«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 5 - 15 Agosto 1994

 

Quella Francia amica del Fuhrer in un eccezionale affresco di Lucien Rebatet
Anche Marx e Lenin irruppero nella cultura
dei collaborazionisti di Parigi

 

Una forte curiosità intellettuale ci ha spesso spinti verso vicende, personaggi, culture di un mondo ormai sommerso negli abissi della storia: quello del collaborazionismo europeo scaturito dalla seconda guerra mondiale nel quadro di un rapporto non soltanto ideologico ma anche politico-partitico e, per certi versi militare, con l'Asse, e prevalentemente con la Germania. L'interesse nostro si è sviluppato soprattutto in direzione dei non pochi né irrilevanti uomini di pensiero, teorici, dottrinari e, insomma, «ingegneri d'anime» -definizione, questa, che prendiamo a prestito da Zdanov, il quale se ne serviva per indicare i formatori di intelletti e di coscienze in chiave marxista-leninista- che fra il '39 e il '45 costellarono il fenomeno collaborazionista nei paesi occupati dalle truppe non soltanto tedesche e italiane ma anche giapponesi, fruitrici di un collaborazionismo asiatico.
Indiscutibilmente la componente francese di questo filone di consenso attivo all'ideologia dell'«Ordine Nuovo» fu quella più culturalmente e dottrinariamente ricca, rappresentata da scrittori, poeti, pensatori, giornalisti di grande notorietà. In Italia se ne è recentemente occupato un saggista dal notevole spessore analitico, specialista di letteratura francese, con una ricerca caratterizzata da un significativo tasso di originalità e fondata su di un rilevante lavoro di documentazione, di scavo, di approfondimento. Costui è Moreno Marchi, autore di "Con il sangue e con l'inchiostro - Scrittori collaborazionisti nella Francia occupata", licenziato alle stampe per i tipi della Editrice «Settimo Sigillo» di Roma nel 1993. Lo stesso editore ha voluto recentemente ristampare un testo di Lucien Rebatet, celebre capofila del collaborazionismo intellettuale francese, "Memorie di un fascista (1941-1947)", che si giova della traduzione e della prefazione del Marchi, oggi evidentemente il più autorevole studioso di quella corrente di letterati e polemisti militanti, tragicamente travolta da una sanguinosa tempesta di odio, di sconfitta, di contraddizioni, di illusioni.
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Del saggio di Moreno Marchi ci occupammo mesi or sono in queste stesse pagine sostenendo la tesi dell'esistenza di un «fascino indiscreto della Sinistra» nella cultura e nella psicologia degli intellettuali collabos di Parigi. Ebbene, riteniamo che il nostro asserto trovi conferma non soltanto, e scontatamente, nell'avvio prefativo di Marchi, ma in vari luoghi dell'opera rebateniana di cui verremo discorrendo. E che il «fascino» di cui testé si diceva abbia, levianamente, «un cuore antico» è dimostrato primieriamente da questo rapido brano che espungiamo dalla prefazione, illustrativo dell'input all'origine del trasferimento del Rebatet nell'arena di una militanza totalizzante, con una decisione che lo porterà lontano. Tanto, certamente troppo.
Dice, dunque, Moreno Marchi: «II vero trapasso dalla critica musicale, cinematografica ed artistica (mai comunque tralasciata) al diretto, concreto impegno politico avverrà per Rebatet, come per tanti altri intellettuali dell'epoca, proprio con i famosi, drammatici avvenimenti del 6 febbraio 1934, quando la Parigi della ripulsa e del diniego verso l'incapace, corrotta classe politica al potere, decise di scendere in piazza. Ed in Place de la Concorde, dove peraltro rimasero alfine morti e feriti, si trovarono per la prima volta accomunati fascisti e comunisti, animati dalla medesima rabbia, dal medesimo desiderio di cambiamento». Tutto, però, si risolse in una bolla di sapone: «Le speranze da molti riposte in una possibile unione degli estremi, alfine di mutare in modo radicale l'assetto politico, e quindi sociale, morale e via di seguito, del paese, non si concretò. Comunisti e fascisti lottarono a fianco a fianco contro il comune, odiato nemico, ma trincerandosi poi ognuno dietro le proprie insormontabili, paralizzanti barriere ideologiche».
