«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 1 - 31 Gennaio 1995

 

Prime considerazioni sul centone-ribaltone che tiene a battesimo Alleanza Nazionale
«Gianfranco. Gianfranco. Rendimi le mie legioni!»


Se l'on. Gianfranco Fini ritiene di essere sicuramente in grado di consegnare la sua Immagine alla Storia con le «Tesi» elaborate per il congresso di fondazione di Alleanza Nazionale, pensiamo si sbagli di grosso. Infatti, trattasi di un sesquipedale, caleidoscopico centone, tenuto ambiguamente insieme da un poco raccomandabile collante: la totale mancanza di generosità verso sé, i «suoi», gli «altri».
Verso sé e i «suoi»: nel senso di gettare nella spazzatura tutta la propria tradizione, tutto il proprio mondo ideale, tutta la propria sofferta esperienza, tutta l'eredità spirituale storica e ideologica bagnata da tanto sangue e purificata -nei suoi aspetti discutibili o addirittura deteriori e censurabili- dal sacrificio e dal dolore di varie generazioni. Insomma: la solita storia del bambino e dell'acqua sporca gettati via insieme, dopo aver invocato per mezzo secolo ogni beneficio d'inventario possibile e immaginabile.
Verso gli «altri»: nel senso di rinunciare alla vera pacificazione fra gli italiani l'un contro l'altro armati su ambedue i versanti e all'interno del versante nord della Linea Gotica, illudendosi -o fingendo di illudersi- che il tanto conclamato e invocato superamento delle antiche contrapposizioni possa realizzarsi con qualche frettolosa visita alle Fosse Ardeatine alla vigilia di una campagna elettorale, o magari riconciliandosi con la... FININVEST e stringendo la mano a qualche rudere badogliano plurigallonato con il cervello liquefatto e la prostata in disordine. Ignorando -diciamo pure così- che il grande evento della ricomposizione nazionale potrà aversi soltanto a due precise condizioni:
I) che insieme a coloro che incarnano o ereditano la tradizione monarchica del Regno del Sud ne siano protagonisti, anzitutto e soprattutto, i grandi partiti popolari -non solo quelli della Sinistra, intendiamoci-, legatari dei valori di riferimento delle milizie resistenziali;
II) che non si tratti di retorica patriottarda formalistica e strumentale, di facciata, ma del comune confluire su di una piattaforma culturale programmatica, di taglio sociale e nazionale, diretta alla «rivoluzionaria» ancorché graduale costruzione della nuova Italia che entra nel Terzo Millennio.

