«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 6 - 31 Ottobre 1994

 

A proposito dell'asse Arcore-Marino
Fini rischia di diventare Fininvest

 

Sempre estremamente sorprendente il nostro on. Gianfranco Fini da Bologna (proprio come Dino Grandi, conte di Mordano, non lo si dimentichi mai!). Nel suo intervento agostano alla Camera sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio ha testualmente affermato: «La rivoluzione iniziata cento giorni or sono con la costituzione di questo governo è destinata a continuare.» Ed è stato confortato nel ferrigno convincimento dai vigorosi assensi dell'on. Berlusconi.
Ora, a chi come noi non è di primo pelo, la vita ha insegnato a non meravigliarsi mai di niente. Però, francamente, questa dell'on. Fini guadagnato alla causa della rivoluzione ci ha lasciati letteralmente di stucco. Certo, la parola «rivoluzione» è suscettibile di svariate interpretazioni, tanto è vero che i più repugnanti colpi di mano reazionari -ad esempio: quelli che ad ogni pie' sospinto massacrano qualche popolo nell'America Latina- vengono sistematicamente spacciati dalla destra variamente configurabile come, appunto, rivoluzioni. Pensiamo, quindi, ben conoscendo il Gianfranco-pensiero, che a qualcuno di questi affascinanti modelli egli intenda fare riferimento. Ma se così fosse, vivamente lo pregheremmo di esternare urbi et orbi l'interpretazione autentica di un messaggio non tollerabile se proposto in chiave di ambiguità. Se non altro perché chiunque e in qualunque modo stazioni nell'area della Fiamma o sia ad essa prossimo ha il diritto di sapere come stanno effettivamente le cose, onde essere in grado di regolarsi secondo scienza e coscienza. E non sembri poi troppo strano che a reclamare il rispetto di tale diritto sia chi, come l'estensore di queste note, è lontano trilioni di anni luce dagli spazi dove sono accampati con armi (poche) e bagagli (molti) i capoccia neo-governativi missini o «alleati nazionali» che dir si voglia.
È altamente improbabile, si capisce, che nel pronunciare le riferite parole il segretario del MSI-DN nonché coordinatore di Alleanza Nazionale pensasse a figure storiche del calibro, poniamo, di Leone Trotzky o di Benito Mussolini, personaggi da lui troppo distanti: il primo perché incarnazione della purezza marxista-leninista in virtù del suo antistalinismo; il secondo in quanto espressivo di una immagine e di una tradizione verso cui il già almirantiano Fini -cioè già aderente ad un filone del suo partito caratterizzato dalla più intransigente, perfino intollerante e sia pure formalistica ortodossia fascista rivendicata senza il minimo beneficio d'inventario- manifesta sempre più frequentemente atteggiamenti d'insofferenza e di disagio, desideroso com'è di cogliere ancora maggiori lauri elettorali e ministeriali standosene attestato sulle sponde del maestoso fiume mass-mediatico berlusconiano, con l'orecchio teso alle consolatorie melodie liberiste delle sirene tatcheriane e reaganiane.
Eppure, quella «rivoluzione che continua» -evocata da Fini senza badare, c'è da credere, ai concetti che metteva in campo; né pesare le parole utilizzate per comunicarli- suscita in noi echi al tempo stesso trotzkisti e mussoliniani. Per quanto concerne i secondi, ricorderemo che nella drammatica notte durante la quale ebbe a consumarsi con l'ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo il Fascismo, nel corso della requisitoria antimussoliniana dell'Altro Bolognese venne fuori la vexata quaestio, appunto, della «rivoluzione che continua», rimproverata al Duce dal Mordano come linea irresponsabile e sovvertitrice, ostativa del consolidamento di quanto creato dal Regime al suo apparire sulla scena della Storia. A rincalzare Grandi nei suoi argomenti provvide soprattutto un Terzo Bolognese, il Federzoni, scagliatosi contro le varie gestioni del partito costantemente polemiche e persecutorie, a suo dire, nei confronti della borghesia e dello «spirito borghese». Per ciò che invece attiene ai primi, la nostra mente va alle forti oppugnazioni di Trotzky contro la burocratizzazione, la bonapartizzazione, l'imborghesimento dell'apparato poliziesco e normalizzatore staliniano, espropriatore del potere, dei poteri, della classe operaia; teorizzatore -in un contesto militarista e di conservazione- della formula del «socialismo in un paese solo».
