Quella Francia
amica del Fuhrer in un eccezionale affresco di Lucien Rebatet
Anche Marx e Lenin
irruppero nella cultura
dei collaborazionisti di Parigi
Una forte curiosità
intellettuale ci ha spesso spinti verso vicende, personaggi, culture di un mondo
ormai sommerso negli abissi della storia: quello del collaborazionismo europeo
scaturito dalla seconda guerra mondiale nel quadro di un rapporto non soltanto
ideologico ma anche politico-partitico e, per certi versi militare, con l'Asse,
e prevalentemente con la Germania. L'interesse nostro si è sviluppato
soprattutto in direzione dei non pochi né irrilevanti uomini di pensiero,
teorici, dottrinari e, insomma, «ingegneri d'anime» -definizione, questa, che
prendiamo a prestito da Zdanov, il quale se ne serviva per indicare i formatori
di intelletti e di coscienze in chiave marxista-leninista- che fra il '39 e il
'45 costellarono il fenomeno collaborazionista nei paesi occupati dalle truppe
non soltanto tedesche e italiane ma anche giapponesi, fruitrici di un
collaborazionismo asiatico.
Indiscutibilmente la componente francese di questo filone di consenso attivo
all'ideologia dell'«Ordine Nuovo» fu quella più culturalmente e dottrinariamente
ricca, rappresentata da scrittori, poeti, pensatori, giornalisti di grande
notorietà. In Italia se ne è recentemente occupato un saggista dal notevole
spessore analitico, specialista di letteratura francese, con una ricerca
caratterizzata da un significativo tasso di originalità e fondata su di un
rilevante lavoro di documentazione, di scavo, di approfondimento. Costui è
Moreno Marchi, autore di "Con il sangue e con l'inchiostro - Scrittori
collaborazionisti nella Francia occupata", licenziato alle stampe per i tipi
della Editrice «Settimo Sigillo» di Roma nel 1993. Lo stesso editore ha voluto
recentemente ristampare un testo di Lucien Rebatet, celebre capofila del
collaborazionismo intellettuale francese, "Memorie di un fascista (1941-1947)",
che si giova della traduzione e della prefazione del Marchi, oggi evidentemente
il più autorevole studioso di quella corrente di letterati e polemisti
militanti, tragicamente travolta da una sanguinosa tempesta di odio, di
sconfitta, di contraddizioni, di illusioni.
* * *
Del saggio di Moreno Marchi ci occupammo mesi or sono in queste stesse pagine
sostenendo la tesi dell'esistenza di un «fascino indiscreto della Sinistra»
nella cultura e nella psicologia degli intellettuali collabos di Parigi. Ebbene,
riteniamo che il nostro asserto trovi conferma non soltanto, e scontatamente,
nell'avvio prefativo di Marchi, ma in vari luoghi dell'opera rebateniana di cui
verremo discorrendo. E che il «fascino» di cui testé si diceva abbia,
levianamente, «un cuore antico» è dimostrato primieriamente da questo rapido
brano che espungiamo dalla prefazione, illustrativo dell'input all'origine del
trasferimento del Rebatet nell'arena di una militanza totalizzante, con una
decisione che lo porterà lontano. Tanto, certamente troppo.
Dice, dunque, Moreno Marchi: «II vero trapasso dalla critica musicale,
cinematografica ed artistica (mai comunque tralasciata) al diretto, concreto
impegno politico avverrà per Rebatet, come per tanti altri intellettuali
dell'epoca, proprio con i famosi, drammatici avvenimenti del 6 febbraio 1934,
quando la Parigi della ripulsa e del diniego verso l'incapace, corrotta classe
politica al potere, decise di scendere in piazza. Ed in Place de la Concorde,
dove peraltro rimasero alfine morti e feriti, si trovarono per la prima volta
accomunati fascisti e comunisti, animati dalla medesima rabbia, dal medesimo
desiderio di cambiamento». Tutto, però, si risolse in una bolla di sapone: «Le
speranze da molti riposte in una possibile unione degli estremi, alfine di
mutare in modo radicale l'assetto politico, e quindi sociale, morale e via di
seguito, del paese, non si concretò. Comunisti e fascisti lottarono a fianco a
fianco contro il comune, odiato nemico, ma trincerandosi poi ognuno dietro le
proprie insormontabili, paralizzanti barriere ideologiche».
