A proposito dell'asse
Arcore-Marino
Fini rischia di
diventare Fininvest
Sempre estremamente sorprendente il nostro on.
Gianfranco Fini da Bologna (proprio come Dino Grandi, conte di Mordano, non lo
si dimentichi mai!). Nel suo intervento agostano alla Camera sulle dichiarazioni
del Presidente del Consiglio ha testualmente affermato: «La rivoluzione iniziata
cento giorni or sono con la costituzione di questo governo è destinata a
continuare.» Ed è stato confortato nel ferrigno convincimento dai vigorosi
assensi dell'on. Berlusconi.
Ora, a chi come noi non è di primo pelo, la vita ha insegnato a non
meravigliarsi mai di niente. Però, francamente, questa dell'on. Fini guadagnato
alla causa della rivoluzione ci ha lasciati letteralmente di stucco. Certo, la
parola «rivoluzione» è suscettibile di svariate interpretazioni, tanto è vero
che i più repugnanti colpi di mano reazionari -ad esempio: quelli che ad ogni
pie' sospinto massacrano qualche popolo nell'America Latina- vengono
sistematicamente spacciati dalla destra variamente configurabile come, appunto,
rivoluzioni. Pensiamo, quindi, ben conoscendo il Gianfranco-pensiero, che a
qualcuno di questi affascinanti modelli egli intenda fare riferimento. Ma se
così fosse, vivamente lo pregheremmo di esternare urbi et orbi l'interpretazione
autentica di un messaggio non tollerabile se proposto in chiave di ambiguità. Se
non altro perché chiunque e in qualunque modo stazioni nell'area della Fiamma o
sia ad essa prossimo ha il diritto di sapere come stanno effettivamente le cose,
onde essere in grado di regolarsi secondo scienza e coscienza. E non sembri poi
troppo strano che a reclamare il rispetto di tale diritto sia chi, come
l'estensore di queste note, è lontano trilioni di anni luce dagli spazi dove
sono accampati con armi (poche) e bagagli (molti) i capoccia neo-governativi
missini o «alleati nazionali» che dir si voglia.
È altamente improbabile, si capisce, che nel pronunciare le riferite parole il
segretario del MSI-DN nonché coordinatore di Alleanza Nazionale pensasse a
figure storiche del calibro, poniamo, di Leone Trotzky o di Benito Mussolini,
personaggi da lui troppo distanti: il primo perché incarnazione della purezza
marxista-leninista in virtù del suo antistalinismo; il secondo in quanto
espressivo di una immagine e di una tradizione verso cui il già almirantiano
Fini -cioè già aderente ad un filone del suo partito caratterizzato dalla più
intransigente, perfino intollerante e sia pure formalistica ortodossia fascista
rivendicata senza il minimo beneficio d'inventario- manifesta sempre più
frequentemente atteggiamenti d'insofferenza e di disagio, desideroso com'è di
cogliere ancora maggiori lauri elettorali e ministeriali standosene attestato
sulle sponde del maestoso fiume mass-mediatico berlusconiano, con l'orecchio
teso alle consolatorie melodie liberiste delle sirene tatcheriane e reaganiane.
Eppure, quella «rivoluzione che continua» -evocata da Fini senza badare, c'è da
credere, ai concetti che metteva in campo; né pesare le parole utilizzate per
comunicarli- suscita in noi echi al tempo stesso trotzkisti e mussoliniani. Per
quanto concerne i secondi, ricorderemo che nella drammatica notte durante la
quale ebbe a consumarsi con l'ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo il
Fascismo, nel corso della requisitoria antimussoliniana dell'Altro Bolognese
venne fuori la vexata quaestio, appunto, della «rivoluzione che continua»,
rimproverata al Duce dal Mordano come linea irresponsabile e sovvertitrice,
ostativa del consolidamento di quanto creato dal Regime al suo apparire sulla
scena della Storia. A rincalzare Grandi nei suoi argomenti provvide soprattutto
un Terzo Bolognese, il Federzoni, scagliatosi contro le varie gestioni del
partito costantemente polemiche e persecutorie, a suo dire, nei confronti della
borghesia e dello «spirito borghese». Per ciò che invece attiene ai primi, la
nostra mente va alle forti oppugnazioni di Trotzky contro la burocratizzazione,
la bonapartizzazione, l'imborghesimento dell'apparato poliziesco e
normalizzatore staliniano, espropriatore del potere, dei poteri, della classe
operaia; teorizzatore -in un contesto militarista e di conservazione- della
formula del «socialismo in un paese solo».
