«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 1 - 31 Gennaio 1995

 

Forse è un muro, ma di cristallo...



Attraverso il quale ognuno può scrutare. Scorgerne le miserie, le sofferenze, i sacrifici, lo smarrimento ma anche la febbre che ne scuote le vene e che potrebbe placarsi alla luce solare della rivolta.
Chiedi a me ed alla redazione, amico Donnici, di pronunciarci in merito al tema che spesso traspare da queste pagine: fascismo - msi alleanza nazionale. Muovi il rimprovero che troppe volte questa rivista è tribuna di piagnistei, di vane recriminazioni, di inutili rimpianti. Io posso replicare dicendo che non tutti gli uomini possono capire quanto sia affollata la solitudine, quanto frastuono produca il silenzio, quanto inutili siano le discussioni sulla illusione e sulla disillusione. Ma la conoscenza degli uomini (forse con un pizzico di arroganza) presumiamo di averla io, tu e qualcun altro. Così come tutti sanno che l'uomo non mette limite alla ricerca della conoscenza, pochi son quelli che hanno in conto i confini entro i quali possono agire e quanto sia ancor più labile la barriera della propria esistenza. Che non è immortale. Poni dei paletti: «... se questa rivista dovesse continuare ad essere tribuna per gli orfani [...], io non ci sto più. Dovrò rassegnare le dimissioni dal comitato di redazione, non senza amarezza».
Mi ha ferito questa frase. Perché tu sei tra coloro che, più di ogni altro, ha fatto sì che questo foglio potesse raccogliere l'eredità morale de "L'Eco della Versiila": assoluta indipendenza, libera palestra per il dibattito di idee e di polemiche. Che non si possono irreggimentare. E perché siamo poca cosa, e perché l'apporto di voci contraddittorie -di altre «aree»- è praticamente nullo. Talché mi viene spontanea la domanda: dove sta il muro? Ovvero: ci sono idee dall'altra parte? Se escludo il caro amico Enrico Landolfi, altre voci che permettano il dibattito non ve ne sono. Chi ha frequentazione di altri laboratori politici (vedi Umberto Croppi), dovrebbe riuscire a trovare il tempo di far conoscere le proprie esperienze anche su queste pagine. Perché non avviene? È pigrizia fisica o mentale?
Io so, prove alla mano, che questo foglio viene letto con interesse ed attenzione da uomini fino a ieri nemici -sì, nemici-, non avversari. Uomini con i quali, in un lontano passato, potemmo «colloquiare» (e lo facemmo) soltanto a colpi di mitra. Ebbene, uno di loro, personalità di spicco, galloni guadagnati in battaglia, pochi mesi fa mi disse: «Occorre chiedersi dove abbiamo sbagliato, noi e voi». Noi e voi. Terribile, amico Donnici. Noi e voi. Sangue. E quella frase mi martella il cervello, mi corrode i pensieri, mi fa sentire in colpa. Una colpa che so di poter condividere con loro ma non per questo riesco ad alleviare il dolore che essa produce.
Perché? Ma... forse perché... la maggiore responsabilità ricade su di noi «... che ci ha spesso trasformato in strumenti, altre volte in utili idioti». Che abbiamo fatto tralignare le nostre radici -nate dallo stesso ceppo- per innestarci su arbusti che producevan frutti promettenti alla vista ed alle labbra, ma che ci gettavano poi nell'ombra, nei tristi crepuscoli. Sicché noi tradimmo quella mèta presentita e attesa da innumerevoli generazioni e costringemmo le nostre, assetate di luce, ad avviarsi incontro alla notte imprecando ai loro dolori ed alle loro speranze. Ha ragione Leo Valiani quando scrive ("Corriere della Sera", 22.1.1995): «II programma che i Fasci di combattimento adottarono nel 1919 era un programma di democrazia radicale. Le violenze squadristiche lo trasformarono nell'anticamera della dittatura». Ben detto, almeno questo - anche se un po' in ritardo, per la verità. Poiché il pregio di quel programma venne addirittura esaltato su "Stato Operaio" (n° 8, agosto '36), da Togliatti, il quale scrisse: «Popolo italiano! Fascisti, della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori».
Ora, davanti a chi ha sacrificato l'idea all'interesse, davanti a chi ha sbavato sarcasmo sulle nostre ferite e sulle nostre speranze dovremmo ammainare le nostre bandiere? Di costoro non ne siamo mai stati i «bravi», tant'è che ne veniamo ripagati con disprezzo e rancore. Perciò, noi possiamo andare oltre. Al di sopra dei conflitti, delle ire di parte, dei contrasti che si frappongono.