Ma veniamo al periodo dell'occupazione tedesca, politicamente e culturalmente
segnato dall'aggregarsi di una significativa minoranza nemica del gollismo
orientato dal suo capo riparato a Londra e successivamente delle formazioni
partigiane dell'interno, nonché notevolmente e vertenzialmente differenziata dal
collaborazionismo pétainista -puramente armistiziale, amministrativo,
empiricamente attendista- di Vichy. I collabos di Parigi, molto frammentati in
partitini, raggruppamenti, quotidiani, periodici, ambienti, circoli,
conventicole, personalità dall'indirizzo propositivo il più vario, erano
tuttavia accomunati da una evidente caratura ideologica e militante.
Soprattutto, dalla ferrea determinazione di premere sull'opinione pubblica e sul
governo, magari partecipandovi o addirittura impadronendosene, onde portare una
Francia integralmente fascistizzata nel campo dell'Asse e del Tripartito.
Vedremo, poi, come questo vero o presunto «fascismo» gallico -in realtà più
vicino al nazionalsocialismo hitleriano, ad onta di continue puntualizzazioni in
chiave di «latinità»- significasse cose diverse a seconda di chi lo illustrasse
e come. Una diversità, va da sé, non di rado sfociante in conflittualità, in
contrapposizione, in avversione personale, in vera e propria incompatibilità
anche umana.
È il caso di Lucien Rebatet, che non riusciva a sopportare il famoso Jacques
Doriot, fondatore e capo del Parti Populaire Francaise. Vediamo cosa scrive a
proposito di costui: «Non comprendevo la sinuosità di Jacques Doriot, il suo
miscuglio di calcoli machiavellici e di dialettica marxista, alla quale era
stato educato e che gli era rimasta appiccicata addosso... Non aveva ben
resistito alle moine della destra borghese. Sarebbe stato più utile se fosse
rimasto comunista antirusso. Diviso sulla questione di Monaco, il suo declinante
partito era stato salvato solo dalla disfatta militare».
Ed ecco una annotazione di costume parecchio pesante, scagliata come un dardo
intriso nel sarcasmo e nel disprezzo: «Altrettanto non apprezzavo lo stile di
vita del grande Jacques, le notti trascorse al Lido, dopo lo spettacolo, ad
ingurgitare cattivo champagne confabulando a lungo e contortamente. Senza dubbio
egli ambiva ad un potere unico, ricevuto dalle mani di Pétain, con l'appoggio
dei generali tedeschi, ovvero una pura chimera».
Non una personalità della politica, questo Doriot descritto da Rebatet, ma un
figuro del sottobosco politico, e dirigente del movimento operaio e comunista
internazionale -era stato segretario del Comintern giovanile, sindaco rosso di
Saint Denis, deputato e fra i massimi esponenti del PCF- che si fa blandire
dalla borghesia, si concede ai più decadenti modelli di vita della classe
dominante, affida la sua carriera politica alla prepotenza della potenza e anzi
superpotenza occupante. Eppure, anche in questo aborto morale -se tale veramente
è; se veramente è privo di ogni capacità di recupero, di ogni idoneità al
riscatto- entra il fascino indiscreto della Sinistra, con quel tanto di
dialettica marxista «che gli è rimasta appiccicata addosso».