Ma veniamo al periodo dell'occupazione tedesca, politicamente e culturalmente segnato dall'aggregarsi di una significativa minoranza nemica del gollismo orientato dal suo capo riparato a Londra e successivamente delle formazioni partigiane dell'interno, nonché notevolmente e vertenzialmente differenziata dal collaborazionismo pétainista -puramente armistiziale, amministrativo, empiricamente attendista- di Vichy. I collabos di Parigi, molto frammentati in partitini, raggruppamenti, quotidiani, periodici, ambienti, circoli, conventicole, personalità dall'indirizzo propositivo il più vario, erano tuttavia accomunati da una evidente caratura ideologica e militante. Soprattutto, dalla ferrea determinazione di premere sull'opinione pubblica e sul governo, magari partecipandovi o addirittura impadronendosene, onde portare una Francia integralmente fascistizzata nel campo dell'Asse e del Tripartito. Vedremo, poi, come questo vero o presunto «fascismo» gallico -in realtà più vicino al nazionalsocialismo hitleriano, ad onta di continue puntualizzazioni in chiave di «latinità»- significasse cose diverse a seconda di chi lo illustrasse e come. Una diversità, va da sé, non di rado sfociante in conflittualità, in contrapposizione, in avversione personale, in vera e propria incompatibilità anche umana.
È il caso di Lucien Rebatet, che non riusciva a sopportare il famoso Jacques Doriot, fondatore e capo del Parti Populaire Francaise. Vediamo cosa scrive a proposito di costui: «Non comprendevo la sinuosità di Jacques Doriot, il suo miscuglio di calcoli machiavellici e di dialettica marxista, alla quale era stato educato e che gli era rimasta appiccicata addosso... Non aveva ben resistito alle moine della destra borghese. Sarebbe stato più utile se fosse rimasto comunista antirusso. Diviso sulla questione di Monaco, il suo declinante partito era stato salvato solo dalla disfatta militare».
Ed ecco una annotazione di costume parecchio pesante, scagliata come un dardo intriso nel sarcasmo e nel disprezzo: «Altrettanto non apprezzavo lo stile di vita del grande Jacques, le notti trascorse al Lido, dopo lo spettacolo, ad ingurgitare cattivo champagne confabulando a lungo e contortamente. Senza dubbio egli ambiva ad un potere unico, ricevuto dalle mani di Pétain, con l'appoggio dei generali tedeschi, ovvero una pura chimera».
Non una personalità della politica, questo Doriot descritto da Rebatet, ma un figuro del sottobosco politico, e dirigente del movimento operaio e comunista internazionale -era stato segretario del Comintern giovanile, sindaco rosso di Saint Denis, deputato e fra i massimi esponenti del PCF- che si fa blandire dalla borghesia, si concede ai più decadenti modelli di vita della classe dominante, affida la sua carriera politica alla prepotenza della potenza e anzi superpotenza occupante. Eppure, anche in questo aborto morale -se tale veramente è; se veramente è privo di ogni capacità di recupero, di ogni idoneità al riscatto- entra il fascino indiscreto della Sinistra, con quel tanto di dialettica marxista «che gli è rimasta appiccicata addosso».
Certo, ha ragione Rebatet: sarebbe stato più utile se fosse rimasto comunista antirusso, comunista nazionale, come nel secondo dopoguerra lo saranno di volta in volta -per i più vari motivi, in circostanze storiche le più diverse, fondando il proprio indipendentismo su intuizioni ed elaborazioni ideologiche le più diverse-, gli jugoslavi, i cinesi, gli albanesi, i rumeni, i cecoslovacchi della «Primavera», etc. Più utile, indiscutibilmente. Ma utile a chi? Noi diciamo: alla causa della classe operaia, delle masse popolari, della rivoluzione socialista, della Nazione francese nel suo insieme. Pensò la stessa cosa Rebatet? È lecito dubitarne. E molto. Egli, tuttavia, giace in un sepolcro dagli ultimi giorni dell'agosto del 1972 e nessuno è autorizzato a parlare in suo nome...
Naturalmente l'antipatia di Rebatet è cordialmente ricambiata da Doriot, che gli rende pan per focaccia allorché, nel '42, esce "Les Decombres", definita da Moreno Marchi «una delle opere-chiavi del collaborazionismo francese». Il volume ottiene un lusinghiero successo di critica e di pubblico, soprattutto perché viene in evidenza come una catilinaria contro un regime che ha portato la Francia alla disfatta militare, alla occupazione, alla soglia della disintegrazione. Ma a tale ottima riuscita colui che andrà a combattere contro l'URSS indossando l'uniforme tedesca e prestando giuramento di fedeltà a Hitler non ha cooperato. Perché? Vediamo cosa ce ne dice l'interessato: «Assoggettati a Vichy, i giornali della "zona libera" furono evidentemente meno caldi, alcuni si scandalizzarono. Nella "zona nord" constati reticenze solo negli organi di stampa doriotisti, in quanto nell'ultima pagina del mio libro non avevo reclamato la presidenza del Consiglio per il grande Jacques. (Molto tempo dopo un imbecille mi venne a chiedere se rispondesse a verità che l'autore di "Les Decombres" fosse Doriot e che io gli avessi rubato il manoscritto nel suo ufficio per pubblicarlo a mio nome. Facendomi poi condannare a morte per sostenere un'impostura!)». Come si vede, il Doriot esce a pezzi da queste memorie.
