Necessità d'una politica
nuova
Il momento politico è delicatissimo: troppe grida e troppi silenzi fanno
smarrire il senso delle cose. La responsabilità? Di un potere che, seppure
legalmente costituito, resta formato da spezzoni d'un vecchio mondo, dedito ad
agire nella nebulosità anche malavitosa e d'una opposizione, che è politicamente
sterile, perché non riesce più a far politica. Dobbiamo chiederci: se la
maggioranza, formata da una mediocrità incolta, priva del senso dello Stato,
incapace a percepire la differenza fra «governare» e «comandare», infarcita di
gentaglia referente delle varie mafie, non incappasse negli incidenti di
percorso ormai quotidiani, come farebbe l'opposizione a giustificare il suo
esistere in politica? No, la politica non può ridursi a un gioco a rimpiattino,
ad un inseguimento dell'errore da castigare verbosamente. La politica è
progettualità, è ideazione, è programmazione. L'on. Veltroni afferma di voler
costituire un'alternativa. Ma su quali progetti, su quali idee, su quali
programmi? C'è troppa nebbia. La politica ha bisogno d'essere rifondata. Una
rifondazione necessaria, che non può partire dai suoi stessi soggetti. Il
concetto di «partito» è ormai legato al vecchio mondo che aveva costituito il
verminaio di Tangentopoli. Deve essere l'associazionismo a formare il nuovo
coagulo della politica. C'è necessità di costituire nuove strutture che aprano
il ventaglio di interessi nobili della politica e gli ambiti di agibilità. Non
si può più indugiare. Quella vecchia politica, fatta di «prefetture»,
«consolati», «governatorati», di segretari sezionali, provinciali, regionali,
quella politica degli apparati pesante e asfissiante che ci ha portati allo
sfascio, non è più proponibile. Non sono più proponibili i «colori», perché non
definiscono più. Oggi la distinzione deve passare fra chi concepisce l'uomo come
un semplice strumento di produzione e chi invece pensa a quest'essere, creato a
immagine e somiglianza di Dio, come un composto di santità e dannazione, di
eroismo e pusillanimità, di certezze e di dubbi. Una concezione dell'uomo che
poi non è nuova ma antica. Ecco, su questo discrimine pensiamo debba basarsi il
fondamento del nuovo stare insieme. Non si deve chiedere conto ad alcuno del
proprio passato, anche perché chi farebbe da giudice? Ognuno di noi si lascia
alle spalle un mondo di macerie e una storia che ha prodotto tante lacrime. Ma
non è piangendo, assisi sui cumuli di detriti, né imbastendo processi
storico-politici che ridaremmo speranza alla gente. Solo una richiesta dovremmo
formulare a noi stessi e agli altri: credere fermamente nell'esigenza di libertà
dell'uomo, ripudiare ogni totalitarismo e fare dell'onestà il valore cardine
della politica. Lo si ritiene di difficile attuazione? Il buio del proprio
passato, il ripensamento di esso può rischiarare di luce sfolgorante il cammino
del presente verso il futuro. Non si può tollerare alcuna forma di camaleontismo
e riciclaggio. Asor Rosa ha parlato di «razze inferiori»: condividiamo il suo
giudizio. L'Italia è il paese dei «gattopardi»: chissà se l'associazionismo
politico riuscirà a modificare, a cancellare questa macula che imbratta il
nostro popolo e lo rende inaffidabile davanti alla sua storia. Di qui
ricomincia, deve ricominciare, la rifondazione della politica. Una politica che
deve essere ripensata in grande.