Bandiere rosse e bandiere nere? Perché no! Sono colori «coprenti». Colori antichi. La stoffa di queste bandiere è intessuta con valori che hanno conosciuto nembi di fuoco, tempeste di pianto, oscurità di gramaglie. Ha addosso le cicatrici di tutti gli odi e sventure ma, insieme e ciascuno con la propria visione del mondo, possono cancellare l'azzurro dei massoni berlusconiani e dei loro fratelli finioti.
Bandiere che possono diventare il vessillo di un popolo che cammina ancora ignaro -e rassegnato- sotto il peso dell'ingiuria, per distoglierlo dall'applauso facile, dall'elogio servile, dall'inchino al turibolo, dalla genuflessione sotto lo scudiscio, dall'incantamento televisivo, dalla lusinga, dalla sottomissione alla rampogna. Per fargli capire che se all'ombra del suo tormento c'è stato chi s'è empito il sacco, vi è altri che il 27 marzo l'ha nuovamente tentato e non desiste dal tentarlo ancora, fidente com'è nel ritenere cronica l'alterazione mediatica che ha iniettato nelle vene degli italiani.
Senza quelle bandiere, un popolo di bisognosi che non chiede elemosina -e gliene viene merito-, non può mettere le mani avanti per vantare i diritti. Diritto alla proprietà della casa, al posto di lavoro, all'istruzione gratuita. Ad una dignitosa pensione d'anzianità. La quale non deve avere frontiere (da una parte la fame, dall'altra l'ingorda sazietà) perché, semmai, la decadenza fisica colpisce in modo accentuato chi ha vissuto una vita di stenti e quotidiani sacrifici per sopravvivere. Ed ha il diritto, in tarda età, ad acquisire il meritato riposo che possa consentirgli di trascorrere, il tempo che rimane, in modo tranquillo e in completa indipendenza. I doveri, a cui spesso ricorrono i demagoghi della politica e della «tecnica», vengono dopo, sempre che ci siano. La tanto agognata società del «libero mercato» auspicata dai politici e «tecnici» attuali, si scontra aspramente con quella inestinguibile del «dare e avere». Chi ha dato deve avere. Dando, egli ha maturato, con quel gesto, un «diritto», quindi, l'assolvimento del «dovere» spetta soltanto a chi, volontariamente, ha assunto su di sé l'obbligo morale per l'adempimento di esso. Ovvero a colui che dice di rappresentare lo Stato o la «tecnica» e che legifera, sempre, in guisa tale che gli interessi delle caste più abbienti non vengano minimamente scalfiti per assicurare, a sé stesso, liquidazioni iperboliche (ed è in questi casi che vanno poste invalicabili frontiere). Infatti, al potere, ieri come oggi, sono sempre saliti uomini abitualmente dediti alla transazione con il moderatismo, assecondandone i privilegi, la speculazione in borsa, il quieto vivere.
Nessuno è mai riuscito ad imprimere questi semplici concetti nel cuore del nostro popolo. A fargli capire che non è più tempo di vivere e sperare, di soffrire e vivere; che ogni tentativo di cambiare deve essere un assalto e ogni mèta prefissa una conquista; che non si baratta l'orgoglio con la pietà. Occorrono nuovi referenti. Dove sono? Chi impedirà che si frantumino definitivamente le colonne troncate affinchè su di esse non si levino le logge dei mercati? Chi seminerà per assicurare alle nuove generazioni la mietitura?
Dov'è la Sinistra? Dov'è il PDS? Che fa? Oggi scorre nel letto della Storia come rumorosa ondeggiante fiumana almeno quanto la Destra e di essa ne accetta e condivide quasi tutti i temi. La rivoluzione è finita nel compromesso, anzi, no, nel video. Ma la rivoluzione non è spettacolo, bensì mutamento radicale dell'ordine statuale e sociale, nei suoi aspetti economici e politici.
Io voglio credere, amico Donnici, che la tua sia stata una provocazione con l'intento di scuotere non tanto gli «ambienti» o le «aree», ma gli uomini. Quelli che non «inseguono sentimenti, risentimenti, ombre, fantasmi». E per loro, con loro, "Tabularasa" continuerà a vivere, anche nella speranza che gli «altri» si facciano vivi.


Antonio Carli

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