Com'è fin troppo ovvio, il «rivoluzionarismo» di Fini altro non è che una
piccola commedia. Di Leone Trotzky egli non ha né l'immensa cultura, né la
straordinaria produzione storica, letteraria e teorica, né l'immane coraggio di
contrapporsi a un colosso del Potere come Stalin. Di Benito Mussolini non può
vantare quello spirito realmente sovvertitore in senso antiborghese e
anticapitalista e antidestra che -sostiene uno storico di area
liberaldemocratica, Domenico Settembrini, in una fondamentale opera che ha visto
la luce vari anni or sono con il titolo "Fascismo controrivoluzione imperfetta"-
sempre operò come un fiume carsico in quel ribollente sottosuolo del Littorio
che fu il mussolinismo, cioè il contenitore non solo del Fascismo
complessivamente inteso ma pure di altre cose schiettamente rivoluzionarie: il
socialismo massimalista dell'epoca in cui il giovane tribuno romagnolo dirigeva
"Lotta di classe" e poi a Forlì "l'Avanti!" e "Utopia" a Milano, e, legato a
Cesare Battisti, collaborava al quotidiano socialista di Trento dando anche alle
stampe il volume "II Trentino visto da un socialista"; il sansepolcrismo,
fondato sul socialismo nazionale, di autentico spessore popolare,
combattentistico e riformatore; il "Manifesto di Verona" che -depurato di quanto
vi è di contingente, di caduco e anche di inaccettabile- conserva a mezzo secolo
dalla compilazione una eccezionale freschezza storica, una grande originalità
elaborativa, un rilevante impulso rinnovatore specie laddove fa riferimento alla
socializzazione, intesa più come un modo di concepire la vita che come una pur
profonda riforma della struttura economica e dei rapporti sociali.
Gianfranco Fini fa bene, quindi, nello spirito del «suo particulare», a dare
disposizione alla stampa, alle organizzazioni, alle manifestazioni del suo
partito di ignorare Mussolini, soprattutto se proposto in una chiave di lettura
sociale e socializzatrice, che è poi la più storicamente interessante, la più
culturalmente appetibile, la più politicamente fruibile e, checché se ne dica,
spendibile. Quanto meno a media scadenza. Fa male, viceversa, a definirsi
rivoluzionario, portatore di una rivoluzione e compartecipe di altrui strategie
rivoluzionarie. Egli, infatti, da quel perfetto conservatore che è, del
Mussolini rosso, del Mussolini nero, del Mussolini rosso-nero ('43-'45), non ha
ereditato neppure in minima misura la perenne insoddisfazione per l'esistente,
l'empito trasformatore, la vocazione a mettere i «sistemi» in discussione, come
quando il Duce affida al ministro delle corporazioni Cianetti -nella primavera
del '43, cioè prima della fondazione della Repubblica dei 600 giorni- il compito
di preparare la socializzazione dell'economia, in gran parte la realizza durante
la RSI, da poi la consegna di «disseminare di mine sociali la valle padana»,
dove, nella sua giovinezza, aveva predicato il verbo della emancipazione
proletaria proposto nella versione più accesa. Dunque, Benito Mussolini va
ignorato, e non certo con le stesse motivazioni dell'antifascismo ostracizzatore,
ma perché tentazione rivoluzionaria costante non solo dei pur simpaticamente
confusionari militanti del Fronte della Gioventù bensì anche di quegli
intellettuali onesti, di quei reduci, di quegli eredi spirituali del
volontariato di guerra perduta e della RSI, i quali, dolorosamente, avvertono
l'odioso equivoco di una concezione bassamente materialistica della politica che
porta il segretario del proprio partito a rinnegare pure le parti salienti e
migliori di una tradizione -che egli, proprio per non averla vissuta, sarebbe
tenuto a rigorosamente rispettare- in cambio di una improvvisata e forse non
duratura partecipazione ad un governo di restaurazione piena della egemonia
borghese, di indiscriminato attacco alle formazioni storiche del movimento
operaio, di spaccatura verticale della Nazione e di messa in discussione della
sua unità. Né persuade la spiegazione che il Fini da della sua linea, solo
apparentemente «ragionevole» e «moderna». Egli, in sostanza, afferma di avere
inteso, con la sua iniziativa, proiettare un partito vecchio, nostalgistico,
sterilmente arroccato nei ricordi e nei sentimentalismi più obsoleti, su di un
piano di realtà, di concretezza, di operatività, di effettività.
Orbene, nessuno più di noi è sensibile alla esigenza del «fare politica». E
perfino del «fare tattica». Mancherebbe altro! Non è questo, dunque, che
rimproveriamo al coordinatore di Alleanza Nazionale, ma l'indirizzo generale,
che è reazionario, antipopolare, conservatore, collegato -nell'ambito di una
alleanza organica, strutturale, ideologica- con quella che un tempo veniva
definita la «destra economica». Ciò in vista di una crociata contro i valori e
gli interessi delle grandi correnti popolari. Per la «soluzione finale», di
tipo, diremmo, razzistico, contro la Sinistra. Lo rimbrottiamo, inoltre, perché
quanto spaccia per tattica altro non è che banalissimo tatticismo; privo com'è,
di addentellati con una plausibile strategia connessa agli ineludibili princìpi
cui non può non richiamarsi chi, nella sua area, intenda restar loro fedele con
nitore etico, con tensione ideale, con onestà d'intelletto.
