«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno III - n° 7 - 30 Novembre 1994

 

Errato, oggi. il ruolo di Fini nella maggioranza
Il «rosso» attese, il «nero» chiamò

 

Gianfranco Fini esulta. Da «ragazzo di bottega» di Almirante -come incautamente e ingenerosamente e ineducatamente lo definivamo all'epoca del congresso di Sorrento- a «vero capo» della presunta maggioranza non di centro destra ma di destra, delle destre, ne ha fatto di strada! Gli inviti di grande livello che gli pervengono da varie parti delle terre emerse per spiegare ad assemblee autorevoli cosa sia codesto «postfascismo» ormai si sprecano. Così come le richieste di interviste a tutta pagina rivoltegli dalle più importanti testate edite in Italia e «al di là dei monti e al di là dei mari», come direbbe quel Mussolini che fino a non molto tempo fa gli ispirava il «fascismo del Duemila» mentre oggi gli sta tanto scomodo e tanto stretto. Inoltre, l'attenzione che alle sue parole e ai suoi comportamenti riservano politici, statisti e «dittatori dell'opinione» è addirittura fenomenale. Insomma, è l'uomo del giorno. E lui, spiegabilmente, crede di essere arrivato. Ritiene, ed è il meno che possa ritenere, di avere vinto. Anzi stravinto. Spiace dirlo perché, in fondo, non ci è antipatico, ma noi non siamo affatto persuasi della sua vittoria. Siamo, cioè, convinti che il segretario del MSI-DN nonché coordinatore di Alleanza Nazionale lungi dall'aver vinto si è soltanto limitato ad avere successo. E sia pure un grande successo. Fini avrebbe vinto se fosse riuscito a far «sdoganare», come oggi si dice con discutibile neologismo, non soltanto sé stesso e i propri amici -del partito come tale si è solamente infischiato, a cominciare da quel settore generazionalmente o culturalmente legato alla Repubblica Sociale Italiana- ma anche la parte migliore, ossia né caduca né improponibile, del patrimonio ideale proprio della tradizione storica cui, nel bene e nel male, il MSI pretese richiamarsi. «Pretese», diciamo, perché sovente la pretesa ebbe a rivelarsi inadeguatamente sorretta, o non sorretta affatto, da elaborazioni, enunciazioni, intenzioni, attitudini, strategie scarsamente ispirate ai doveri della coerenza, della onestà intellettuale, del rispetto verso quei giovani e non giovani che or è mezzo secolo ci rimisero la pelle in una scelta rischiosissima e in nessun modo gratificante, spiritualmente affascinati com'erano da grandi valori e da chi li incarnava. Osservazione, questa, forse, o senza forse, ostica a chi non gradisce che alieni ficchino il naso in faccende della propria area di riferimento. Ma allora si consultino scritti e testi delle allocuzioni del mai troppo compianto Giuseppe Niccolai. Se ne troverebbero delle belle!


* * *
Tutti coloro che in buona o cattiva fede, dentro e fuori la destra, disinteressatamente o meno, sciolgono inni al nuovo Cesare di Marino Laziale e fanno a gara nel cingergli l'ampia e pallida fronte con serti di alloro, bene farebbero a maturare qualche riflessione sul prezzo usuraio pagato -in termini di dissoluzione della identità- per ottenere da un plutocrate ringhiosamente reazionario e intemperantemente conservatore l'ingresso ai piani alti del Palazzo. Loro, gli eredi di quella che si piccava di essere una «rivoluzione», della RSI con relativa socializzazione e connesso Stato Nazionale del Lavoro, della polemica mussoliniana contro la «plutocrazia internazionale», delle altrettanto mussoliniane «mine sociali disseminate nella Valle padana», dei Punti del Manifesto di Verona nutriti di rivoluzionarismo proletario, ormai imborghesiti fino al midollo. Ridotti, insomma, a fare il controcanto ai magnificatori del liberismo selvaggio, emblematizzato nelle immagini di Reagan e della Tatcher; ad essere gli institori del capitalismo, i privatizzatori di privatizzazioni ideate per allargare esponenzialmente il dominio in chiave mondialista non soltanto del grande capitale indigeno ma anche delle multinazionali straniere. Che vergogna! Tutto ciò è ridicolo, prima ancora che tragico e colpevole. Altro che Gianfranco Superstar! E siccome in questo nostro amatissimo Paese la madre degli imbecilli è sempre gravida ecco qualcuno avventurarsi, sia pur con acconce parole, in un paragone fra Mussolini e Fini, ed addirittura con qualche punto a favore del secondo. Roba da matti, direbbe anche il più intransigente e irriducibile antifascista, pur se proclive ad apprezzare certe irrefutabili qualità del leader della ormai languente fiamma tricolore.


