«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 7 - 30 Novembre 1994

 

I cavalieri antichi e quelli nuovi



Il direttore mi aveva chiesto un breve commento ai risultati delle elezioni amministrative del 20 novembre. Ci stavo provando, quando ecco parte il tam-tam delle agenzie: Berlusconi «avvisato» per concorso in corruzione. Terremoto a palazzo: crisi di governo o verifica? Subito o dopo la finanziaria? Fibrillano i mercati, crolla la borsa, la lira è in caduta verticale. Il Presidente registra una videocassetta e la manda ai tiggì. Non si dimette, né si dimetterà. Contrattacca. Ma non sembra una tigre ferita, piuttosto un volpacchiotto finito nella trappola del rubicondo contadino. Un copione già visto. Craxi, Forlani, Pomicino, Gava, Di Lorenzo, i tanti attori della prima Tangentopoli, lo hanno già recitato, probabilmente con maggior fantasia e professionalità. Ne ha per tutti il cavaliere. Per il Presidente della Repubblica. Per la giustizia «infame». Per l'informazione asservita. Per i poteri forti. Per gli orditori di trame e complotti. Per il Grande Vecchio. Non arrossisce il cavaliere. I falchi, ovviamente, gli fanno eco. (A proposito perché mortificare un così aristocratico animale paragonandolo ai Previti, Maiolo, Sgarbi, Tajani, Larussa, Gasparri e via elencando che, semmai, anche esteticamente, ricordano gli avvoltoi oppure al Ferrara, Biondi, Pannella, Storace, fede ecc. che han tratti e movenze da incrocio bovino-suino?) Scherzi a parte (e lo scherzo, purtroppo, è codesta classe dirigente arrogante, incapace, rozza e famelica, caduta sulla testa degli italiani come una punizione divina) tira brutta aria, direttore... bisogna esser prudenti, responsabili, vigili e pronti. Se Berlusconi e le sue centurie non si rendono conto che l'avviso dei giudici di Mani pulite è grave non in quanto tale, ma perché cade su un conflitto di interessi che non ha eguali in Europa e nel mondo, cavoli loro. Se non si capisce che non può essere consentita ad alcun capo di un qualunque Governo democratico la condizione di monopolista delle televisioni private e controllore di quelle pubbliche, di imprenditore con interessi enormi, tutti colludenti con la funzione istituzionale esercitata, non vale la pena sprecare fiato. O si è sordi, o ignoranti oppure in perfetta malafede.
Ma non è questo il punto. Chi scrive preferisce le vittorie politiche e non ama farsi scudo di azioni che appartengono all'autonomia dell'ordinamento giudiziario. Che dev'essere, appunto, autonomo, indipendente ed immune dalla tentazione d'invadere altri campi.
Ricordo soltanto agli avvoltoi che l'azione penale è obbligatoria e che essa non può fermarsi dinanzi al portone di questo o talaltro palazzo. Sempre agli stessi pennuti ed ai quadrupedi citati, ricordo che se essi hanno sempre goduto di momenti di effimera gloria lo debbono a quegli stessi giudici contro i quali oggi lanciano strali. Che quei giudici stanno facendo nulla di più e nulla di meno del proprio dovere avendo dalla loro il sostegno del popolo italiano, garanzia non di carriere politiche alle quali non vogliono accedere -avete già dimenticato l'offerta ministeriale a Di Pietro ed il suo cortese rifiuto?- ma della loro incolumità. Iddio gliela conservi. Ciò detto, torniamo al voto con il quale due milioni e mezzo di italiani hanno espresso il loro giudizio pesantemente negativo nei confronti della maggioranza di governo. I numeri son numeri e quando sono così eloquenti fanno cadere nel ridicolo chi tenta di leggerli prò domo sua. Quel voto -e non l'iniziativa del pool milanese- è assai più di un campanello d'allarme, anche se, per il momento, neppure una campana a morto. È la risposta vera, di uomini e donne in carne ed ossa, al selvaggio liberismo dei neo-destri, alle spinte classiste e reazionarie, all'antimeridionalismo e quant'altro. Esso è di poco successivo alla straordinaria mobilitazione di un milione e mezzo di lavoratori di cui siamo stati testimoni, ricavandone profonda impressione e duraturi insegnamenti. Per non parlare delle centinaia di migliaia di studenti che ovunque si ritrovano, con sano spirito ribellistico. Non importa se non hanno simboli e bandiere, riferimenti e prospettive: è già tanto che siano stati strappati al karaoke, al tentativo di cloroformizzare per sempre le coscienze.
