l'ultima
Gli amici
È destino che gli amici a un momento si debbano
perdere: muoiono o vanno via.
Rimangono solo nel nostro ricordo, con atteggiamenti infantili, librati in una
luce che non scolorisce. È in quel limbo inviolabile della memoria che i volti,
i gesti, le parole degli amici smarriti formano una diga contro il dubbio che la
nostra vita già consumata sia stata un semplice sogno o non sia affatto
esistita. Ogni epoca memorabile della nostra esistenza è legata al nome di un
amico come una stagione al segno dello zodiaco. Guardiamo le fotografie dove
siamo soli. Prendiamone tre, quattro, cinque, affondando a caso le mani nel
cassetto dove gli anni hanno depositato queste brevi tracce, passate al bagno
dell'iposolfito. Mettiamo quei cartoncini davanti a noi, osserviamoli: sentiremo
un senso di umiliazione e di dispetto assalirci: ci parranno le fotografie di
tre, quattro, cinque persone diverse. Dietro quelle immagini si stende una terra
deserta, screpolata, vuota di uomini e di vicissitudini. Una terra che non sa
dirci nulla. Anche se distese di tronchi o di prati in fiore cercheranno di
ravvivare piacevolmente il ricordo lontano, dietro il solitario pupazzo la
natura rimane tuttavia muta e incredibile. Noi non ci riconosciamo.
Ma ove il nostro volto appare nel cerchio dei volti amici, ecco la nozione di
quell'ora risorgere viva e sanguigna: le piccole ombrature del fondo, sì, sono
acqua di mare vero, e sopra vi passa una vela; sul ridosso del monte sentiamo la
pianta del piede deformarsi al contatto con la roccia, il gelo della fotografia
invernale batte contro le nostre mascelle, la fiamma del sole d'agosto ci buca
le tempie, e intanto una voce ci chiama per nome, un braccio preme sul nostro
braccio, siamo i soldati di un plotone in bivacco, la marcia avvenne lungo le
strade del tempo -scoramenti, tristezze, incontri, confessioni- e, insieme, i
compagni di allora ci dicono: «tu non hai sognato, perché anche noi eravamo con
te». Così la nostra vita è un seguito di quadri staccati che cominciano e
muoiono dove cominciarono e scomparvero, ahimè, le amicizie. Frammezzo ci stanno
le zone opache e gelatinose, i pezzi di pellicola bui, sui quali la nostra mano
non può scrivere nessuna didascalia. Per questo un giorno volgendo indietro la
testa ci parrà di aver vissuto troppo poco; di aver vissuto non cinquanta,
sessanta o settanta anni, ma appena quei due o tre che messi in mucchio formano
i soli ricordi rimasti vivi in noi: vivi per ciò che altri potè avallarli di suo
pugno.
[...]
Eravamo arrivati alla cima della nostra amicizia. Da principio partirono e
arrivarono lettere interminabili, scritte su fogli di quaderno... [...] Poi, le
lettere si fecero più brevi. Con un ultimo colpo di gomma anche le firme
scomparvero, e già le calligrafie si erano mutate [...] poi, lungo gli anni, ci
saremmo passati vicini; ci saremmo magari seduti di fronte, nello stesso
scompartimento ferroviario, come coloro che si guardano, si studiano, pensano
con intensità se è vero che si sono conosciuti, e non osano rivolgersi la
parola; sinché uno scende, il fischio del treno cancella il nome della stazione,
non ci si ricorda più del compagno di viaggio. Meglio così. Non avremmo avuto
più niente da dirci.
[...]
Altri amici poi vennero, e ognuno rubò all'altro un pezzo della sua vita per
sostentare più tardi la propria; lo confessò per confessarsi. E così, solo in
virtù di queste care scolte, tanto provvidenziali nel mettersi al nostro fianco
come nell'abbandonarlo, l'esistenza trascorsa non ci appare un incubo
fantastico, ma una cosa vera, e la morte non si pensa come un risveglio dal
sogno, ma come il riposo definitivo.
Quando dormiremo con la testa buttata contro il legno, senza più amici, senza
più bisogno di cercare in occhi fraterni lo specchio di ciò che siamo e
vorremmo. Finalmente soli.
Dino Garrone
"L'Universale", Anno I, n° 9, 3.IX.1931
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