Prime
considerazioni sul centone-ribaltone che tiene a battesimo Alleanza Nazionale
«Gianfranco.
Gianfranco. Rendimi le mie legioni!»
Se l'on. Gianfranco Fini ritiene di essere sicuramente in grado di consegnare la
sua Immagine alla Storia con le «Tesi» elaborate per il congresso di fondazione
di Alleanza Nazionale, pensiamo si sbagli di grosso. Infatti, trattasi di un
sesquipedale, caleidoscopico centone, tenuto ambiguamente insieme da un poco
raccomandabile collante: la totale mancanza di generosità verso sé, i «suoi»,
gli «altri».
Verso sé e i «suoi»: nel senso di gettare nella spazzatura tutta la propria
tradizione, tutto il proprio mondo ideale, tutta la propria sofferta esperienza,
tutta l'eredità spirituale storica e ideologica bagnata da tanto sangue e
purificata -nei suoi aspetti discutibili o addirittura deteriori e censurabili-
dal sacrificio e dal dolore di varie generazioni. Insomma: la solita storia del
bambino e dell'acqua sporca gettati via insieme, dopo aver invocato per mezzo
secolo ogni beneficio d'inventario possibile e immaginabile.
Verso gli «altri»: nel senso di rinunciare alla vera pacificazione fra gli
italiani l'un contro l'altro armati su ambedue i versanti e all'interno del
versante nord della Linea Gotica, illudendosi -o fingendo di illudersi- che il
tanto conclamato e invocato superamento delle antiche contrapposizioni possa
realizzarsi con qualche frettolosa visita alle Fosse Ardeatine alla vigilia di
una campagna elettorale, o magari riconciliandosi con la... FININVEST e
stringendo la mano a qualche rudere badogliano plurigallonato con il cervello
liquefatto e la prostata in disordine. Ignorando -diciamo pure così- che il
grande evento della ricomposizione nazionale potrà aversi soltanto a due precise
condizioni:
I) che insieme a coloro che incarnano o ereditano la tradizione monarchica del
Regno del Sud ne siano protagonisti, anzitutto e soprattutto, i grandi partiti
popolari -non solo quelli della Sinistra, intendiamoci-, legatari dei valori di
riferimento delle milizie resistenziali;
II) che non si tratti di retorica patriottarda formalistica e strumentale, di
facciata, ma del comune confluire su di una piattaforma culturale programmatica,
di taglio sociale e nazionale, diretta alla «rivoluzionaria» ancorché graduale
costruzione della nuova Italia che entra nel Terzo Millennio.
* * *
Nel secondo capitolo delle «Tesi» ("Valori e principii") leggiamo anzitutto
quanto segue: «Da essa, dalla libertà, discende la nostra concezione dello
Stato, della società, dei rapporti economici. Ad essa si ispira l'azione
politica tesa all'affermazione della persona umana, della destra italiana. [...]
Per questo non si può identificare la destra politica con il fascismo e nemmeno
istituire una discendenza diretta da questo. [...] La Destra politica non è
figlia del fascismo. I valori della Destra preesistono al fascismo, lo hanno
attraversato e ad esso sono sopravvissuti. [...] Le radici culturali della
Destra affondano nella storia italiana, prima, durante e dopo il Ventennio.
[...] Di un chiaro rapporto con la storia del Novecento non ha tuttavia
necessità solo la Destra, che deve fare i conti con il fascismo al pari di
quanto altri debbono fare con l'antifascismo. Se è infatti giusto chiedere alla
Destra italiana di affermare senza reticenze che l'antifascismo fu il momento
storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo
aveva conculcati etc. etc. etc. ...»