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Lucien Rebatet era un indipendente per vocazione, e nessun stimolo lo spingeva in direzione di una carriera politica. L'arma che solitariamente brandiva per affermare le sue idee -certo discutibili e tali da lasciare perplesso perfino sé stesso, talvolta, di fronte alle dure repliche della realtà- era la penna, spesso e soprattutto volentieri adoperata per scrivere pezzi al calor bianco sul "Je suis partout". Tuttavia indipendenza e relativo distacco dalla militanza organizzata, non gli impedivano di seguire partecipativamente i problemi della sua area. Per esempio, quello della unità in un «Fronte» di tutte le aggregazioni collaborazioniste, iniziativa caldeggiata e promossa da un altro celebre paladino della intesa franco-tedesca: Marcel Déat. Ma anche qui il Doriot non si perita di mettere i bastoni fra le ruote.
Vediamo: «II fine di questo "Fronte" era quanto mai ragionevole: raggruppare i partiti della collaborazione, che già piccoli si ostinavano a rimanere fra loro isolati, quando addirittura non si avversavano, avendo ereditato dalla vecchia destra questa fatale tendenza alla divisione. Affinchè però un simile tentativo giungesse a buon fine sarebbe stata necessaria l'adesione di Doriot. Costui persisteva invece a far capitolo a sé, mirando a conquistare da Laval un potere che non avrebbe diviso con alcuno. Mire chimeriche di un politicante tuttavia intelligente, ma che impostava tutte le sue combinazioni su un fondo di ingenuità. Egli si era limitato a delegare uno dei suoi luogotenenti, Barthélemy, personaggio obliquo e laconico da cui niente era possibile trarre».
Si sappia che «il fascino indiscreto della Sinistra» non si diffonde solo fra gli intellettuali e i capi politici della Collaborazione, ma anche fra la base. Rebatet ne fa cenno nel descrivere l'esodo dei collabos da Parigi mentre Alleati, gollisti e maquisards si accingono ad entrarvi. Ecco: «Il contenuto del nostro camion è eteroclito. Con Henry Lebre, pieno di flemma, sono l'unico giornalista. Il grosso è formato da donne, proletarie di Doriot che non hanno perso l'accento, l'aria del Fronte Popolare e che guardano Véronique di traverso perché si è portata dietro la sua pelliccia e se ne sta prendendo cura. Il nostro mal comune, di cui queste gagliardi non sembrano tuttavia molto coscienti, non darà luogo a fraternità». Véronique è la moglie dello scrittore.
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Rebatet tanto stima Déat quanto disprezza Doriot. Accenna di lui o vi si diffonde nelle sue pagine con accenti encomiastici e contenuti lusinghieri. Diversamente dall'ex sindaco di Saint Denis che lo odia, reputandolo un forte concorrente nella leadership della Collaborazione e di una Francia impegnata nella linea del «Nuovo Ordine Europeo». In occasione della cerimonia agli Invalides del 15 dicembre '40 per il ritorno delle ceneri dell'Aquilotto (il figlio di Napoleone I) -«romantico gesto del Führer. Una bella e sobria cerimonia, alla luce delle fiaccole, di un ordine impeccabile, ma fallita in quanto il Maresciallo, che vi avrebbe dovuto partecipare, alla vigilia si era prestato ad un complotto reazionario e filo inglese, facendo così arrestare Pierre Laval»-, il memorialista ha la prova provata della inimicizia di Doriot per Lavai e Déat, due macigni che, secondo lui, gli ostruiscono la via che mena al potere.
Seguiamolo: «Con mia enorme sorpresa Doriot invece esultava: "Eccoci sbarazzati di quel mezzano di Laval. Adesso possiamo lavorare". Poi girava i suoi occhiali verso Marcel Déat, solo sotto una torciera vestito di nero, sul volto un sorriso contratto dall'ironia: "Ve n'è ancora uno da mettere sotto chiavistello: è questa carognetta. Meno male che non andrà per le lunghe". Non vi capivo più nulla, salvo di non aver più nessun punto in comune con quell'uomo, con le sue astute manovre, con il suo ingenuo pensiero. Probabilmente Doriot aspettava che da un momento all'altro il club dei grossi borghesi di Vichy gli offrisse un portafoglio o addirittura la presidenza del Consiglio».
