia, gli aguzzini della Palestina, i taglieggiatori di ogni
latitudine si faranno anche questa risata».
Era il tempo in cui s'ingigantiva ad arte un improbabile ritorno del nazismo,
troppo comodo per quanti avevano interesse a combattere la rediviva Germania in
nome degli interessi mondialisti e, quindi, antieuropei; e troppo comodo,
ancora, per quanti in Italia cercavano di creare ad ogni costo la notizia
soffiando sul fuoco dell'antisemitismo «per far perdere di vista gli altri veri
problemi del Paese».
Le stelle di David appiccicate sui negozi di alcuni ebrei romani
rappresentarono, nell'immaginario mediale, l'equivalente criminale dei fuochi di
Rostock. E tutti corsero in Sinagoga per chiedere perdono per le azioni
«criminali» delle nostrane teste rasate. Scalfaro e Parisi per primi.
Dimenticando che gli unici episodi di violenza che avevano turbato le piazze
italiane erano ascrivibili all'«intemperanza» di elementi della comunità
israelitica...
Ebbene, sostenevo nel mio scritto come certe operazioni «mediali» e repressive
fossero intese a provocare comportamenti atti, poi, a giustificare e le
restrizioni delle libertà individuali e politiche e -in nome di una presunta
lesa democrazia- il richiamo alla solita «solidarietà nazionale». «Insomma
-affermavo- lo Stato (e per esso i gruppi e le cosche che lo rappresentano)
elabora alchemicamente strategie emergenziali per distrarre l'opinione pubblica
dai problemi reali ed indirizzarne l'attenzione in direzione di suggestioni
"eversive". Intossicazione e provocazione vengono, così, a costituire una
miscela micidiale ed a preparare il terreno di coltura per le più scellerate
operazioni dette «destabilizzanti» laddove, invece, sono dirette a stabilizzare,
a conservare la conduzione affaristica del potere».
Naturalmente la mia lettera non venne pubblicata su "L'Indipendente".
Altrettanto naturalmente la legge Mancino-Violante (e perché no Modigliani?) è
divenuta operante. E già ci si accinge ad introdurre anche in Italia la legge
che eleva a reato, passibile di reclusione, la negazione dell'Olocausto.
Ma si sa: il potere politico -sostiene Max Weber- per poter «governare fonda la
propria forza sul «monopolio della violenza legittima». E quasi sempre la
violenza «legale» spinge verso la controviolenza «illegale». E quando ciò accade
il gioco è fatto.
Paolo
Signorelli
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