Certo, ha ragione Rebatet: sarebbe stato più utile se fosse rimasto comunista
antirusso, comunista nazionale, come nel secondo dopoguerra lo saranno di volta
in volta -per i più vari motivi, in circostanze storiche le più diverse,
fondando il proprio indipendentismo su intuizioni ed elaborazioni ideologiche le
più diverse-, gli jugoslavi, i cinesi, gli albanesi, i rumeni, i cecoslovacchi
della «Primavera», etc. Più utile, indiscutibilmente. Ma utile a chi? Noi
diciamo: alla causa della classe operaia, delle masse popolari, della
rivoluzione socialista, della Nazione francese nel suo insieme. Pensò la stessa
cosa Rebatet? È lecito dubitarne. E molto. Egli, tuttavia, giace in un sepolcro
dagli ultimi giorni dell'agosto del 1972 e nessuno è autorizzato a parlare in
suo nome...
Naturalmente l'antipatia di Rebatet è cordialmente ricambiata da Doriot, che gli
rende pan per focaccia allorché, nel '42, esce "Les Decombres", definita da
Moreno Marchi «una delle opere-chiavi del collaborazionismo francese». Il volume
ottiene un lusinghiero successo di critica e di pubblico, soprattutto perché
viene in evidenza come una catilinaria contro un regime che ha portato la
Francia alla disfatta militare, alla occupazione, alla soglia della
disintegrazione. Ma a tale ottima riuscita colui che andrà a combattere contro
l'URSS indossando l'uniforme tedesca e prestando giuramento di fedeltà a Hitler
non ha cooperato. Perché? Vediamo cosa ce ne dice l'interessato: «Assoggettati a
Vichy, i giornali della "zona libera" furono evidentemente meno caldi, alcuni si
scandalizzarono. Nella "zona nord" constati reticenze solo negli organi di
stampa doriotisti, in quanto nell'ultima pagina del mio libro non avevo
reclamato la presidenza del Consiglio per il grande Jacques. (Molto tempo dopo
un imbecille mi venne a chiedere se rispondesse a verità che l'autore di "Les
Decombres" fosse Doriot e che io gli avessi rubato il manoscritto nel suo
ufficio per pubblicarlo a mio nome. Facendomi poi condannare a morte per
sostenere un'impostura!)». Come si vede, il Doriot esce a pezzi da queste
memorie.
* * *
Lucien Rebatet era un indipendente per vocazione, e nessun stimolo lo spingeva
in direzione di una carriera politica. L'arma che solitariamente brandiva per
affermare le sue idee -certo discutibili e tali da lasciare perplesso perfino sé
stesso, talvolta, di fronte alle dure repliche della realtà- era la penna,
spesso e soprattutto volentieri adoperata per scrivere pezzi al calor bianco sul
"Je suis partout". Tuttavia indipendenza e relativo distacco dalla militanza
organizzata, non gli impedivano di seguire partecipativamente i problemi della
sua area. Per esempio, quello della unità in un «Fronte» di tutte le
aggregazioni collaborazioniste, iniziativa caldeggiata e promossa da un altro
celebre paladino della intesa franco-tedesca: Marcel Déat. Ma anche qui il
Doriot non si perita di mettere i bastoni fra le ruote.
Vediamo: «II fine di questo "Fronte" era quanto mai ragionevole: raggruppare i
partiti della collaborazione, che già piccoli si ostinavano a rimanere fra loro
isolati, quando addirittura non si avversavano, avendo ereditato dalla vecchia
destra questa fatale tendenza alla divisione. Affinchè però un simile tentativo
giungesse a buon fine sarebbe stata necessaria l'adesione di Doriot. Costui
persisteva invece a far capitolo a sé, mirando a conquistare da Laval un potere
che non avrebbe diviso con alcuno. Mire chimeriche di un politicante tuttavia
intelligente, ma che impostava tutte le sue combinazioni su un fondo di
ingenuità. Egli si era limitato a delegare uno dei suoi luogotenenti, Barthélemy,
personaggio obliquo e laconico da cui niente era possibile trarre».
