Errato, oggi. il ruolo di Fini
nella maggioranza
Il «rosso» attese,
il «nero» chiamò
Gianfranco Fini esulta. Da «ragazzo di bottega» di Almirante -come incautamente
e ingenerosamente e ineducatamente lo definivamo all'epoca del congresso di
Sorrento- a «vero capo» della presunta maggioranza non di centro destra ma di
destra, delle destre, ne ha fatto di strada! Gli inviti di grande livello che
gli pervengono da varie parti delle terre emerse per spiegare ad assemblee
autorevoli cosa sia codesto «postfascismo» ormai si sprecano. Così come le
richieste di interviste a tutta pagina rivoltegli dalle più importanti testate
edite in Italia e «al di là dei monti e al di là dei mari», come direbbe quel
Mussolini che fino a non molto tempo fa gli ispirava il «fascismo del Duemila»
mentre oggi gli sta tanto scomodo e tanto stretto. Inoltre, l'attenzione che
alle sue parole e ai suoi comportamenti riservano politici, statisti e
«dittatori dell'opinione» è addirittura fenomenale. Insomma, è l'uomo del
giorno. E lui, spiegabilmente, crede di essere arrivato. Ritiene, ed è il meno
che possa ritenere, di avere vinto. Anzi stravinto. Spiace dirlo perché, in
fondo, non ci è antipatico, ma noi non siamo affatto persuasi della sua
vittoria. Siamo, cioè, convinti che il segretario del MSI-DN nonché coordinatore
di Alleanza Nazionale lungi dall'aver vinto si è soltanto limitato ad avere
successo. E sia pure un grande successo. Fini avrebbe vinto se fosse riuscito a
far «sdoganare», come oggi si dice con discutibile neologismo, non soltanto sé
stesso e i propri amici -del partito come tale si è solamente infischiato, a
cominciare da quel settore generazionalmente o culturalmente legato alla
Repubblica Sociale Italiana- ma anche la parte migliore, ossia né caduca né
improponibile, del patrimonio ideale proprio della tradizione storica cui, nel
bene e nel male, il MSI pretese richiamarsi. «Pretese», diciamo, perché sovente
la pretesa ebbe a rivelarsi inadeguatamente sorretta, o non sorretta affatto, da
elaborazioni, enunciazioni, intenzioni, attitudini, strategie scarsamente
ispirate ai doveri della coerenza, della onestà intellettuale, del rispetto
verso quei giovani e non giovani che or è mezzo secolo ci rimisero la pelle in
una scelta rischiosissima e in nessun modo gratificante, spiritualmente
affascinati com'erano da grandi valori e da chi li incarnava. Osservazione,
questa, forse, o senza forse, ostica a chi non gradisce che alieni ficchino il
naso in faccende della propria area di riferimento. Ma allora si consultino
scritti e testi delle allocuzioni del mai troppo compianto Giuseppe Niccolai. Se
ne troverebbero delle belle!
* * *
Tutti coloro che in buona o cattiva fede, dentro e fuori la destra,
disinteressatamente o meno, sciolgono inni al nuovo Cesare di Marino Laziale e
fanno a gara nel cingergli l'ampia e pallida fronte con serti di alloro, bene
farebbero a maturare qualche riflessione sul prezzo usuraio pagato -in termini
di dissoluzione della identità- per ottenere da un plutocrate ringhiosamente
reazionario e intemperantemente conservatore l'ingresso ai piani alti del
Palazzo. Loro, gli eredi di quella che si piccava di essere una «rivoluzione»,
della RSI con relativa socializzazione e connesso Stato Nazionale del Lavoro,
della polemica mussoliniana contro la «plutocrazia internazionale», delle
altrettanto mussoliniane «mine sociali disseminate nella Valle padana», dei
Punti del Manifesto di Verona nutriti di rivoluzionarismo proletario, ormai
imborghesiti fino al midollo. Ridotti, insomma, a fare il controcanto ai
magnificatori del liberismo selvaggio, emblematizzato nelle immagini di Reagan e
della Tatcher; ad essere gli institori del capitalismo, i privatizzatori di
privatizzazioni ideate per allargare esponenzialmente il dominio in chiave
mondialista non soltanto del grande capitale indigeno ma anche delle
multinazionali straniere. Che vergogna! Tutto ciò è ridicolo, prima ancora che
tragico e colpevole. Altro che Gianfranco Superstar! E siccome in questo nostro
amatissimo Paese la madre degli imbecilli è sempre gravida ecco qualcuno
avventurarsi, sia pur con acconce parole, in un paragone fra Mussolini e Fini,
ed addirittura con qualche punto a favore del secondo. Roba da matti, direbbe
anche il più intransigente e irriducibile antifascista, pur se proclive ad
apprezzare certe irrefutabili qualità del leader della ormai languente fiamma
tricolore.