Si noti come anche nella prosa rebatetiana affiorino locuzioni tipiche del linguaggio della sinistra estrema, come «complotto reazionario» e «club dei grossi borghesi». Il che non gli vieta, peraltro, di contraddittoriamente criticare i prodotti del «fascino indiscreto della Sinistra» emergenti nell'ambito doriotista: «II disordine, la promiscuità del Cri du Peuple, gli scritti dei suoi sindacalisti altrettanto gergali e pesanti di quelli de "L'Humanité" mi davano sui nervi. Visto che le intenzioni del capo mi stavano divenendo inintelligibili, non sapevo più cosa scrivere nella mia rubrica di politica interna».
Sì, Rebatet era un collaboratore di questo foglio-figlio di Jacques Doriot -nelle cui colonne aveva lanciato il termine gollista, destinato a sostituire in tutto il mondo e presso tutte le famiglie politiche il fino allora in uso degollista-, ma in preda all'ira per le meschinità del capo del PPF si era rifiutato di occuparsi ancora di politica interna accettando solo, su pressione del capo redattore Henry Lebre, di conservare la rubrica di politica drammaturgica.
Ma se Rebatet rilutterà sempre a prendere una tessera non mancherà tuttavia di fare riferimento, sia pure in modo implicito e indiretto, a un'area. Manco a dirlo, quella déatista.
Vediamo: «Era a Marcel Déat che andavo sentendomi più vicino. A mio giudizio, questo ex socialista aveva la più solida testa fascista di tutta Parigi... Ogni mattina assaporavo su "L'Oeuvre" il suo inflessibile, colorito, mordente editoriale ...».
Ed ecco, in veloce sintesi, i tratti caratterizzanti del pensiero di un intellettuale collabo che fino al '37, da socialista revisionista, fu una delle firme di Giustizia e Libertà e dei Quaderni di Giustizia e Libertà particolarmente cara a Carlo Rosselli, unitamente a quella di un altro celebre intellettuale e ministro collabo, Paul Marion: «Vi riscontrava la carta completa di uno Stato davvero nuovo, il partito unico, il rovesciamento delle vecchie oligarchie economiche, militari, clericali, la fede nella costruzione di una Europa unita ed al contempo la più pertinente decorticazione dei vuoti slogan di Vichy: Famiglia, Lavoro, Patria, Spiritualità».
Poi qualche nota caratteriale e morale in positivo: «Ma se poco Déat si profondeva, ancor meno si legava. Benché fosse stato ministro, continuava a vivere con grande semplicità, come un professore liceale di provincia, con sua moglie, la sua vasta biblioteca completa di tutti i filosofi, da Empedocle a Martin Heidegger. Il mio passaggio fra i doriotisti, i quali in ogni occasione ricordavano come egli fosse stato conferenziere massone, non era inoltre indicato per farmi entrare nella sua intimità!». Dove par di capire che questo di Rebatet per Déat fu un amore non corrisposto. D'altra parte, egli viveva un'altra sua contraddizione: biasimava e disprezzava Doriot ma editava sui suoi giornali e, sia pure senza vincoli di affiliazione, quanto meno dava la sensazione di fare riferimento alla sua sfera ideale e operativa.