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Nel secondo capitolo delle «Tesi» ("Valori e principii") leggiamo anzitutto quanto segue: «Da essa, dalla libertà, discende la nostra concezione dello Stato, della società, dei rapporti economici. Ad essa si ispira l'azione politica tesa all'affermazione della persona umana, della destra italiana. [...] Per questo non si può identificare la destra politica con il fascismo e nemmeno istituire una discendenza diretta da questo. [...] La Destra politica non è figlia del fascismo. I valori della Destra preesistono al fascismo, lo hanno attraversato e ad esso sono sopravvissuti. [...] Le radici culturali della Destra affondano nella storia italiana, prima, durante e dopo il Ventennio. [...] Di un chiaro rapporto con la storia del Novecento non ha tuttavia necessità solo la Destra, che deve fare i conti con il fascismo al pari di quanto altri debbono fare con l'antifascismo. Se è infatti giusto chiedere alla Destra italiana di affermare senza reticenze che l'antifascismo fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcati etc. etc. etc. ...»
Orbene, con tutto il rispetto possibile e immaginabile per l'antifascismo, noi affermiamo che l'on. Fini -forse nell'ansia di accreditare nella massima misura e nel minimo possibile il suo ribaltone dalla linea del «Fascismo del Duemila» a quella di un antifascismo cauto e controllato- prende un granchio colossale con il concetto esposto nell'ultimo periodo del brano testé riportato. Se anche nel '43-'45 l'Italia non avesse conosciuto l'exploit di un antifascismo organizzato, di massa, combattente, protagonista storico con i CLN a livello militare e politico, -ossia il vero antifascismo, la Resistenza, armata o meno che fosse-, essa avrebbe avuto lo stesso «il ritorno dei valori democratici conculcati dal fascismo», per dirla con l'ineffabile allievo di Giorgio Almirante, suo celeberrimo predecessore sul soglio del MSI-DN, illustratosi per un perfino ringhioso dogmatismo mussoliniano lungo tutto l'iter della sua leadership plurilustre. L'Italia, cioè, sarebbe stata democratica anche nell'ipotesi, assurdissima, che tutti gli italiani, dal primo all'ultimo, avessero professato sentimenti fascisti, perché il messaggio democratico faceva tutt'uno con l'avanzata dei poderosi eserciti degli Alleati e i criminali, terroristici, stragistici bombardamenti indiscriminatamente effettuati anche su obbiettivi civili dalle fortezze volanti.
Così come, del resto, avvenuto in Germania e in Giappone, dove, malgrado quanto astutamente propagandato da qualche film di comodo, la Resistenza o non ci fu o si limitò soprattutto alla congiura di alcuni alti gradi della Wehrmacht di origine aristocratica e di sentimenti conservatori -classica operazione priva di radici popolari-, ribellatisi a Hitler quando risultò chiaro che la dissennata sfida lanciata pressocché a tutto il mondo stava sfociando nella immane, allucinante catastrofe di cui sappiamo (nonostante, sia detto non per apologia ma per puro ossequio alla verità storica), gli sforzi di Mussolini per contenere le pulsioni belliciste del nazismo, non coronati da successo anche per il suo isolamento rispetto alle democrazie.
Morale della favola: il leader della Destra, prima di produrre o di autorizzare strafalcioni del genere, è bene che rifletta di più e meglio su queste cose, magari razionalizzando i suoi bollori di neofita «liberaldemocratico». Ma proprio mentre ci permettiamo di umilmente avanzargli queste modestissime osservazioni, cogliamo un'altra impressionante «verità interna» nell'ansioso dissociazionismo storico e ideologico del già «fascista del 2000».
Vediamo. Se veramente egli pensa che «è giusto chiedergli di affermare senza reticenza che l'antifascismo fu il momento storicamente essenziale» per il recupero di una democrazia liquidata dal regime fascista, ebbene alla luce di tale impegnatissima dichiarazione muta radicalmente la posizione sua, dei suoi uomini, del suo MSI-AN verso cose, fatti, eventi di eccezionale importanza. Per esempio, e tanto per limitarci a uno solo di essi, la seconda guerra mondiale, ivi compreso, ovviamente, il periodo della Repubblica Sociale Italiana. Se, infatti, l'antifascismo è decisivo per il trionfo degli ideali nei quali Fini e sodali oggi tanto ardentemente e arditamente dicono di riconoscersi in via definitiva, allora non possono che idealmente e psicologicamente cambiare fronte, passare cioè dalla parte degli angloamericani e della dissidenza antifascista ad essi collegata, che si esprimeva attraverso le «loro» radio. Radio Londra, per dirne una. E non quella del loro commilitone politico Giuliano Ferrara -fiore all'occhiello della berlusconiana Rete Quattro, fino all'ingresso del noto falco Bretelle Rosse nel governo del Cavaliere Azzurro-, bensì in quella in funzione durante la guerra nella capitale britannica, dove facevano il bello e il cattivo tempo i vari Colonnello Stevens, Umberto Calosso, Paolo Treves, Candidus e via elencando.
E per quanto poi concerne la guerra civile '43-'45, a mezzo secolo di distanza il loro posto, sempre idealmente e psicologicamente parlando, non può che essere nel Ciellenne e nelle formazioni partigiane. Tutto questo, si capisce, se la logica è ancora moneta spendibile nei partiti italiani e, soprattutto, nella Destra riformata da Gianfranco Fini con la partecipazione straordinaria di Pinuccio Tatarella, ministro cosiddetto «dell'armonia» nel governo più disarmonico che mai abbia alloggiato nelle stanze di Palazzo Chigi.
Intendiamoci, non stiamo facendo processi. Non stiamo né accusando né polemizzando in materie che non ci competono. Stiamo solo astrattamente incuriosendoci su di un percorso ben arduo per un missino della più bell'acqua, anzi il primo dei missini. Per di più della covata almirantiana, ossia quella della intransigenza assoluta -per lo meno a parole- nei confronti di tutto ciò che non fosse fascismo puro e duro. Insomma, una specie di Scuola di Mistica Fascista di ritorno. Troppo divertente! C'è da credere che una di queste notti Augusto/Benito apparirà in sogno a Varo/Gianfranco per gridargli: «Gianfranco, Gianfranco, rendimi le mie legioni!»

