«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 7 - 30 Novembre 1994

 

Necessità d'una politica nuova


 

Il momento politico è delicatissimo: troppe grida e troppi silenzi fanno smarrire il senso delle cose. La responsabilità? Di un potere che, seppure legalmente costituito, resta formato da spezzoni d'un vecchio mondo, dedito ad agire nella nebulosità anche malavitosa e d'una opposizione, che è politicamente sterile, perché non riesce più a far politica. Dobbiamo chiederci: se la maggioranza, formata da una mediocrità incolta, priva del senso dello Stato, incapace a percepire la differenza fra «governare» e «comandare», infarcita di gentaglia referente delle varie mafie, non incappasse negli incidenti di percorso ormai quotidiani, come farebbe l'opposizione a giustificare il suo esistere in politica? No, la politica non può ridursi a un gioco a rimpiattino, ad un inseguimento dell'errore da castigare verbosamente. La politica è progettualità, è ideazione, è programmazione. L'on. Veltroni afferma di voler costituire un'alternativa. Ma su quali progetti, su quali idee, su quali programmi? C'è troppa nebbia. La politica ha bisogno d'essere rifondata. Una rifondazione necessaria, che non può partire dai suoi stessi soggetti. Il concetto di «partito» è ormai legato al vecchio mondo che aveva costituito il verminaio di Tangentopoli. Deve essere l'associazionismo a formare il nuovo coagulo della politica. C'è necessità di costituire nuove strutture che aprano il ventaglio di interessi nobili della politica e gli ambiti di agibilità. Non si può più indugiare. Quella vecchia politica, fatta di «prefetture», «consolati», «governatorati», di segretari sezionali, provinciali, regionali, quella politica degli apparati pesante e asfissiante che ci ha portati allo sfascio, non è più proponibile. Non sono più proponibili i «colori», perché non definiscono più. Oggi la distinzione deve passare fra chi concepisce l'uomo come un semplice strumento di produzione e chi invece pensa a quest'essere, creato a immagine e somiglianza di Dio, come un composto di santità e dannazione, di eroismo e pusillanimità, di certezze e di dubbi. Una concezione dell'uomo che poi non è nuova ma antica. Ecco, su questo discrimine pensiamo debba basarsi il fondamento del nuovo stare insieme. Non si deve chiedere conto ad alcuno del proprio passato, anche perché chi farebbe da giudice? Ognuno di noi si lascia alle spalle un mondo di macerie e una storia che ha prodotto tante lacrime. Ma non è piangendo, assisi sui cumuli di detriti, né imbastendo processi storico-politici che ridaremmo speranza alla gente. Solo una richiesta dovremmo formulare a noi stessi e agli altri: credere fermamente nell'esigenza di libertà dell'uomo, ripudiare ogni totalitarismo e fare dell'onestà il valore cardine della politica. Lo si ritiene di difficile attuazione? Il buio del proprio passato, il ripensamento di esso può rischiarare di luce sfolgorante il cammino del presente verso il futuro. Non si può tollerare alcuna forma di camaleontismo e riciclaggio. Asor Rosa ha parlato di «razze inferiori»: condividiamo il suo giudizio. L'Italia è il paese dei «gattopardi»: chissà se l'associazionismo politico riuscirà a modificare, a cancellare questa macula che imbratta il nostro popolo e lo rende inaffidabile davanti alla sua storia. Di qui ricomincia, deve ricominciare, la rifondazione della politica. Una politica che deve essere ripensata in grande.