Malgrado la cura posta nel mantenere le distanze, Déat invita lo scrittore a partecipare alla manifestazione inaugurativa del «Fronte» di cui abbiamo testé parlato: il «Fronte Rivoluzionario Nazionale». Come detto, fu un fallimento provocato da un pasticcio: la pretesa di attirare Doriot in una organizzazione ideata da un doppio ex, Barbe, agitatore già comunista e poi doriotista, quindi, sponsorizzata da Déat -personaggio visto dal condottiero del PPF e dai suoi come il fumo negli occhi- e dal déatista «Raggruppamento Nazionale Popolare», definito dal suo leader «la sinistra della Collaborazione». Al Vel' d'Hiv, in un locale per metà vuoto e sotto lo sguardo benevolo del Déat che presiede, succede questo che brevemente ci dice Rebatet: «Barbe eruttò ad ogni modo un pistolotto rivoluzionario di puro stile leninista, come per lanciare all'assalto -ma da che ?- centomila insorti brandenti le armi. Facoltà d'illusione che mancò di fare il suo effetto». Qui il memorialista ironizza sull'allocuzione del bino transfuga, ma il documento che ci lascia resta prezioso in quanto ancor più corrobora quel «fascino indiscreto della Sinistra» in qualche modo operativo nella cultura e nella polemica del collaborazionismo francese. Il quale, però, entra violentemente e astrattamente in contraddizione con sé medesimo allorché ritiene di dovere e potere affermare la sua rivoluzione sociale scagliandosi fanaticamente contro la Sinistra, che chiameremo «normale», invece di cercare con essa un rapporto di confronto, di dialogo, di distensione, di alleanza. Il che, oggettivamente, la pone alla mercé dell'occupante, che, come ben si evince sia dal testo di Rebatet come da quelli di altri intellettuali collabos nulla fan, non diremo per dar corpo alle loro speranze «socialiste» o solo per metterli a proprio agio nei confronti della loro Nazione. La quale, via via che la vittoria arride alle armi delle democrazie e dell'URSS, sempre più estesamente e intensamente li taccia di tradimento e promette punizioni destinate tragicamente ad avverarsi in una misura ampiamente superiore a quanto dolorosamente previsto. Comunque, sembra essere destino insuperabile della sinistra nazionalpopulista, della sinistra fascista, essere callidamente strumentalizzata dalla destra reazionaria per portare la guerra civile all'interno della complessiva area delle forze rivoluzionarie. Sarà possibile rovesciare tale tendenza?
Ma il Rebatet che se la ride delle schegge di marxismo-leninismo del Barbe e ne banalizza il discorso alla platea semipiena-semivuota dove si favoleggia di un blocco unitario e ferrigno del gallo-collaborazionismo, è contagiato o no dal «fascino» di cui veniamo discorrendo? Sì, ma in modo, diremmo, piuttosto sgangherato e caotico, come, del resto, si conviene ad uno scrittore interessante e robusto ma dalla scarsa dimestichezza con la riflessione teorica e, tutto sommato, condizionato da impulsi al tempo stesso autoritari e anarcoidi. Ancora a lui la parola: «La strada si sarebbe trovata infine aperta alla vera rivoluzione europea, che poi fosse stata fascista o nazionalsocialista avrebbe costituito una definizione di poco conto. Sì, ritrovavo l'entusiasmo per prendere parte a questo enorme finimondo. Lo si poteva leggere in filigrana negli editoriali in cui abbozzavo alcuni programmi sociali, in cui mi scagliavo contro il grande capitalismo, le nazioni ricche conducenti una guerra di sterminio contro i regimi popolari. Univo la mia voce a quella dei socialisti tedeschi aderenti a Hitler. Sempre più mi schieravo all'estrema sinistra della Collaborazione, mia legittima collocazione. Anticristiano e anticlericale da sempre, antimilitarista da quando avevo visto da vicino i cervelli dell'esercito all'opera, ed intento a scrivere un libro in cui polverizzavo tutti i valori borghesi, ero stato fin'allora fuorviato dalla vecchia destra, come ben dimostrava il mio ritratto de "L'Action Frangaise" su "Les Décombres". Continuavo a ripetermi che, compromessi o no all'Est, "la storia non finisce mai" e che nel rigore degli accadimenti una falla si sarebbe pur prodotta».
Ma la «falla», almeno quella vagheggiata da Lucien Rebatet, ancora la si sta aspettando dopo esattamente mezzo secolo. E ancora si aspetterà molto, moltissimo, e veramente, perché le «falle» non si «producono» per opera e virtù dello Spirito Santo, ma sono il frutto del lavoro culturale e politico, ideologico e organizzativo, dei rivoluzionari -dei rivoluzionari, diciamo, e non degli eversori, degli estremisti, dei massimalisti, rossi o neri che siano- considerati nel loro insieme. Ma finché i cosiddetti «nazional-rivoluzionari» o «nazional-popolari» altro non faranno, ne abbiano coscienza o meno, che assolvere al compito di portare l'attacco alla Sinistra tradizionale, alle forze storiche del movimento operaio, ad essi commesso dal grande capitale monopolistico, dalle multinazionali, le «falle» si apriranno non nello schieramento borghese ma nel fronte proletario. Con buona pace dei Rebatet passati, presenti e futuri.
 

Enrico Landolfi

 

Lucien Rebatet, "Memorie di un fascista (1941-1947)", a cura di Moreno Marchi,
Edizioni «Settimo Sigillo», Roma, pp. 230, Lire 32.000

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