Controcorrente, direttore, come sempre. Bisogna essere grati, infinitamente grati, a questo cavaliere che non ha nulla a che vedere con la Tavola Rotonda, i riti, i miti, il sacro, la fede. A questo anti-Lancillotto incipriato e ridens che ha avuto il grande merito di provocare una reazione, prima individuale e poi di massa, nella quale nessuno avrebbe scommesso.
Bisogna serbargli eterna gratitudine, soprattutto, per aver chiarito il più grande equivoco della nostra recente storia repubblicana, con buona pace dei buoni e degli ingenui. Il chi è del MSI, poi DN, poi costituente di destra per la libertà, oggi AN. Il perché è nato, per fare cosa e per chi. Quando si avrà il coraggio di bere quel calice amaro, interrogandosi sulla tolleranza dei potenti di allora, molte pagine oscure e drammatiche della lunga notte della repubblica saranno meno indecifrabili e l'operazione «Alleanza nazionale-destra di governo» apparirà in tutta la sua straordinaria coerenza e continuità. Mi sono detto, in questi giorni di scontro sociale non ancora concluso, osservando i volti e gli sguardi di lavoratori, pensionati, disoccupati che domandavano -e domandano- maggiore equità, giustizia sociale, un minimo di solidarietà...: se Fini fosse davvero in buona fede, ovvero se la sua alleanza fosse solo un momento tattico con l'obiettivo dì farsi sdoganare, beh, adesso dovrebbe venir fuori qualche novità. Inconsciamente gli stavo dando una chance. Bastava che il conflitto con Berlusconi, sul versante sociale, lo alimentasse lui. Avesse avuto questa capacità avrebbe potuto aprire ancora un dialogo su altri versanti, persino a sinistra. C'erano le condizioni storiche e politiche per farlo. Né gli mancavano gli strumenti. Penso alla CISNaL che avrebbe potuto svolgere un ruolo non solo sociale ma politico, davvero rivoluzionario. Invece tutti lì, ancora a tentare di mettere mattoni e cemento sulle macerie di un muro che è definitivamente crollato.
Tutti lì, come se il tempo si fosse fermato, al grido de «il comunismo non passerà». Tutti lì, testa bassa dietro il capo, ad infilarsi come soldatini di piombo in un imbuto dal quale difficilmente potranno uscire. Incapacità, presunzione, bramosia del potere per il potere o c'è dell'altro.
Molti fatti sembrerebbero dimostrare che il sogno stia per finire. Durato soltanto lo spazio di un'estate ubriacante, tra crociere mediterranee e riunioni nelle residenze estive sulla Costa Smeralda delle quali resterà poca traccia nella storia. Troppo grandi le vicende e gli scenari di questa fase di transizione e di fine millennio o troppo piccoli loro? Un momento, direttore. E noi? Che facciamo noi che abbiamo scelto di essere gli ultimi? Noi, che attraverso "Tabularasa", pur tra contraddizioni ed incertezze, siamo rimasti in piedi e, resistendo, abbiamo indicato una prospettiva diversa, un altro approdo?
Giorni fa, a Roma, ho rivisto Umberto: in gran spolvero. Mi diceva che sta lavorando ad un appuntamento culturale sulla diaspora missina. Marco Tarchi a Modena alla Festa nazionale de "l'Unità". Croppi che tiene una conferenza stampa a Botteghe Oscure. Donnici che fa il tupamaro in Calabria ed insieme ad un socialista lombardiano costituisce un gruppo laburista-federalista organico allo schieramento «progressista». Errico che si crogiola tra rifondatori comunisti ed intellettuali di sinistra. Su altri versanti, non meno interessanti, Fabrizio Comencini che diventa capo dei leghisti veneti, una roba da 35 parlamentari. Peppe Nanni amministratore esterno della Lega in Lombardia.
Qual è il filo rosso che unisce queste esperienze? Perché non trasformiamo "Tabularasa" in vetrina per questo dibattito? Anziché continuare a fare dietrologia, polemizzando -il rimprovero vale innanzi tutto per chi scrive- con un ambiente che non ci appartiene (o al quale non apparteniamo) e che, a ben vedere, non è mai stato il nostro. Di più, evitando di insistere sul fascismo, se non in chiave di approfondimento culturale e critico di aspetti specifici, esperienze, testimonianze, non ancora esplorate dal dibattito storiografico e con caratteristiche di attualità. Cosa che riesce molto bene all'amico Landolfi e che lascerei soltanto a lui. Non voglio rubarti il mestiere, vecchia pellaccia. Oltre, ancora oltre. Questo hanno in sorte gli eretici. Eppoi, son sogni poveri i nostri. Vengono da lontano, andranno lontano. Quand' anche restassero soltanto sogni, poco male. Ai miei rampolli va bene così.


Beniamino Donnici

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