* * *
La politica è passione o non è e la passione è manifestazione dell'anima, è senso forte, è sofferenza, è dolore, com'è patimento il «farsi carico» dell'altro, sentire sulle proprie carni il graffio lancinante del «problema» che affligge l'altro, che riduce la libertà del consimile, che violenta il diritto d'un altro uomo. Cos'altro è la politica se non un servizio per gli altri? Ma questi sentimenti, il cui travisamento ha chiuso nell'egoismo i vecchi partiti, trasformandoli in sette, in comitati d'affari, in conventicole, non devono farci perdere la cognizione del «reale». Basta con gli universalismi, basta con gli internazionalismi. Bando alle velleità. La politica abbisogna di concretezza. La natura dell'uomo è quella che è, non quella che si vorrebbe che fosse. La rifondazione della politica non può prescindere dalla natura dell'uomo. E gli uomini sono quelli che la cultura, la storia, le tradizioni hanno formato durante il cammino dei secoli. Da ciò discende la necessità d'individuare alcune priorità che devono ispirare un nuovo cammino politico. La prima di esse non può che essere la «sovranità» di un popolo costituito in Stato. Dobbiamo chiederci: siamo noi uno stato sovrano? La risposta non può che essere negativa. Quando truppe straniere occupano il nostro territorio, quando il nostro territorio esplica una funzione di piattaforma di lancio per ordigni altrui, la sovranità dello Stato ne viene limitata. Da qualche parte si potrà sostenere che questo stato di cose è la conseguenza di alleanze liberamente accettate. Noi non vogliamo tornare su storie vecchie che ci porterebbero al Trattato di Yalta e allo scannamento della libertà dei popoli che comportò. Diciamo soltanto che, modificatisi gli aspetti geopolitici, l'occupazione delle truppe straniere non è più giustificabile.
Come non sono giustificabili i pellegrinaggi dei nostri uomini politici, da Fini ad Occhetto, che puntualmente e ciclicamente devono attraversare il mare per andare nei «santuari» della finanza mondiale ad impetrare l'imprimatur dai sacerdoti dell'Impero; come sono inaccettabili gli interventi continui del Fondo Monetario Internazionale negli affari dello Stato italiano; come non è più giustificabile il sangue versato dai nostri figli e dai nostri fratelli per conto di una Organizzazione delle Nazioni Unite, inutile consesso se non proprio dannoso all'autodeterminazione dei popoli. Abbiamo bisogno di frenare l'omologazione che affligge il nostro popolo e di riscoprire le specificità che rivengono dalla storia e dalla nostra cultura. Ma amare la nostra storia non significa odiare quella degli altri. Ci è stato insegnato che l'amor di patria è amore delle patrie altrui. E il nostro concetto di patria non può confondersi con quello che in questi giorni affiora sulle labbra del capo del governo, che invece ci riporta alla mente la definizione di Piero Calamandrei: «la patria è l'ultimo rifugio dei lazzaroni». Se amor di patria è amore del cielo, del mare, dell'albero, dell'aria, dell'acqua, non ci può essere amore quando un «modello di sviluppo» inquina l'aria, brucia il bosco, lorda il creato e annega un popolo. Come fare per modificare questo modulo di vita? È un cammino lungo, come distanti sono nel tempo i frutti dell'educazione. Ma se non ci accingiamo ad aprire il discorso con il piccolo che conduciamo per mano, la catastrofe ci avvolgerà. Ecco un altro compito di una politica nuova: parlare ai giovani e ai giovanissimi. Il dramma della politica è rappresentato dalla canizie e dalla calvizie che affollano, laddove ancora lo fanno, le sale di riunione. Noi, uomini con la nostra storia alle spalle, abbiamo, fra tante colpe, la più terribile: quella di aver ucciso, con i nostri comportamenti egoistici, la speranza dei giovani. L'unica offerta a loro è stato un video, quello d'un televisore, quello d'un computer. Li abbiamo parcheggiati davanti alla realtà virtuale dell'elettronica. Ed ora? Dobbiamo cercare di riportarli a noi. Prima di preoccuparci di bilanci e piani regolatori, di interrogazioni e interpellanze, dobbiamo riprendere per mano i nostri ragazzi e portarli con noi, a pulire un acrocoro lordato dal consumismo, a piantare un albero, a far riscoprire la bellezza d'un verso di Leopardi, a far gustare il senso di una pagina di letteratura. Anche a far riscoprire il piacere romantico che da un aquilone in volo. Banalità. Infantilismo politico? Sogni? No, praticità della vita. Dobbiamo infondere nelle giovani generazioni il senso delle concretezze della vita. Non possiamo continuare a masturbarci con le idee di stati etici, ordini cavaliereschi, aristocrazie che non esistono più e quando esistevano, avevano come momento ludico le persecuzioni della povera gente.


