«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 6 - 31 Ottobre 1994

 

Pecore al pascolo e leoni in gabbia


 

Sto per partire e qui, in quest'angolo di Sud, la canicola impazza. Fa caldo, si fa fatica anche a scrivere. Osservo quel che succede e cerco di raccapezzarmi in questo trionfo della follia ignorante che promana dalla politica italiana. Sto maturando una convinzione: mai l'Italia unita ha visto una classe dirigente (si fa per dire) di così infima fattura. Bottegai e trafficanti, legulei e causidici, computisti, pennivendoli e imbonitori hanno messo le mani sul destino di una nazione che diede i natali ad Antonio Gramsci e Giovanni Gentile. E quel ch'è peggio, col suffragio di milioni di voti. Qui ci si potrebbe sbizzarrire nella critica della democrazia. Me ne ritraggo. Io ormai «prendo atto», altrimenti che osservatore sarei? Non mi raccapezzo su un dato: come fanno Giulio Tremonti, ministro delle Finanze, Lamberto Dini, ministro del Tesoro e Antonio Martino, ministro degli Affari Esteri, tre persone culturalmente e professionalmente appartenenti ad un altra galassia, a stare insieme alla fauna che alberga nelle gabbie dorate dello zoo di Palazzo Chigi? Non c'è spiegazione se non ci si abbevera alla pila dell'apoftegma andreottiano: «II potere logora chi non ce l'ha».
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Osservo il formicaio impazzito della servitù che corre in soccorso del vincitore. Oh! il grande Flaiano! Razza antica di animali, prolifica in ogni epoca. Ci sono delle bestie particolarmente immonde, pur esse utili, secondo gli imperscrutabili disegni del Creatore, all'equilibrio della natura. Si muovono spostandosi di lato o indietreggiando. Bestie pavide! Come il ricordo che mi sovviene e non vissi. Fuori del Campo di Coltano una mano alleata aveva infisso un paletto sul quale inchiodò un cartello: «Meglio pecore al pascolo che leoni in gabbia». Il senso è arguibile, la sostanza anche. E l'attualità è fuor di dubbio. Quante pecore sono uscite! Le osservo mentre accarezzo la mano fredda del cinismo e asciugo la fronte calda, madida di sudore.
Mi concedo una considerazione: sempre pecore sono. Lo erano anche quando si ricoprivano d'una pelle di leone. «Giovani leoni» che vivevano per la rivoluzione, che sognavano la distruzione del mondo vecchio, che citavano Niccolai a colazione, pranzo, merenda e cena, che andavano «oltre la destra e la sinistra». Ora li vedo: ominicchi che tornano a casa fra le calde coperte d'una Alleanza composta dal letame di questa nazione e quaquaraqquà che vanno a fare gli scudieri del cavaliere di Arcore. Fra questi detriti la massa di calcinacci che stanno lì perché ci sono sempre stati. Sento il peso della vergogna ch'è tutta mia. Mi vergogno di averli avuti compagni e mi vergogno ancora di più di aver prestato loro fiducia.
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Noto anche tanta gente in ginocchio e con le mani alzate. Prigionieri del proprio passato, annichiliti dal presente, possibili insussistenti per il futuro. Sembrano pugili suonati. Sono quelli che si sono ritirati dalla lotta e si consumano nella nostalgia del passato. Non parlano più, non scrivono più, hanno rinunciato a lottare a causa dello stordimento provocato dalla storia che si è rimessa in marcia. Sento la mia anima lambita dal veleno del cinismo, anch'io sono vittima di quel «qualcosa» che ci sta avvolgendo tutti. O sarà il caldo di agosto? Certo, questa gente ha combattuto con me battaglie aspre, ha saputo compiere quel gesto di coraggio che compimmo quando decidemmo di dare una svolta alla nostra vita e a quel cinismo non può consentirsi di «prendere atto» di questi uomini in ginocchio. È per questo che rivolgo loro la parola. In maniera semplice, senza incedere nell'altisonanza di discorsi politici dal crasso sapore accademico. Potrei attingere alle pagine di Jünger, agli scritti di von Salomon, alle parole di Ricci. Farei una bella figura e qualcuno direbbe: «Quant'è bravo quello lì».