* * *
Risulta che qualcuno del giro di Via della Scrofa va sostenendo la tesi di una
nostra propensione alla durezza polemica con il MSI-DN o Alleanza Nazionale che
dir si voglia -ma che pasticcio questa complicata nomenclatura!- suscitata da
occulta militanza nei ranghi del Partito Democratico della Sinistra e dintorni.
Figuriamoci! Che chi redige queste note abbia la sua naturale collocazione in
un'area culturale della Sinistra molto criticamente rivisitata è noto lippis et
tonsoribus, ma è forse meno palese che in varie sedi pubblicistiche la sua
oppugnazione di limiti, difetti, errori, insufficienze, sordità non solo del PDS
ma di altri comparti del fronte progressista non è meno accesa. Fra l'altro,
contestiamo alla Quercia (della quale non siamo una fronda), alla Rosa (di cui
ancora non abbiamo deciso se continuare ad essere un petalo) e ad altre
estrinsecazioni politico-vegetali l'inconsapevolezza dell'esistenza di una
«questione fascista» o, se si preferisce, «post-fascista»; il conseguente
rifiuto di un confronto, di un dialogo, di un rapporto creativo con le
componenti di quell'area definita, con appellativo più o meno centrato,
«nazionale-popolare», potenzialmente disponibili per relazioni non conflittuali
o addirittura sinergiche con le correnti della Sinistra più schiettamente
proletarie, classiste, non omologate nel sistema di potere borghese; il metodo
non solo occhettiano, venato di vetero neo-azionismo, di sparare nel mucchio dei
veri o presunti «fascisti» con le armi ideologistiche, moralistiche,
discriminatorie, emarginatorie di un anti-fascismo targato 1945.
Naturalmente, magagne vecchie e nuove di una Sinistra logorata da troppe vetustà
dottrinarie, storiche, e, al tempo stesso, fiaccata da uno spirito rinunciatario
relativamente ai programmi specifici e agli obbiettivi ultimi, non possono
essere invocate come giustificazioni per i voltafaccia di voltagabbana di ogni
genere e specie. La riprovazione puntuale, sacrosanta, benefica che, in tutte le
sue espressioni, potrebbe legittimamente vantarsi di una soda tradizione di
«dialogo con i fascisti» -e di ciò non tarderemo ad occuparci, Direttore
permettendo- non può essere scompagnata dalla intuizione della necessità storica
della costituzione di una «sinistra nazionale» idonea -nell'ambito di una ormai
più che matura ricomposizione a mezzo secolo dalla guerra civile- a portare, nel
vivo di un rimeditato patrimonio rivoluzionario delle forze del cambiamento, il
contributo ideale, culturale e morale di quello che De Felice chiama «fascismo
movimento», i cui contenuti pronunciatamente sociali, antiplutocratici,
superatori del capitalismo, furono emblematici della esperienza breve e
drammatica della RSI. Proprio la crisi in sé medesima e nei suoi più
caratterizzanti elementi ideologici che scuote oggi, impetuosamente, la
Sinistra, dovrebbe incoraggiare in una vera militanza «popolare nazionale» la
disposizione ad una ambiziosa supplenza che, ove seriamente e costantemente
posta in atto, potrebbe configurare quell'«egemonia» -intesa nel senso «gramsciano»
del termine- che la linea vagamente «nazionalista conservatrice» del partito di
Fini non può prospettare, se non altro perché grigiamente appiattita sul ruolo
ultraliberista, fanaticamente filocapitalista, di dichiarata restaurazione piena
del dominio borghese sulla economia e sullo Stato, intransigentemente
privatizzatore, incarnato dagli «azzurri» di Forza Italia. A proposito di
costoro: sono un impressionante revival di quelle Camicie Azzurre del partito di
estrema destra di Luigi Federzoni, furiosamente avverso, negli Anni Venti, ai
Fasci mussoliniani accusati di propensioni democratiche e sinistreggianti, ma
poi confluito nel 1923 nel PNF sia per porre fine a sanguinosi scontri con le
Camicie Nere, sia per condizionare in senso conservatore il nascente Regime
littorio.