Orbene, con tutto il rispetto possibile e immaginabile per l'antifascismo, noi
affermiamo che l'on. Fini -forse nell'ansia di accreditare nella massima misura
e nel minimo possibile il suo ribaltone dalla linea del «Fascismo del Duemila» a
quella di un antifascismo cauto e controllato- prende un granchio colossale con
il concetto esposto nell'ultimo periodo del brano testé riportato. Se anche nel
'43-'45 l'Italia non avesse conosciuto l'exploit di un antifascismo organizzato,
di massa, combattente, protagonista storico con i CLN a livello militare e
politico, -ossia il vero antifascismo, la Resistenza, armata o meno che fosse-,
essa avrebbe avuto lo stesso «il ritorno dei valori democratici conculcati dal
fascismo», per dirla con l'ineffabile allievo di Giorgio Almirante, suo
celeberrimo predecessore sul soglio del MSI-DN, illustratosi per un perfino
ringhioso dogmatismo mussoliniano lungo tutto l'iter della sua leadership
plurilustre. L'Italia, cioè, sarebbe stata democratica anche nell'ipotesi,
assurdissima, che tutti gli italiani, dal primo all'ultimo, avessero professato
sentimenti fascisti, perché il messaggio democratico faceva tutt'uno con
l'avanzata dei poderosi eserciti degli Alleati e i criminali, terroristici,
stragistici bombardamenti indiscriminatamente effettuati anche su obbiettivi
civili dalle fortezze volanti.
Così come, del resto, avvenuto in Germania e in Giappone, dove, malgrado quanto
astutamente propagandato da qualche film di comodo, la Resistenza o non ci fu o
si limitò soprattutto alla congiura di alcuni alti gradi della Wehrmacht di
origine aristocratica e di sentimenti conservatori -classica operazione priva di
radici popolari-, ribellatisi a Hitler quando risultò chiaro che la dissennata
sfida lanciata pressocché a tutto il mondo stava sfociando nella immane,
allucinante catastrofe di cui sappiamo (nonostante, sia detto non per apologia
ma per puro ossequio alla verità storica), gli sforzi di Mussolini per contenere
le pulsioni belliciste del nazismo, non coronati da successo anche per il suo
isolamento rispetto alle democrazie.
Morale della favola: il leader della Destra, prima di produrre o di autorizzare
strafalcioni del genere, è bene che rifletta di più e meglio su queste cose,
magari razionalizzando i suoi bollori di neofita «liberaldemocratico». Ma
proprio mentre ci permettiamo di umilmente avanzargli queste modestissime
osservazioni, cogliamo un'altra impressionante «verità interna» nell'ansioso
dissociazionismo storico e ideologico del già «fascista del 2000».
Vediamo. Se veramente egli pensa che «è giusto chiedergli di affermare senza
reticenza che l'antifascismo fu il momento storicamente essenziale» per il
recupero di una democrazia liquidata dal regime fascista, ebbene alla luce di
tale impegnatissima dichiarazione muta radicalmente la posizione sua, dei suoi
uomini, del suo MSI-AN verso cose, fatti, eventi di eccezionale importanza. Per
esempio, e tanto per limitarci a uno solo di essi, la seconda guerra mondiale,
ivi compreso, ovviamente, il periodo della Repubblica Sociale Italiana. Se,
infatti, l'antifascismo è decisivo per il trionfo degli ideali nei quali Fini e
sodali oggi tanto ardentemente e arditamente dicono di riconoscersi in via
definitiva, allora non possono che idealmente e psicologicamente cambiare
fronte, passare cioè dalla parte degli angloamericani e della dissidenza
antifascista ad essi collegata, che si esprimeva attraverso le «loro» radio.
Radio Londra, per dirne una. E non quella del loro commilitone politico Giuliano
Ferrara -fiore all'occhiello della berlusconiana Rete Quattro, fino all'ingresso
del noto falco Bretelle Rosse nel governo del Cavaliere Azzurro-, bensì in
quella in funzione durante la guerra nella capitale britannica, dove facevano il
bello e il cattivo tempo i vari Colonnello Stevens, Umberto Calosso, Paolo
Treves, Candidus e via elencando.
E per quanto poi concerne la guerra civile '43-'45, a mezzo secolo di distanza
il loro posto, sempre idealmente e psicologicamente parlando, non può che essere
nel Ciellenne e nelle formazioni partigiane. Tutto questo, si capisce, se la
logica è ancora moneta spendibile nei partiti italiani e, soprattutto, nella
Destra riformata da Gianfranco Fini con la partecipazione straordinaria di
Pinuccio Tatarella, ministro cosiddetto «dell'armonia» nel governo più
disarmonico che mai abbia alloggiato nelle stanze di Palazzo Chigi.