* * *
Gli «alleati nazionali» si affannano con gli alibi, come tutti coloro che sanno
di non avere le carte in regola. Per esempio, affermano che non potevano lasciar
cadere l'unica occasione offertagli per uscire da un ghetto in cui la Sinistra
li ha confinati. Orbene, in questa asseverazione c'è indiscutibilmente
dell'autentico vero, ma anche indubitabilmente dell'ambiguo giustificazionismo,
di sicuro non saremo noi, che da una vita polemizziamo con comunisti poi
pidiessini, con socialisti e con quant'altro sta a sinistra, per l'assenza nelle
loro piattaforme e indicazioni strategiche di una positiva e dialogica politica
verso gli spazi storico-culturali dove sono collocati i veri o presunti
«fascisti». Tale nostra constatazione ha perfino assunto toni e contenuti
duramente vertenziali lungo l'anno in via di esaurimento soprattutto nei
confronti del PDS, di Occhetto e dell'occhettismo, che abbiamo accusato di
essere fra i massimi responsabili del tracollo delle forze democratiche di
avanguardia per avere sparato ferocemente e senza il benché minimo discernimento
nel mucchio cosiddetto «nero», senza distinguere fra «popolari-nazionali» e
«clerico-conservatori». Con il brillante risultato di regalare all'Asse
Arcore-Marino la bellezza di cinque milioni e mezzo di voti sedicenti
«fascisti». Ma, ciò detto, ci affrettiamo a rintuzzare le due tesi dei
sostenitori di Gianfranco Fininvest: l'impossibilità di rapporti costruttivi con
la Sinistra, con ogni tipo di Sinistra; l'inevitabilità del ruolo che oggi AN
svolge nell'ambito di un governo come quello presieduto da Silvio Berlusconi.
Che la Sinistra sia un cliente piuttosto difficile per tutti pare assodato. Ne
abbiamo testé fatto criticamente cenno. Ma è anche vero che il MSI mai si è
posto il problema di una chiarificazione con essa, o almeno con una parte
significativa, naturalmente all'insegna della par condicio. Di più: ha avuto
comportamenti truffaldini e ostili. Si è presentato sulla scena politica -anno
di grazia 1946- come Sinistra Nazionale pacifìcatrice e socializzatrice,
soprattutto per impulso, a tacer d'altri, di uomini come Giorgio Pini, Manlio
Sargenti, Ugo Clavenzani, Bruno Ricci, Diano Brocchi, per poi, liquidati
costoro, volgere la barra a destra e proporsi agli americani e alla borghesia
più timorata e timorosa come serbatoio di sperimentatissimi tecnici
dell'anticomunismo e dell'antisocialismo capaci di mostrare ai «rossi» fior di
muscoli, sia fisici sia, nei più pretenziosi, intellettuali. Ossia: la scelta di
accreditarsi -o di screditarsi?- come forza reazionaria è stata endogena, non
esogena. Opzioni diverse erano possibili. La strada verso il socialismo
nazionale poteva essere aperta; in piena autonomia culturale, politica,
organizzativa. E il dialogo-confronto se non subito con l'insieme della Sinistra
quanto meno con la parte al momento praticabile di essa, in attesa della sua
piena, totale, oggettiva disponibilità. Una operazione del genere, bene
impostata e diretta, sussidiata da adeguata tessitura teorica e da accorta
revisione storica -tale, cioè, da non gettare via il bambino insieme all'acqua
sporca-, avrebbe garantito all'impresa popolare-nazionale un premio anche in
termini di influenza, una non indifferente quota di egemonia sul movimento
operaio, popolare, di avanguardia democratica. In tal modo configurando appieno
una missione di nazionalizzazione delle masse e degli strumenti e istituti da
esse espressi senza uscire di un pollice dalla legalità repubblicana e
dall'assoluto ossequio alla Costituzione. Anzi! Viceversa, le varie segreterie
succedutesi hanno preferito la costruzione di un identikit di estrema destra, lo
scontro con i partiti del popolo, l'alleanza con le aggregazioni conservatrici,
la rappresentanza dei ceti moderati quando non addirittura retrivi.
Sic stantibus rebus, era immaginabile da parte della Sinistra un
trattamento difforme da quello effettivamente riservatogli?