Si sappia che «il fascino indiscreto della Sinistra» non si diffonde solo fra
gli intellettuali e i capi politici della Collaborazione, ma anche fra la base.
Rebatet ne fa cenno nel descrivere l'esodo dei collabos da Parigi mentre
Alleati, gollisti e maquisards si accingono ad entrarvi. Ecco: «Il contenuto del
nostro camion è eteroclito. Con Henry Lebre, pieno di flemma, sono l'unico
giornalista. Il grosso è formato da donne, proletarie di Doriot che non hanno
perso l'accento, l'aria del Fronte Popolare e che guardano Véronique di traverso
perché si è portata dietro la sua pelliccia e se ne sta prendendo cura. Il
nostro mal comune, di cui queste gagliardi non sembrano tuttavia molto
coscienti, non darà luogo a fraternità». Véronique è la moglie dello scrittore.
* * *
Rebatet tanto stima Déat quanto disprezza Doriot. Accenna di lui o vi si
diffonde nelle sue pagine con accenti encomiastici e contenuti lusinghieri.
Diversamente dall'ex sindaco di Saint Denis che lo odia, reputandolo un forte
concorrente nella leadership della Collaborazione e di una Francia impegnata
nella linea del «Nuovo Ordine Europeo». In occasione della cerimonia agli
Invalides del 15 dicembre '40 per il ritorno delle ceneri dell'Aquilotto (il
figlio di Napoleone I) -«romantico gesto del Führer. Una bella e sobria
cerimonia, alla luce delle fiaccole, di un ordine impeccabile, ma fallita in
quanto il Maresciallo, che vi avrebbe dovuto partecipare, alla vigilia si era
prestato ad un complotto reazionario e filo inglese, facendo così arrestare
Pierre Laval»-, il memorialista ha la prova provata della inimicizia di Doriot
per Lavai e Déat, due macigni che, secondo lui, gli ostruiscono la via che mena
al potere.
Seguiamolo: «Con mia enorme sorpresa Doriot invece esultava: "Eccoci sbarazzati
di quel mezzano di Laval. Adesso possiamo lavorare". Poi girava i suoi occhiali
verso Marcel Déat, solo sotto una torciera vestito di nero, sul volto un sorriso
contratto dall'ironia: "Ve n'è ancora uno da mettere sotto chiavistello: è
questa carognetta. Meno male che non andrà per le lunghe". Non vi capivo più
nulla, salvo di non aver più nessun punto in comune con quell'uomo, con le sue
astute manovre, con il suo ingenuo pensiero. Probabilmente Doriot aspettava che
da un momento all'altro il club dei grossi borghesi di Vichy gli offrisse un
portafoglio o addirittura la presidenza del Consiglio».
Si noti come anche nella prosa rebatetiana affiorino locuzioni tipiche del
linguaggio della sinistra estrema, come «complotto reazionario» e «club dei
grossi borghesi». Il che non gli vieta, peraltro, di contraddittoriamente
criticare i prodotti del «fascino indiscreto della Sinistra» emergenti
nell'ambito doriotista: «II disordine, la promiscuità del Cri du Peuple, gli
scritti dei suoi sindacalisti altrettanto gergali e pesanti di quelli de "L'Humanité"
mi davano sui nervi. Visto che le intenzioni del capo mi stavano divenendo
inintelligibili, non sapevo più cosa scrivere nella mia rubrica di politica
interna».
Sì, Rebatet era un collaboratore di questo foglio-figlio di Jacques Doriot
-nelle cui colonne aveva lanciato il termine gollista, destinato a sostituire in
tutto il mondo e presso tutte le famiglie politiche il fino allora in uso
degollista-, ma in preda all'ira per le meschinità del capo del PPF si era
rifiutato di occuparsi ancora di politica interna accettando solo, su pressione
del capo redattore Henry Lebre, di conservare la rubrica di politica
drammaturgica.