* * *
La politica è passione o non è e la passione è manifestazione dell'anima, è
senso forte, è sofferenza, è dolore, com'è patimento il «farsi carico»
dell'altro, sentire sulle proprie carni il graffio lancinante del «problema» che
affligge l'altro, che riduce la libertà del consimile, che violenta il diritto
d'un altro uomo. Cos'altro è la politica se non un servizio per gli altri? Ma
questi sentimenti, il cui travisamento ha chiuso nell'egoismo i vecchi partiti,
trasformandoli in sette, in comitati d'affari, in conventicole, non devono farci
perdere la cognizione del «reale». Basta con gli universalismi, basta con gli
internazionalismi. Bando alle velleità. La politica abbisogna di concretezza. La
natura dell'uomo è quella che è, non quella che si vorrebbe che fosse. La
rifondazione della politica non può prescindere dalla natura dell'uomo. E gli
uomini sono quelli che la cultura, la storia, le tradizioni hanno formato
durante il cammino dei secoli. Da ciò discende la necessità d'individuare alcune
priorità che devono ispirare un nuovo cammino politico. La prima di esse non può
che essere la «sovranità» di un popolo costituito in Stato. Dobbiamo chiederci:
siamo noi uno stato sovrano? La risposta non può che essere negativa. Quando
truppe straniere occupano il nostro territorio, quando il nostro territorio
esplica una funzione di piattaforma di lancio per ordigni altrui, la sovranità
dello Stato ne viene limitata. Da qualche parte si potrà sostenere che questo
stato di cose è la conseguenza di alleanze liberamente accettate. Noi non
vogliamo tornare su storie vecchie che ci porterebbero al Trattato di Yalta e
allo scannamento della libertà dei popoli che comportò. Diciamo soltanto che,
modificatisi gli aspetti geopolitici, l'occupazione delle truppe straniere non è
più giustificabile.
Come non sono giustificabili i pellegrinaggi dei nostri uomini politici, da Fini
ad Occhetto, che puntualmente e ciclicamente devono attraversare il mare per
andare nei «santuari» della finanza mondiale ad impetrare l'imprimatur dai
sacerdoti dell'Impero; come sono inaccettabili gli interventi continui del Fondo
Monetario Internazionale negli affari dello Stato italiano; come non è più
giustificabile il sangue versato dai nostri figli e dai nostri fratelli per
conto di una Organizzazione delle Nazioni Unite, inutile consesso se non proprio
dannoso all'autodeterminazione dei popoli. Abbiamo bisogno di frenare
l'omologazione che affligge il nostro popolo e di riscoprire le specificità che
rivengono dalla storia e dalla nostra cultura. Ma amare la nostra storia non
significa odiare quella degli altri. Ci è stato insegnato che l'amor di patria è
amore delle patrie altrui. E il nostro concetto di patria non può confondersi
con quello che in questi giorni affiora sulle labbra del capo del governo, che
invece ci riporta alla mente la definizione di Piero Calamandrei: «la patria è
l'ultimo rifugio dei lazzaroni». Se amor di patria è amore del cielo, del mare,
dell'albero, dell'aria, dell'acqua, non ci può essere amore quando un «modello
di sviluppo» inquina l'aria, brucia il bosco, lorda il creato e annega un
popolo. Come fare per modificare questo modulo di vita? È un cammino lungo, come
distanti sono nel tempo i frutti dell'educazione. Ma se non ci accingiamo ad
aprire il discorso con il piccolo che conduciamo per mano, la catastrofe ci
avvolgerà. Ecco un altro compito di una politica nuova: parlare ai giovani e ai
giovanissimi. Il dramma della politica è rappresentato dalla canizie e dalla
calvizie che affollano, laddove ancora lo fanno, le sale di riunione. Noi,
uomini con la nostra storia alle spalle, abbiamo, fra tante colpe, la più
terribile: quella di aver ucciso, con i nostri comportamenti egoistici, la
speranza dei giovani. L'unica offerta a loro è stato un video, quello d'un
televisore, quello d'un computer. Li abbiamo parcheggiati davanti alla realtà
virtuale dell'elettronica. Ed ora? Dobbiamo cercare di riportarli a noi. Prima
di preoccuparci di bilanci e piani regolatori, di interrogazioni e
interpellanze, dobbiamo riprendere per mano i nostri ragazzi e portarli con noi,
a pulire un acrocoro lordato dal consumismo, a piantare un albero, a far
riscoprire la bellezza d'un verso di Leopardi, a far gustare il senso di una
pagina di letteratura. Anche a far riscoprire il piacere romantico che da un
aquilone in volo. Banalità. Infantilismo politico? Sogni? No, praticità della
vita. Dobbiamo infondere nelle giovani generazioni il senso delle concretezze
della vita. Non possiamo continuare a masturbarci con le idee di stati etici,
ordini cavaliereschi, aristocrazie che non esistono più e quando esistevano,
avevano come momento ludico le persecuzioni della povera gente.