* * *
Gli «alleati nazionali» si affannano con gli alibi, come tutti coloro che sanno di non avere le carte in regola. Per esempio, affermano che non potevano lasciar cadere l'unica occasione offertagli per uscire da un ghetto in cui la Sinistra li ha confinati. Orbene, in questa asseverazione c'è indiscutibilmente dell'autentico vero, ma anche indubitabilmente dell'ambiguo giustificazionismo, di sicuro non saremo noi, che da una vita polemizziamo con comunisti poi pidiessini, con socialisti e con quant'altro sta a sinistra, per l'assenza nelle loro piattaforme e indicazioni strategiche di una positiva e dialogica politica verso gli spazi storico-culturali dove sono collocati i veri o presunti «fascisti». Tale nostra constatazione ha perfino assunto toni e contenuti duramente vertenziali lungo l'anno in via di esaurimento soprattutto nei confronti del PDS, di Occhetto e dell'occhettismo, che abbiamo accusato di essere fra i massimi responsabili del tracollo delle forze democratiche di avanguardia per avere sparato ferocemente e senza il benché minimo discernimento nel mucchio cosiddetto «nero», senza distinguere fra «popolari-nazionali» e «clerico-conservatori». Con il brillante risultato di regalare all'Asse Arcore-Marino la bellezza di cinque milioni e mezzo di voti sedicenti «fascisti». Ma, ciò detto, ci affrettiamo a rintuzzare le due tesi dei sostenitori di Gianfranco Fininvest: l'impossibilità di rapporti costruttivi con la Sinistra, con ogni tipo di Sinistra; l'inevitabilità del ruolo che oggi AN svolge nell'ambito di un governo come quello presieduto da Silvio Berlusconi.
Che la Sinistra sia un cliente piuttosto difficile per tutti pare assodato. Ne abbiamo testé fatto criticamente cenno. Ma è anche vero che il MSI mai si è posto il problema di una chiarificazione con essa, o almeno con una parte significativa, naturalmente all'insegna della par condicio. Di più: ha avuto comportamenti truffaldini e ostili. Si è presentato sulla scena politica -anno di grazia 1946- come Sinistra Nazionale pacifìcatrice e socializzatrice, soprattutto per impulso, a tacer d'altri, di uomini come Giorgio Pini, Manlio Sargenti, Ugo Clavenzani, Bruno Ricci, Diano Brocchi, per poi, liquidati costoro, volgere la barra a destra e proporsi agli americani e alla borghesia più timorata e timorosa come serbatoio di sperimentatissimi tecnici dell'anticomunismo e dell'antisocialismo capaci di mostrare ai «rossi» fior di muscoli, sia fisici sia, nei più pretenziosi, intellettuali. Ossia: la scelta di accreditarsi -o di screditarsi?- come forza reazionaria è stata endogena, non esogena. Opzioni diverse erano possibili. La strada verso il socialismo nazionale poteva essere aperta; in piena autonomia culturale, politica, organizzativa. E il dialogo-confronto se non subito con l'insieme della Sinistra quanto meno con la parte al momento praticabile di essa, in attesa della sua piena, totale, oggettiva disponibilità. Una operazione del genere, bene impostata e diretta, sussidiata da adeguata tessitura teorica e da accorta revisione storica -tale, cioè, da non gettare via il bambino insieme all'acqua sporca-, avrebbe garantito all'impresa popolare-nazionale un premio anche in termini di influenza, una non indifferente quota di egemonia sul movimento operaio, popolare, di avanguardia democratica. In tal modo configurando appieno una missione di nazionalizzazione delle masse e degli strumenti e istituti da esse espressi senza uscire di un pollice dalla legalità repubblicana e dall'assoluto ossequio alla Costituzione. Anzi! Viceversa, le varie segreterie succedutesi hanno preferito la costruzione di un identikit di estrema destra, lo scontro con i partiti del popolo, l'alleanza con le aggregazioni conservatrici, la rappresentanza dei ceti moderati quando non addirittura retrivi.
Sic stantibus rebus, era immaginabile da parte della Sinistra un trattamento difforme da quello effettivamente riservatogli?