Ma se Rebatet rilutterà sempre a prendere una tessera non mancherà tuttavia di
fare riferimento, sia pure in modo implicito e indiretto, a un'area. Manco a
dirlo, quella déatista.
Vediamo: «Era a Marcel Déat che andavo sentendomi più vicino. A mio giudizio,
questo ex socialista aveva la più solida testa fascista di tutta Parigi... Ogni
mattina assaporavo su "L'Oeuvre" il suo inflessibile, colorito, mordente
editoriale ...».
Ed ecco, in veloce sintesi, i tratti caratterizzanti del pensiero di un
intellettuale collabo che fino al '37, da socialista revisionista, fu una delle
firme di Giustizia e Libertà e dei Quaderni di Giustizia e Libertà
particolarmente cara a Carlo Rosselli, unitamente a quella di un altro celebre
intellettuale e ministro collabo, Paul Marion: «Vi riscontrava la carta completa
di uno Stato davvero nuovo, il partito unico, il rovesciamento delle vecchie
oligarchie economiche, militari, clericali, la fede nella costruzione di una
Europa unita ed al contempo la più pertinente decorticazione dei vuoti slogan di
Vichy: Famiglia, Lavoro, Patria, Spiritualità».
Poi qualche nota caratteriale e morale in positivo: «Ma se poco Déat si
profondeva, ancor meno si legava. Benché fosse stato ministro, continuava a
vivere con grande semplicità, come un professore liceale di provincia, con sua
moglie, la sua vasta biblioteca completa di tutti i filosofi, da Empedocle a
Martin Heidegger. Il mio passaggio fra i doriotisti, i quali in ogni occasione
ricordavano come egli fosse stato conferenziere massone, non era inoltre
indicato per farmi entrare nella sua intimità!». Dove par di capire che questo
di Rebatet per Déat fu un amore non corrisposto. D'altra parte, egli viveva
un'altra sua contraddizione: biasimava e disprezzava Doriot ma editava sui suoi
giornali e, sia pure senza vincoli di affiliazione, quanto meno dava la
sensazione di fare riferimento alla sua sfera ideale e operativa.
Malgrado la cura posta nel mantenere le distanze, Déat invita lo scrittore a
partecipare alla manifestazione inaugurativa del «Fronte» di cui abbiamo testé
parlato: il «Fronte Rivoluzionario Nazionale». Come detto, fu un fallimento
provocato da un pasticcio: la pretesa di attirare Doriot in una organizzazione
ideata da un doppio ex, Barbe, agitatore già comunista e poi doriotista, quindi,
sponsorizzata da Déat -personaggio visto dal condottiero del PPF e dai suoi come
il fumo negli occhi- e dal déatista «Raggruppamento Nazionale Popolare»,
definito dal suo leader «la sinistra della Collaborazione». Al Vel' d'Hiv, in un
locale per metà vuoto e sotto lo sguardo benevolo del Déat che presiede, succede
questo che brevemente ci dice Rebatet: «Barbe eruttò ad ogni modo un pistolotto
rivoluzionario di puro stile leninista, come per lanciare all'assalto -ma da che
?- centomila insorti brandenti le armi. Facoltà d'illusione che mancò di fare il
suo effetto». Qui il memorialista ironizza sull'allocuzione del bino transfuga,
ma il documento che ci lascia resta prezioso in quanto ancor più corrobora quel
«fascino indiscreto della Sinistra» in qualche modo operativo nella cultura e
nella polemica del collaborazionismo francese. Il quale, però, entra
violentemente e astrattamente in contraddizione con sé medesimo allorché ritiene
di dovere e potere affermare la sua rivoluzione sociale scagliandosi
fanaticamente contro la Sinistra, che chiameremo «normale», invece di cercare
con essa un rapporto di confronto, di dialogo, di distensione, di alleanza. Il
che, oggettivamente, la pone alla mercé dell'occupante, che, come ben si evince
sia dal testo di Rebatet come da quelli di altri intellettuali collabos nulla
fan, non diremo per dar corpo alle loro speranze «socialiste» o solo per
metterli a proprio agio nei confronti della loro Nazione. La quale, via via che
la vittoria arride alle armi delle democrazie e dell'URSS, sempre più
estesamente e intensamente li taccia di tradimento e promette punizioni
destinate tragicamente ad avverarsi in una misura ampiamente superiore a quanto
dolorosamente previsto. Comunque, sembra essere destino insuperabile della
sinistra nazionalpopulista, della sinistra fascista, essere callidamente
strumentalizzata dalla destra reazionaria per portare la guerra civile
all'interno della complessiva area delle forze rivoluzionarie. Sarà possibile
rovesciare tale tendenza?