Com'è fin troppo ovvio, il «rivoluzionarismo» di Fini altro non è che una piccola commedia. Di Leone Trotzky egli non ha né l'immensa cultura, né la straordinaria produzione storica, letteraria e teorica, né l'immane coraggio di contrapporsi a un colosso del Potere come Stalin. Di Benito Mussolini non può vantare quello spirito realmente sovvertitore in senso antiborghese e anticapitalista e antidestra che -sostiene uno storico di area liberaldemocratica, Domenico Settembrini, in una fondamentale opera che ha visto la luce vari anni or sono con il titolo "Fascismo controrivoluzione imperfetta"- sempre operò come un fiume carsico in quel ribollente sottosuolo del Littorio che fu il mussolinismo, cioè il contenitore non solo del Fascismo complessivamente inteso ma pure di altre cose schiettamente rivoluzionarie: il socialismo massimalista dell'epoca in cui il giovane tribuno romagnolo dirigeva "Lotta di classe" e poi a Forlì "l'Avanti!" e "Utopia" a Milano, e, legato a Cesare Battisti, collaborava al quotidiano socialista di Trento dando anche alle stampe il volume "II Trentino visto da un socialista"; il sansepolcrismo, fondato sul socialismo nazionale, di autentico spessore popolare, combattentistico e riformatore; il "Manifesto di Verona" che -depurato di quanto vi è di contingente, di caduco e anche di inaccettabile- conserva a mezzo secolo dalla compilazione una eccezionale freschezza storica, una grande originalità elaborativa, un rilevante impulso rinnovatore specie laddove fa riferimento alla socializzazione, intesa più come un modo di concepire la vita che come una pur profonda riforma della struttura economica e dei rapporti sociali.
Gianfranco Fini fa bene, quindi, nello spirito del «suo particulare», a dare disposizione alla stampa, alle organizzazioni, alle manifestazioni del suo partito di ignorare Mussolini, soprattutto se proposto in una chiave di lettura sociale e socializzatrice, che è poi la più storicamente interessante, la più culturalmente appetibile, la più politicamente fruibile e, checché se ne dica, spendibile. Quanto meno a media scadenza. Fa male, viceversa, a definirsi rivoluzionario, portatore di una rivoluzione e compartecipe di altrui strategie rivoluzionarie. Egli, infatti, da quel perfetto conservatore che è, del Mussolini rosso, del Mussolini nero, del Mussolini rosso-nero ('43-'45), non ha ereditato neppure in minima misura la perenne insoddisfazione per l'esistente, l'empito trasformatore, la vocazione a mettere i «sistemi» in discussione, come quando il Duce affida al ministro delle corporazioni Cianetti -nella primavera del '43, cioè prima della fondazione della Repubblica dei 600 giorni- il compito di preparare la socializzazione dell'economia, in gran parte la realizza durante la RSI, da poi la consegna di «disseminare di mine sociali la valle padana», dove, nella sua giovinezza, aveva predicato il verbo della emancipazione proletaria proposto nella versione più accesa. Dunque, Benito Mussolini va ignorato, e non certo con le stesse motivazioni dell'antifascismo ostracizzatore, ma perché tentazione rivoluzionaria costante non solo dei pur simpaticamente confusionari militanti del Fronte della Gioventù bensì anche di quegli intellettuali onesti, di quei reduci, di quegli eredi spirituali del volontariato di guerra perduta e della RSI, i quali, dolorosamente, avvertono l'odioso equivoco di una concezione bassamente materialistica della politica che porta il segretario del proprio partito a rinnegare pure le parti salienti e migliori di una tradizione -che egli, proprio per non averla vissuta, sarebbe tenuto a rigorosamente rispettare- in cambio di una improvvisata e forse non duratura partecipazione ad un governo di restaurazione piena della egemonia borghese, di indiscriminato attacco alle formazioni storiche del movimento operaio, di spaccatura verticale della Nazione e di messa in discussione della sua unità. Né persuade la spiegazione che il Fini da della sua linea, solo
apparentemente «ragionevole» e «moderna». Egli, in sostanza, afferma di avere inteso, con la sua iniziativa, proiettare un partito vecchio, nostalgistico, sterilmente arroccato nei ricordi e nei sentimentalismi più obsoleti, su di un piano di realtà, di concretezza, di operatività, di effettività.
Orbene, nessuno più di noi è sensibile alla esigenza del «fare politica». E perfino del «fare tattica». Mancherebbe altro! Non è questo, dunque, che rimproveriamo al coordinatore di Alleanza Nazionale, ma l'indirizzo generale, che è reazionario, antipopolare, conservatore, collegato -nell'ambito di una alleanza organica, strutturale, ideologica- con quella che un tempo veniva definita la «destra economica». Ciò in vista di una crociata contro i valori e gli interessi delle grandi correnti popolari. Per la «soluzione finale», di tipo, diremmo, razzistico, contro la Sinistra. Lo rimbrottiamo, inoltre, perché quanto spaccia per tattica altro non è che banalissimo tatticismo; privo com'è, di addentellati con una plausibile strategia connessa agli ineludibili princìpi cui non può non richiamarsi chi, nella sua area, intenda restar loro fedele con nitore etico, con tensione ideale, con onestà d'intelletto.