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Il brano su cui veniamo discettando contiene pure autentiche sciocchezze, o addirittura contraffazioni. Per esempio, quando afferma che «la promozione dell'antifascismo da momento storico contingente a ideologia fu operata dai paesi comunisti e dal PCI per legittimarsi durante tutto il dopoguerra». Saremmo proprio interessati a sapere quale pomposo avventurista del pensiero ha dettato per il lungometraggio «ideologico» di Alleanza Nazionale assurdità del genere. Anzitutto, i «paesi comunisti» -che poi comunisti non erano, perché ancora legati alla fase della cosiddetta «democrazia popolare», ossia un regime burocratico-collettivista gestito autoritariamente da un ristretto gruppo dominante in partiti eterodiretti da Mosca- solennemente si infischiavano della «legittimazione» antifascista così come di qualunque altra, in quanto l'ingresso vittorioso dell'Armata Rossa nei loro confini li esimeva da raffinate problematiche di questo tipo. Quanto al PCI, è assolutamente falso che in esso si rispecchiasse la frazione dura dell'antifascismo, il suo braccio violento. Tutt'altro! Questo ruolo era tenuto nel ciellenismo dagli azionisti e, purtroppo, dai socialisti -salvo eccezioni quali Codignola (P.d'A.) e Bonfantini (PSIUP)-, impegnati in una critica insensata ai comunisti e, soprattutto, a Togliatti, non soltanto per l'amnistia ai fascisti (compresi pezzi da novanta del Regime littorio, come un Federzoni) ma anche per i toni relativamente «morbidi» dell'epurazione, per gli «eccessi» giustificazionistici nei confronti del volontariato RSI, per la manica larga nell'immissione di ex-fascisti nei ranghi del partito anche con incarichi rilevanti, per l'incoraggiamento a sindacalisti e fascisti di sinistra non pregiudizialmente nemici dei «rossi» a raggrupparsi in piena indipendenza organizzativa e ideologica, al fine di autonomamente contribuire allo sviluppo di una politica popolare fondata sul movimento operaio e contadino. E, insomma, per tutto un complesso di atteggiamenti e iniziative indirizzati nel senso del massimo di riconciliazione concretamente possibile, nel contesto di quegli anni bui e incandescenti.
Naturalmente, qui si fa riferimento al PCI ufficiale. Certo, al Nord la musica era ben diversa, perché lì, inevitabilmente, tutta la situazione era in mano a Secchia e Longo, a loro volta scavalcati dai delinquenti non soltanto politici delle varie Volanti Rosse, dei vari «triangoli della morte», delle varie formazioni infoibatrici dei titoisti o filo-titoisti di lingua italiana. Ma pur senza voler mitizzare Togliatti e il suo compito «nazionale» -vero e non presunto solo nella misura in cui gli veniva consentito dai vincoli internazionali, dalla storia personale, dagli umori di un partito complesso e difficile-, onestà comanda di riconoscere che egli sempre si oppose all'estremismo secchiano finché non gli riuscì, nel '55, di liquidarlo una volta per tutte. Del resto, non sono poche le testimonianze che avallano un giudizio sul «Migliore» sotto questo riguardo positivo. Quella di Italo De Feo, anzitutto, suo stretto collaboratore prima di una rottura destinata a farne un anticomunista militante di particolare durezza, che ne descrive i tesissimi rapporti con Pietro Secchia e la sua corrente in un godibilissimo volume dal titolo "Tre anni con Togliatti". Quindi, quella, di... Gianfranco Fini, che di recente si è così espresso: «Almirante ha avuto il merito di inserire il reducismo fascista nel quadro democratico, così come identica operazione positiva fece Togliatti con le masse comuniste reduci dalla Resistenza». Citiamo a memoria, pertanto non giureremmo sulla corrispondenza formale di questa frase alle parole effettivamente pronunciate dal leader della Destra, però siamo sicuri di non equivocare su soggetti, oggetti e concetti. Peraltro, in una prossima occasione non mancheremo di soffermarci sui seri limiti sia dell'operato togliattiano che di quello almirantiano.