* * *
Riscoprire la socialità, nel momento in cui si tenta di infliggere duri colpi a
quello che è il patrimonio più tangibile della sofferenza, del sangue, dei
sacrifici dei nostri padri. I riverberi della rivoluzione industriale e le sue
problematiche, l'eco della "Fabian Society", la superbia dei padroni, le
angherie dei massari, le cariche della cavalleria, le cannonate di Bava Beccaris,
l'«eterogenesi dei fini» di rivoluzioni trasformatesi in reazione, le illusioni
andate tragicamente deluse costituiscono il patrimonio inalienabile della nostra
storia e della nostra cultura, di tutto ciò ch'è diventato civiltà del nostro
popolo. Le nostre radici affondano in un «modus operandi» che tendeva a
guadagnare ai ceti subalterni livelli di vita degni d'un essere umano e a fare
dello sfruttamento, della soggezione, della secondarietà criteri non più
applicabili all'uomo. Non solo. Ma la subalternità doveva trasformarsi in parità
attraverso la riconsiderazione del concetto di lavoro. La proprietà dei mezzi di
produzione non può essere superiore al valore delle braccia e dei cervelli che
li attivano. Il discorso partecipazionistico, che rida dignità all'uomo,
inconsiderabile come mercé o come mezzo di produzione, è discorso che va
riscoperto. Per chi ha certe propensioni storico-culturali si tratta di attuare
finalmente l'art. 46 della Carta Costituzionale, che riconosce ai lavoratori il
diritto a collaborare alla gestione delle aziende ai fini della elevazione
economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione.
Una produzione che non può avere profitti ripartiti fra imprenditori e rischi
pagati dalle maestranze. Che cos'è se non questo lo spirito malefico delle
privatizzazioni? L'art. 42 della Costituzione pone dei limiti alla proprietà
privata, non lo si dimentichi, «allo scopo di assicurare la funzione sociale».
* * *
Un'altra necessità è quella di un linguaggio nuovo chiaro. Anni di crittografìe,
di linguaggi astrusi, contraddittori e fuorvianti, anni di «convergenze
parallele» hanno generato confusione e incomprensioni spesso tragiche. Tutti gli
«ismi» che hanno caratterizzato un'epoca non possono più avere diritto di
esistenza. Essi sono idoli di età che appartengono alla archeologia della
storia, oggetto più di dotte disquisizioni che non possono, però, più produrre
politica. Hanno costituito il nerbo delle nostre ideologie ma le ideologie sono
franate sotto il peso dei limiti che imponevano all'uomo. Forse ci siamo salvati
solo noi perché la nostra vita, il nostro esistere politico s'è nutrito di
continue trasgressioni, di continue lotte alle ortodossie. Se siamo salvi -e lo
siamo perché non affolliamo i cocchi dei vincitori- lo dobbiamo alla nostra
natura di eretici. Dalle catastrofi del passato solo un esempio può venire,
quell'esempio che ci porti a considerare la libertà come valore primo,
inconculcabile, da difendere in tutte le maniere. Gli esempi di uomini come
Romano Bilenchi e Ignazio Silone, uomini che fecero della trasgressione il
concime per la maturazione d'un frutto che si chiama libertà, uomini che hanno
saputo bere la cicuta delle disillusioni e che hanno pagato con solitudini di
pietra la libertà delle loro idee, uomini perseguitati dai soliti
«governatorati», tutti uguali seppure di diverso colore, non possono non
ispirare quel cammino che tutti noi dobbiamo accingerci a prendere. Un cammino
che deve essere irto ma netto, privo di confusioni, come si confà a uomini di
schiena dritta, vogliosi di distinguersi fra tutti i proni e gli ingobbiti ad
osannare idoli che non fanno storia perché passano e non durano.
Vito
Errico
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