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Risulta che qualcuno del giro di Via della Scrofa va sostenendo la tesi di una nostra propensione alla durezza polemica con il MSI-DN o Alleanza Nazionale che dir si voglia -ma che pasticcio questa complicata nomenclatura!- suscitata da occulta militanza nei ranghi del Partito Democratico della Sinistra e dintorni. Figuriamoci! Che chi redige queste note abbia la sua naturale collocazione in un'area culturale della Sinistra molto criticamente rivisitata è noto lippis et tonsoribus, ma è forse meno palese che in varie sedi pubblicistiche la sua oppugnazione di limiti, difetti, errori, insufficienze, sordità non solo del PDS ma di altri comparti del fronte progressista non è meno accesa. Fra l'altro, contestiamo alla Quercia (della quale non siamo una fronda), alla Rosa (di cui ancora non abbiamo deciso se continuare ad essere un petalo) e ad altre estrinsecazioni politico-vegetali l'inconsapevolezza dell'esistenza di una «questione fascista» o, se si preferisce, «post-fascista»; il conseguente rifiuto di un confronto, di un dialogo, di un rapporto creativo con le componenti di quell'area definita, con appellativo più o meno centrato, «nazionale-popolare», potenzialmente disponibili per relazioni non conflittuali o addirittura sinergiche con le correnti della Sinistra più schiettamente proletarie, classiste, non omologate nel sistema di potere borghese; il metodo non solo occhettiano, venato di vetero neo-azionismo, di sparare nel mucchio dei veri o presunti «fascisti» con le armi ideologistiche, moralistiche, discriminatorie, emarginatorie di un anti-fascismo targato 1945.
Naturalmente, magagne vecchie e nuove di una Sinistra logorata da troppe vetustà dottrinarie, storiche, e, al tempo stesso, fiaccata da uno spirito rinunciatario relativamente ai programmi specifici e agli obbiettivi ultimi, non possono essere invocate come giustificazioni per i voltafaccia di voltagabbana di ogni genere e specie. La riprovazione puntuale, sacrosanta, benefica che, in tutte le sue espressioni, potrebbe legittimamente vantarsi di una soda tradizione di «dialogo con i fascisti» -e di ciò non tarderemo ad occuparci, Direttore permettendo- non può essere scompagnata dalla intuizione della necessità storica della costituzione di una «sinistra nazionale» idonea -nell'ambito di una ormai più che matura ricomposizione a mezzo secolo dalla guerra civile- a portare, nel vivo di un rimeditato patrimonio rivoluzionario delle forze del cambiamento, il contributo ideale, culturale e morale di quello che De Felice chiama «fascismo movimento», i cui contenuti pronunciatamente sociali, antiplutocratici, superatori del capitalismo, furono emblematici della esperienza breve e drammatica della RSI. Proprio la crisi in sé medesima e nei suoi più caratterizzanti elementi ideologici che scuote oggi, impetuosamente, la Sinistra, dovrebbe incoraggiare in una vera militanza «popolare nazionale» la disposizione ad una ambiziosa supplenza che, ove seriamente e costantemente posta in atto, potrebbe configurare quell'«egemonia» -intesa nel senso «gramsciano» del termine- che la linea vagamente «nazionalista conservatrice» del partito di Fini non può prospettare, se non altro perché grigiamente appiattita sul ruolo ultraliberista, fanaticamente filocapitalista, di dichiarata restaurazione piena del dominio borghese sulla economia e sullo Stato, intransigentemente privatizzatore, incarnato dagli «azzurri» di Forza Italia. A proposito di costoro: sono un impressionante revival di quelle Camicie Azzurre del partito di estrema destra di Luigi Federzoni, furiosamente avverso, negli Anni Venti, ai Fasci mussoliniani accusati di propensioni democratiche e sinistreggianti, ma poi confluito nel 1923 nel PNF sia per porre fine a sanguinosi scontri con le Camicie Nere, sia per condizionare in senso conservatore il nascente Regime littorio.