* * *
E veniamo al ruolo governativo assunto dalla Destra «nazionale» in conseguenza delle ondate berlusconiane del marzo e del giugno. Cominciando con lo stabilire che noi, contrariamente a quanto possono credere nostri amici di AN -ne abbiamo, e non certo di infima caratura intellettuale e politica-, non siamo affatto contrari, in linea di principio, alla partecipazione del partito di Fini ad un governo anche non costituito dalla Sinistra o privo della presenza tutta o parte di essa. Non siamo, quindi, degli astratti estremisti, dei dottrinaristi ottusi, dei moralisti fuori luogo e fuori stagione. Però abbiamo criticato e critichiamo questa esperienza dei Poli Bortone, dei Tatarella, dei La Russa e via elencando perché la sentiamo troppo innervata su di un rapporto ferrigno con un movimento come Forza Italia, espressione immediata di quella che un tempo veniva definita «destra economica», e con il suo leader, personaggio inoppugnabilmente dotato di capacità non comuni ma straordinariamente appastato con la plutocrazia di cui è parte elevata e integrante. Un uomo forte, costui, al contempo, talmente debole da non riuscire mai a staccarsi -ad onta della prestigiosa carica istituzionale che gli imporrebbe atteggiamenti sobri, controllati e, soprattutto, tutelati rispetto alle turbolenze del dibattito politico- da questa sua matrice, fino al punto di confondere in sé ruoli per definizione non confondibili. Vale a dire quelli di primo governante della Repubblica e di odiatore viscerale, acceso, sprezzante e vociante di varie forze politiche insidiatrici, a suo giudizio, di una piena primazia imprenditoriale, di un esaustivo e straripante dominio capitalista.


* * *
Ma neppure questa caratteristica del vero e maggior alleato della formazione capeggiata dal giovane segretario felsineo ci avrebbe indotti a severe valutazioni della sua linea di approccio ai poteri della Repubblica se egli avesse stabilito per i «suoi» ministri e sottosegretari, per la «sua» componente della maggioranza, collocazione e compiti nelle medesime ben diversi da quelli suggeritigli, diciamo la verità, dalla sua natura fondamentalmente conservatrice e moderata. Ciò che, in fondo, gli rimproveriamo è l'essersi ritagliato una parte in commedia del tutto concretabile come estrema destra politica ruspante a copertura e sostegno di una destra economica rampante. Se avesse viceversa optato per un gioco più plausibile, convincente e fondamentalmente consono alle tradizioni e culture cui il vecchio MSI asseriva volersi richiamare -per esempio: il sindacalismo rivoluzionario, il fìumanesimo deambrisiano, ciò che il De Felice illustra come «fascismo-movimento» di spirito sociale e libertario- saremmo stati indotti, pur in mezzo a tanti dubbi, a giudicare differentemente e in chiave di non malevola attesa un esperimento che, ove posto in essere con energia e rigore, poteva venire in evidenza come utile argine alle spinte verso il liberismo selvaggio e privatizzatore sia dei «padroni» di Forza Italia sia dei «padroncini» della Lega. In altri termini il partito (ancora) della Fiamma avrebbe dovuto rivendicare l'onore e l'onere di esprimersi nello schieramento governativo in un ruolo di aggregazione popolare-nazionale, di ala marciante socialmente impegnata, di sinistra cogestionaria. L'avere disertato questa responsabilità, questo spazio, ha fatto sì che esso venisse occupato dalla nuova sinistra liberale filo-cavaliere del ministro Giuliano Ferrara e dell'altro ex-socialista Maurizio Sacconi (raggruppamento "Libertà e Responsabilità", con simbolo ape d'argento stilizzata in campo azzurro), da qualche cristiano democratico come il ministro del lavoro Mastella e perfino dalla colombaia azzurra di Dotti, Urbani e Della Valle. Tanti bravi signori occupatissimi a fare, dubcekianamente, i «berlusconiani dal volto umano» con interviste alla melassa, mediazioni ovattate, diplomazie montecitoriali, mentre gli «alleati nazionali», al riparo dell'Asse Arcore-Marino, montavano la guardia al bidone di benzina. Forse ansiosi di liberarsi del qualificativo «sociale» tutto sommato troppo impegnativo e pesante, annegandolo a gennaio in quell'Alleanza sufficientemente generica come dicitura e sostanza per consentire il «riposo del guerriero» sugli allori del Palazzo. Senza crearsi e creare troppi problemi.


Enrico Landolfi

Indice