* * *
Riscoprire la socialità, nel momento in cui si tenta di infliggere duri colpi a quello che è il patrimonio più tangibile della sofferenza, del sangue, dei sacrifici dei nostri padri. I riverberi della rivoluzione industriale e le sue problematiche, l'eco della "Fabian Society", la superbia dei padroni, le angherie dei massari, le cariche della cavalleria, le cannonate di Bava Beccaris, l'«eterogenesi dei fini» di rivoluzioni trasformatesi in reazione, le illusioni andate tragicamente deluse costituiscono il patrimonio inalienabile della nostra storia e della nostra cultura, di tutto ciò ch'è diventato civiltà del nostro popolo. Le nostre radici affondano in un «modus operandi» che tendeva a guadagnare ai ceti subalterni livelli di vita degni d'un essere umano e a fare dello sfruttamento, della soggezione, della secondarietà criteri non più applicabili all'uomo. Non solo. Ma la subalternità doveva trasformarsi in parità attraverso la riconsiderazione del concetto di lavoro. La proprietà dei mezzi di produzione non può essere superiore al valore delle braccia e dei cervelli che li attivano. Il discorso partecipazionistico, che rida dignità all'uomo, inconsiderabile come mercé o come mezzo di produzione, è discorso che va riscoperto. Per chi ha certe propensioni storico-culturali si tratta di attuare finalmente l'art. 46 della Carta Costituzionale, che riconosce ai lavoratori il diritto a collaborare alla gestione delle aziende ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione. Una produzione che non può avere profitti ripartiti fra imprenditori e rischi pagati dalle maestranze. Che cos'è se non questo lo spirito malefico delle privatizzazioni? L'art. 42 della Costituzione pone dei limiti alla proprietà privata, non lo si dimentichi, «allo scopo di assicurare la funzione sociale».


* * *
Un'altra necessità è quella di un linguaggio nuovo chiaro. Anni di crittografìe, di linguaggi astrusi, contraddittori e fuorvianti, anni di «convergenze parallele» hanno generato confusione e incomprensioni spesso tragiche. Tutti gli «ismi» che hanno caratterizzato un'epoca non possono più avere diritto di esistenza. Essi sono idoli di età che appartengono alla archeologia della storia, oggetto più di dotte disquisizioni che non possono, però, più produrre politica. Hanno costituito il nerbo delle nostre ideologie ma le ideologie sono franate sotto il peso dei limiti che imponevano all'uomo. Forse ci siamo salvati solo noi perché la nostra vita, il nostro esistere politico s'è nutrito di continue trasgressioni, di continue lotte alle ortodossie. Se siamo salvi -e lo siamo perché non affolliamo i cocchi dei vincitori- lo dobbiamo alla nostra natura di eretici. Dalle catastrofi del passato solo un esempio può venire, quell'esempio che ci porti a considerare la libertà come valore primo, inconculcabile, da difendere in tutte le maniere. Gli esempi di uomini come Romano Bilenchi e Ignazio Silone, uomini che fecero della trasgressione il concime per la maturazione d'un frutto che si chiama libertà, uomini che hanno saputo bere la cicuta delle disillusioni e che hanno pagato con solitudini di pietra la libertà delle loro idee, uomini perseguitati dai soliti «governatorati», tutti uguali seppure di diverso colore, non possono non ispirare quel cammino che tutti noi dobbiamo accingerci a prendere. Un cammino che deve essere irto ma netto, privo di confusioni, come si confà a uomini di schiena dritta, vogliosi di distinguersi fra tutti i proni e gli ingobbiti ad osannare idoli che non fanno storia perché passano e non durano.


Vito Errico

Indice