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Gianfranco Fini, cui il successo personale nelle elezioni e nella composizione del governo sembra aver dato alla testa, non si rende conto che, al di là dei peana e ditirambi di cui viene gratificato dentro e fuori il movimento, sta rischiando brutto. Anzitutto, quella di cui fa parte appare sempre più una maggioranza da operetta, con il Bossi, guitto geniale, che tiene permanentemente sulla corda il Cavaliere, gli pratica la doccia scozzese, lo lavora ai fianchi anche con la richiesta della legge antitrust e con il tifo per la magistratura che indaga sulle vere o presunte magagne fiscali dell'Azienda, in attesa che maturino le condizioni per la «soluzione finale», cioè per una decisiva resa dei conti pure con il «fedelissimo alleato» postfascista, magari trattando la composizione di una nuova maggioranza con un rinvigorito «centro» cattolico e laico e con il PDS. Operazione, questa, che dovrebbe riuscirgli agevole e naturale, avendo sempre vantata per la Lega una forte caratura antifascista e «laburista», nonché un federalismo mutuato dalla rosselliana Giustizia e Libertà. Ciò gli è valso l'amicizia di La Malfa che si agita come un forsennato per mandare in porto un disegno il quale prevede la possibilità dell'utilizzo di Forza Italia, purché Berlusconi si decida a dare il benservito a Fini. Il Presidente se la sente di fare le barricate per difendere il fedelissimo sodale? Tutto è possibile, certo, ma la politica è la politica. È, cioè, come si dice, una brutta bestia, dalla scarsa dimestichezza con i sentimenti se non con i risentimenti. Questo, si capisce, quando si tratta di affari e di potere. Ciò detto, fa pensare la cura posta dal fondatore degli Azzurri nel definirsi di centro, perché se c'è una aggregazione di destra -di destra sociale, politica, economica- questa è proprio Forza Italia. Forse non si è troppo lontani dal vero presumendo una cautelosa, implicita, non confessata presa di distanza da un socio che, ad onta di tutti i reiterati rinnegamenti, resta scomodo perché dall'universo mondo ritenuto non credibile nella sua eccezionale, spettacolare, improvvisa e, soprattutto, improvvisata palinodia.
È vero, il Cavaliere anche durante una delle tante conferenze stampa agostane ha insistito sul progetto di una reductio ad unum del cosiddetto «polo delle libertà», del confluire di tutta la maggioranza che sorregge la presidenza in un partito dichiaratamente conservatore, che abbia i massimi referenti ideali nelle esperienze di governo di personaggi -manco a dirlo- come Reagan, Bush, Tatcher, Balladur. Quindi, non intende, sembrerebbe, scaricare Fini e i suoi. Però, a ben vedere, questa escogitazione strategica è proprio funzionale alla liquidazione in modo indolore dello «scandaloso» compagnon de route mediante fagocitazione, per potersene quindi servire nell'irrimediabile ancorché intermittente contenzioso che lo oppone, e sempre lo opporrà, al Bossi, accetti o meno costui la prospettiva del partito unico «lib-lib» (liberal-liberista).
A nostro sommesso parere, anche con tale modo soft il Fini non uscirebbe bene dalla vicenda in cui si è imbarcato. Intanto, diverrebbe protagonista di un secondo rinnegamento, quando ancora è ben lungi dall'essere riuscito a far dimenticare il primo. Inoltre, l'omologazione del MSI-DN al verbo berlusconiano striato sensu -con relativa, ulteriore fase distruttiva della già tanto vantata, amata, giurata e spergiurata identità storico-ideologica della Fiamma- non farà che aggravare ancora di più la soggezione, anche sotto il profilo della biografia culturale, del segretario. Lo sradicamento dal patrimonio ideale, la rinuncia opportunistica ad essere sé stesso, il confinamento esaustivo nel più cinico degli oblii delle mete nazionali, sociali, popolari che più di mezzo secolo fa indussero giovani e meno giovani a vestire il grigioverde -pure quando non erano di leva o erano in grado di sottrarsi agli erratissimi bandi di Graziani- per poterle raggiungere con le armi in pugno, ne faranno inevitabilmente una sorta di Vice Re per il Sud, di Luogotenente Generale delegato alle colonie meridionali. Egli non sarà più Gianfranco Fini, bensì Gianfranco FININVEST.
Altro che Asse Arcore-Marino!
Altro che spartizione della appetitosa torta del potere nella Trimurti vincente secondo lo schema Berlusconi al Quirinale, Fini a Palazzo Chigi, Bossi a... Via dell'Umiltà, sede oggi di Forza Italia e in seguito del conservatorismo pianificato a fare da sgabello ai due amici come segretario di un partito nel quale di suo, per ovvie ragioni, non ci sarebbe più nulla. Ma Bossi non è certo disponibile per il ruolo di Bertoldo della situazione. E al gioco non ci starà mai. Scommettiamo? E poi, signori, siete ben certi di averlo ucciso l'orso di cui pretendete dividervi le spoglie?
 

Enrico Landolfi

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