Ma non è tempo di decorazioni né mai fu era per me. Potevo ma non volli. E allora... animo, gente! Perché siete mani in alto? C'è da fare e si farà. È il buon Dio ad averci ammannito quest'accozzaglia di governanti. Se per vivere avete bisogno d'un nemico, l'avete trovato. Essi sono il bersaglio su cui tirare. Siete ecologisti? Avete il vostro settore d'azione. C'è un ministro dell'Ambiente che vuoi liberare le isole dalle carceri. Al loro posto metterci tante belle villette fatte di cemento. Avete dedizione per la socialità? Madonna, quanto c'è da fare! Vogliono ritoccare il sistema pensionistico e decuplicare i posti di lavoro. Aggravando la povertà in vecchiaia e incrementandola nell'età giovanile e matura. Vi occupate di sanità? C'è un ministro che va in giro per gli ospedali a stilare pagelle mentre nei nosocomi s'entra vivi e s'esce morti. Vi preme l'agricoltura? Potete spiegare al ministro Poli Bortone che differenza passa fra la potatura di un albero e la sarchiatura della terra. La bella Adriana non s'intende di queste cose anche se fa il ministro d'un ministero che annullammo con un referendum. Vi occupate di scuola? Dai, Gianni, spiega a D'Onofrio la bellezza d'un verso di Leopardi. Quel ministro sa a mala pena cos'è un gattopardo.
Perché siete in ginocchio? E questa politica politicante non vi fa senso? Guardate che guazzabuglio. Bossi contro Berlusca, Gasparri contro Fazio, Letta contro Gasparri, Tatarella contro i «poteri forti» che ci sono ma non hanno mai agito contro la destra, Scognamiglio contro Tatarella. Noi abbiamo sempre avuto una concezione alta della politica. Non ci sono le ragioni per abbassare le mani e riporle «sugli otturatori»? Che razza di combattenti siete?
Ma già vi vedo obiettare. Vi manca una organizzazione, vi mancano i simboli, vi mancano le bandiere, vi mancano i comandanti, vi mancano i gradi, vi manca la numerazione dei reparti, vi mancano le mostrine. Vi offro un suggerimento reale. Un giorno un tizio, che non ha perso la voglia d'incazzarsi, prese un foglio di carta e chiese al maresciallo dei Carabinieri l'autorizzazione a tenere un comizio. Un tizio povero di strutture e ricco solo di forza d'animo: senza un'organizzazione, né un simbolo, nemmeno una bandiera, neanche la fanfara, neppure un comandante, soldato semplice d'un esercito inesistente. Si sentiva uno, nessuno e centomila. Parlò a della gente di assetto del territorio, di lavoro e socialità, di capitalismo e usura, di destino di un popolo e futuro della nazione, di cultura e di civiltà, di liberazione dall'asservimento del potere. Era solo e mentre parlava, vedeva crescere il numero degli ascoltatori, ne riconosceva i volti. Ex-fascisti, ex-comunisti, ex-democristiani. Cominciò un'avventura che ancora continua. I risultati? Gratificanti, perché quel che si fa è per gli altri ma soprattutto per sé stessi, per sentirsi vivi.
A chi ama la storia di guerra, ricordo Visintin. Comandava un reparto da caccia in AOI e volava sui CR 32. I velivoli non avevano radio ricetrasmittente. Per ovviare, prima dell'azione, il Comandante ordinava ai gregari: «Quel che fasso mi, fe' vualtri». Capito l'antifona?
Animo, gente, datevi da fare e non dimenticate che «viene, dopo le finte battaglie, il giorno in cui c'è da fare sul serio, e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all'utile e non imperniate sull'intrigo».
Non sembra scritto per noi?
 

Vito Errico

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