* * *
Gianfranco Fini, cui il successo personale nelle elezioni e nella composizione
del governo sembra aver dato alla testa, non si rende conto che, al di là dei
peana e ditirambi di cui viene gratificato dentro e fuori il movimento, sta
rischiando brutto. Anzitutto, quella di cui fa parte appare sempre più una
maggioranza da operetta, con il Bossi, guitto geniale, che tiene permanentemente
sulla corda il Cavaliere, gli pratica la doccia scozzese, lo lavora ai fianchi
anche con la richiesta della legge antitrust e con il tifo per la magistratura
che indaga sulle vere o presunte magagne fiscali dell'Azienda, in attesa che
maturino le condizioni per la «soluzione finale», cioè per una decisiva resa dei
conti pure con il «fedelissimo alleato» postfascista, magari trattando la
composizione di una nuova maggioranza con un rinvigorito «centro» cattolico e
laico e con il PDS. Operazione, questa, che dovrebbe riuscirgli agevole e
naturale, avendo sempre vantata per la Lega una forte caratura antifascista e
«laburista», nonché un federalismo mutuato dalla rosselliana Giustizia e
Libertà. Ciò gli è valso l'amicizia di La Malfa che si agita come un forsennato
per mandare in porto un disegno il quale prevede la possibilità dell'utilizzo di
Forza Italia, purché Berlusconi si decida a dare il benservito a Fini. Il
Presidente se la sente di fare le barricate per difendere il fedelissimo sodale?
Tutto è possibile, certo, ma la politica è la politica. È, cioè, come si dice,
una brutta bestia, dalla scarsa dimestichezza con i sentimenti se non con i
risentimenti. Questo, si capisce, quando si tratta di affari e di potere. Ciò
detto, fa pensare la cura posta dal fondatore degli Azzurri nel definirsi di
centro, perché se c'è una aggregazione di destra -di destra sociale, politica,
economica- questa è proprio Forza Italia. Forse non si è troppo lontani dal vero
presumendo una cautelosa, implicita, non confessata presa di distanza da un
socio che, ad onta di tutti i reiterati rinnegamenti, resta scomodo perché
dall'universo mondo ritenuto non credibile nella sua eccezionale, spettacolare,
improvvisa e, soprattutto, improvvisata palinodia.
È vero, il Cavaliere anche durante una delle tante conferenze stampa agostane ha
insistito sul progetto di una reductio ad unum del cosiddetto «polo delle
libertà», del confluire di tutta la maggioranza che sorregge la presidenza in un
partito dichiaratamente conservatore, che abbia i massimi referenti ideali nelle
esperienze di governo di personaggi -manco a dirlo- come Reagan, Bush, Tatcher,
Balladur. Quindi, non intende, sembrerebbe, scaricare Fini e i suoi. Però, a ben
vedere, questa escogitazione strategica è proprio funzionale alla liquidazione
in modo indolore dello «scandaloso» compagnon de route mediante fagocitazione,
per potersene quindi servire nell'irrimediabile ancorché intermittente
contenzioso che lo oppone, e sempre lo opporrà, al Bossi, accetti o meno costui
la prospettiva del partito unico «lib-lib» (liberal-liberista).
A nostro sommesso parere, anche con tale modo soft il Fini non uscirebbe bene
dalla vicenda in cui si è imbarcato. Intanto, diverrebbe protagonista di un
secondo rinnegamento, quando ancora è ben lungi dall'essere riuscito a far
dimenticare il primo. Inoltre, l'omologazione del MSI-DN al verbo berlusconiano
striato sensu -con relativa, ulteriore fase distruttiva della già tanto vantata,
amata, giurata e spergiurata identità storico-ideologica della Fiamma- non farà
che aggravare ancora di più la soggezione, anche sotto il profilo della
biografia culturale, del segretario. Lo sradicamento dal patrimonio ideale, la
rinuncia opportunistica ad essere sé stesso, il confinamento esaustivo nel più
cinico degli oblii delle mete nazionali, sociali, popolari che più di mezzo
secolo fa indussero giovani e meno giovani a vestire il grigioverde -pure quando
non erano di leva o erano in grado di sottrarsi agli erratissimi bandi di
Graziani- per poterle raggiungere con le armi in pugno, ne faranno
inevitabilmente una sorta di Vice Re per il Sud, di Luogotenente Generale
delegato alle colonie meridionali. Egli non sarà più Gianfranco Fini, bensì
Gianfranco FININVEST.
Altro che Asse Arcore-Marino!
Altro che spartizione della appetitosa torta del potere nella Trimurti vincente
secondo lo schema Berlusconi al Quirinale, Fini a Palazzo Chigi, Bossi a... Via
dell'Umiltà, sede oggi di Forza Italia e in seguito del conservatorismo
pianificato a fare da sgabello ai due amici come segretario di un partito nel
quale di suo, per ovvie ragioni, non ci sarebbe più nulla. Ma Bossi non è certo
disponibile per il ruolo di Bertoldo della situazione. E al gioco non ci starà
mai. Scommettiamo? E poi, signori, siete ben certi di averlo ucciso l'orso di
cui pretendete dividervi le spoglie?
Enrico Landolfi
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