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A chi ha le nostre idee può perfino capitare di trovarsi d'accordo con i compilatori del documento finesco allorché esprimono punti di vista e prospettive apprezzabili per motivi diversi da differenti sponde. Come, a proposito del rapporto storico-ideologico fra Destra e Fascismo. Verissimo, è scorretto sostenere una identificazione fra di essi o anche una filiazione della prima dal secondo. Però, a giudizio nostro e di tanti altri in possesso di una autorevolezza che noi non siamo certo in grado di vantare, è perfettamente corretto affermare che la Destra -sia nei suoi aspetti di classe che con i suoi contenuti culturali- si inserì in modo devastante in un movimento originariamente libertario, democratico, rivoluzionario, popolare-nazionale quale quello dei Fasci sansepolcristi, attiva e combattiva componente della sinistra interventista. Caratteristiche, queste, così autentiche da consentire a un Pietro Nenni di aderirvi all'atto della fondazione, salvo allontanarsene quando fu chiaro che i misoneisti stavano mettendo sopra le mani profittando dell'altrettanto devastante settarismo dei socialisti, di null'altro desiderosi che di arrivare alla resa dei conti con un Mussolini «traditore» solo perché fautore di un interventismo predicato e praticato da fior di formazioni di sinistra, da rivoluzionari militanti di grande fama e prestigio, dai massimi partiti della Internazionale Socialista collocati nell'ambito dei due blocchi nemici.
La Destra dentro il Fascismo vi fece masserizie, politicamente parlando -esattamente come farà, mutatis mutandis, dentro il Movimento Sociale Italiano nel secondo dopoguerra- conquistandovi cioè e gestendovi una pesante egemonia. E tuttavia, ciò malgrado, mai riuscirà a fare del Regime, complessivamente considerato, una costruzione ideologica, statuale, spirituale, psicologica totalmente, permanentemente, irrimediabilmente di destra, perché la realtà del Ventennio era dicotomica, come ben mostra e dimostra il De Felice allorché individua due grandi filoni: il fascismo-istituzione e il fascismo-movimento. L'uno moderato, l'altro rivoluzionario. L'uno nazional-conservatore, l'altro nazionale-popolare. E basta leggere le memorie di Tullio Cianetti, il più autorevole sindacalista dell'epoca e ultimo ministro delle Corporazioni, i saggi di due studiosi di valore come Francesco Perfetti e Giuseppe Parlato sul sindacalismo fascista, per rendersi conto che nell'ambito dell'assetto totalitario ferveva, e neppure tanto sotterraneamente, una vera e propria lotta di classe anche a livello più squisitamente politico. Il Cianetti non soltanto non se ne scandalizzava ma arrivava perfino ad ammetterla come fenomeno, a certe condizioni, positivo e degno di teorizzazione. E Mussolini? La realpolitik non poteva che indurlo a collegarsi, nel presente, prevalentemente con la «istituzione», pur senza rinunciare a scegliere il «movimento» al momento giusto. Il quale gli sembrò arrivato nella primavera del '43, quando, insieme al testé citato ministro, divisò la socializzazione delle grandi industrie nazionali a cominciare dalla FIAT, così inaugurando una svolta che assumerà forma e contenuto con le leggi di applicazione dei postulati socializzatori del Manifesto di Verona.
Gianfranco Fini e i suoi «teorici» sono andati oltre la tradizione dell'ala conservatrice -e devastatrice- del Fascismo. Sono finiti nella deriva reazionaria, nell'ultraliberismo di indole tatcheriana e reaganiana, nel patto di ferro con quella che una volta si definiva la «destra economica», nella Crociata maccartysta contro i partiti popolari e di classe. Riteniamo che, tutto considerato, non andranno lontano. E speriamo appassionatamente di non sbagliarci.


Enrico Landolfi

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