Ma il Rebatet che se la ride delle schegge di marxismo-leninismo del Barbe e ne
banalizza il discorso alla platea semipiena-semivuota dove si favoleggia di un
blocco unitario e ferrigno del gallo-collaborazionismo, è contagiato o no dal
«fascino» di cui veniamo discorrendo? Sì, ma in modo, diremmo, piuttosto
sgangherato e caotico, come, del resto, si conviene ad uno scrittore
interessante e robusto ma dalla scarsa dimestichezza con la riflessione teorica
e, tutto sommato, condizionato da impulsi al tempo stesso autoritari e
anarcoidi. Ancora a lui la parola: «La strada si sarebbe trovata infine aperta
alla vera rivoluzione europea, che poi fosse stata fascista o nazionalsocialista
avrebbe costituito una definizione di poco conto. Sì, ritrovavo l'entusiasmo per
prendere parte a questo enorme finimondo. Lo si poteva leggere in filigrana
negli editoriali in cui abbozzavo alcuni programmi sociali, in cui mi scagliavo
contro il grande capitalismo, le nazioni ricche conducenti una guerra di
sterminio contro i regimi popolari. Univo la mia voce a quella dei socialisti
tedeschi aderenti a Hitler. Sempre più mi schieravo all'estrema sinistra della
Collaborazione, mia legittima collocazione. Anticristiano e anticlericale da
sempre, antimilitarista da quando avevo visto da vicino i cervelli dell'esercito
all'opera, ed intento a scrivere un libro in cui polverizzavo tutti i valori
borghesi, ero stato fin'allora fuorviato dalla vecchia destra, come ben
dimostrava il mio ritratto de "L'Action Frangaise" su "Les Décombres".
Continuavo a ripetermi che, compromessi o no all'Est, "la storia non finisce
mai" e che nel rigore degli accadimenti una falla si sarebbe pur prodotta».
Ma la «falla», almeno quella vagheggiata da Lucien Rebatet, ancora la si sta
aspettando dopo esattamente mezzo secolo. E ancora si aspetterà molto,
moltissimo, e veramente, perché le «falle» non si «producono» per opera e virtù
dello Spirito Santo, ma sono il frutto del lavoro culturale e politico,
ideologico e organizzativo, dei rivoluzionari -dei rivoluzionari, diciamo, e non
degli eversori, degli estremisti, dei massimalisti, rossi o neri che siano-
considerati nel loro insieme. Ma finché i cosiddetti «nazional-rivoluzionari» o
«nazional-popolari» altro non faranno, ne abbiano coscienza o meno, che
assolvere al compito di portare l'attacco alla Sinistra tradizionale, alle forze
storiche del movimento operaio, ad essi commesso dal grande capitale
monopolistico, dalle multinazionali, le «falle» si apriranno non nello
schieramento borghese ma nel fronte proletario. Con buona pace dei Rebatet
passati, presenti e futuri.
Enrico
Landolfi
Lucien Rebatet, "Memorie di un
fascista (1941-1947)", a cura di Moreno Marchi,
Edizioni «Settimo Sigillo», Roma, pp. 230, Lire 32.000
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