* * *
E veniamo al ruolo governativo assunto dalla Destra «nazionale» in conseguenza
delle ondate berlusconiane del marzo e del giugno. Cominciando con lo stabilire
che noi, contrariamente a quanto possono credere nostri amici di AN -ne abbiamo,
e non certo di infima caratura intellettuale e politica-, non siamo affatto
contrari, in linea di principio, alla partecipazione del partito di Fini ad un
governo anche non costituito dalla Sinistra o privo della presenza tutta o parte
di essa. Non siamo, quindi, degli astratti estremisti, dei dottrinaristi ottusi,
dei moralisti fuori luogo e fuori stagione. Però abbiamo criticato e critichiamo
questa esperienza dei Poli Bortone, dei Tatarella, dei La Russa e via elencando
perché la sentiamo troppo innervata su di un rapporto ferrigno con un movimento
come Forza Italia, espressione immediata di quella che un tempo veniva definita
«destra economica», e con il suo leader, personaggio inoppugnabilmente dotato di
capacità non comuni ma straordinariamente appastato con la plutocrazia di cui è
parte elevata e integrante. Un uomo forte, costui, al contempo, talmente debole
da non riuscire mai a staccarsi -ad onta della prestigiosa carica istituzionale
che gli imporrebbe atteggiamenti sobri, controllati e, soprattutto, tutelati
rispetto alle turbolenze del dibattito politico- da questa sua matrice, fino al
punto di confondere in sé ruoli per definizione non confondibili. Vale a dire
quelli di primo governante della Repubblica e di odiatore viscerale, acceso,
sprezzante e vociante di varie forze politiche insidiatrici, a suo giudizio, di
una piena primazia imprenditoriale, di un esaustivo e straripante dominio
capitalista.
* * *
Ma neppure questa caratteristica del vero e maggior alleato della formazione
capeggiata dal giovane segretario felsineo ci avrebbe indotti a severe
valutazioni della sua linea di approccio ai poteri della Repubblica se egli
avesse stabilito per i «suoi» ministri e sottosegretari, per la «sua» componente
della maggioranza, collocazione e compiti nelle medesime ben diversi da quelli
suggeritigli, diciamo la verità, dalla sua natura fondamentalmente conservatrice
e moderata. Ciò che, in fondo, gli rimproveriamo è l'essersi ritagliato una
parte in commedia del tutto concretabile come estrema destra politica ruspante a
copertura e sostegno di una destra economica rampante. Se avesse viceversa
optato per un gioco più plausibile, convincente e fondamentalmente consono alle
tradizioni e culture cui il vecchio MSI asseriva volersi richiamare -per
esempio: il sindacalismo rivoluzionario, il fìumanesimo deambrisiano, ciò che il
De Felice illustra come «fascismo-movimento» di spirito sociale e libertario-
saremmo stati indotti, pur in mezzo a tanti dubbi, a giudicare differentemente e
in chiave di non malevola attesa un esperimento che, ove posto in essere con
energia e rigore, poteva venire in evidenza come utile argine alle spinte verso
il liberismo selvaggio e privatizzatore sia dei «padroni» di Forza Italia sia
dei «padroncini» della Lega. In altri termini il partito (ancora) della Fiamma
avrebbe dovuto rivendicare l'onore e l'onere di esprimersi nello schieramento
governativo in un ruolo di aggregazione popolare-nazionale, di ala marciante
socialmente impegnata, di sinistra cogestionaria. L'avere disertato questa
responsabilità, questo spazio, ha fatto sì che esso venisse occupato dalla nuova
sinistra liberale filo-cavaliere del ministro Giuliano Ferrara e dell'altro
ex-socialista Maurizio Sacconi (raggruppamento "Libertà e Responsabilità", con
simbolo ape d'argento stilizzata in campo azzurro), da qualche cristiano
democratico come il ministro del lavoro Mastella e perfino dalla colombaia
azzurra di Dotti, Urbani e Della Valle. Tanti bravi signori occupatissimi a
fare, dubcekianamente, i «berlusconiani dal volto umano» con interviste alla
melassa, mediazioni ovattate, diplomazie montecitoriali, mentre gli «alleati
nazionali», al riparo dell'Asse Arcore-Marino, montavano la guardia al bidone di
benzina. Forse ansiosi di liberarsi del qualificativo «sociale» tutto sommato
troppo impegnativo e pesante, annegandolo a gennaio in quell'Alleanza
sufficientemente generica come dicitura e sostanza per consentire il «riposo del
guerriero» sugli allori del Palazzo. Senza crearsi e creare troppi problemi.
Enrico Landolfi
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