Intendiamoci, non stiamo facendo processi. Non stiamo né accusando né
polemizzando in materie che non ci competono. Stiamo solo astrattamente
incuriosendoci su di un percorso ben arduo per un missino della più bell'acqua,
anzi il primo dei missini. Per di più della covata almirantiana, ossia quella
della intransigenza assoluta -per lo meno a parole- nei confronti di tutto ciò
che non fosse fascismo puro e duro. Insomma, una specie di Scuola di Mistica
Fascista di ritorno. Troppo divertente! C'è da credere che una di queste notti
Augusto/Benito apparirà in sogno a Varo/Gianfranco per gridargli: «Gianfranco,
Gianfranco, rendimi le mie legioni!»
* * *
Il brano su cui veniamo discettando contiene pure autentiche sciocchezze, o
addirittura contraffazioni. Per esempio, quando afferma che «la promozione
dell'antifascismo da momento storico contingente a ideologia fu operata dai
paesi comunisti e dal PCI per legittimarsi durante tutto il dopoguerra». Saremmo
proprio interessati a sapere quale pomposo avventurista del pensiero ha dettato
per il lungometraggio «ideologico» di Alleanza Nazionale assurdità del genere.
Anzitutto, i «paesi comunisti» -che poi comunisti non erano, perché ancora
legati alla fase della cosiddetta «democrazia popolare», ossia un regime
burocratico-collettivista gestito autoritariamente da un ristretto gruppo
dominante in partiti eterodiretti da Mosca- solennemente si infischiavano della
«legittimazione» antifascista così come di qualunque altra, in quanto l'ingresso
vittorioso dell'Armata Rossa nei loro confini li esimeva da raffinate
problematiche di questo tipo. Quanto al PCI, è assolutamente falso che in esso
si rispecchiasse la frazione dura dell'antifascismo, il suo braccio violento.
Tutt'altro! Questo ruolo era tenuto nel ciellenismo dagli azionisti e,
purtroppo, dai socialisti -salvo eccezioni quali Codignola (P.d'A.) e Bonfantini
(PSIUP)-, impegnati in una critica insensata ai comunisti e, soprattutto, a
Togliatti, non soltanto per l'amnistia ai fascisti (compresi pezzi da novanta
del Regime littorio, come un Federzoni) ma anche per i toni relativamente
«morbidi» dell'epurazione, per gli «eccessi» giustificazionistici nei confronti
del volontariato RSI, per la manica larga nell'immissione di ex-fascisti nei
ranghi del partito anche con incarichi rilevanti, per l'incoraggiamento a
sindacalisti e fascisti di sinistra non pregiudizialmente nemici dei «rossi» a
raggrupparsi in piena indipendenza organizzativa e ideologica, al fine di
autonomamente contribuire allo sviluppo di una politica popolare fondata sul
movimento operaio e contadino. E, insomma, per tutto un complesso di
atteggiamenti e iniziative indirizzati nel senso del massimo di riconciliazione
concretamente possibile, nel contesto di quegli anni bui e incandescenti.
Naturalmente, qui si fa riferimento al PCI ufficiale. Certo, al Nord la musica
era ben diversa, perché lì, inevitabilmente, tutta la situazione era in mano a
Secchia e Longo, a loro volta scavalcati dai delinquenti non soltanto politici
delle varie Volanti Rosse, dei vari «triangoli della morte», delle varie
formazioni infoibatrici dei titoisti o filo-titoisti di lingua italiana. Ma pur
senza voler mitizzare Togliatti e il suo compito «nazionale» -vero e non
presunto solo nella misura in cui gli veniva consentito dai vincoli
internazionali, dalla storia personale, dagli umori di un partito complesso e
difficile-, onestà comanda di riconoscere che egli sempre si oppose
all'estremismo secchiano finché non gli riuscì, nel '55, di liquidarlo una volta
per tutte. Del resto, non sono poche le testimonianze che avallano un giudizio
sul «Migliore» sotto questo riguardo positivo. Quella di Italo De Feo,
anzitutto, suo stretto collaboratore prima di una rottura destinata a farne un
anticomunista militante di particolare durezza, che ne descrive i tesissimi
rapporti con Pietro Secchia e la sua corrente in un godibilissimo volume dal
titolo "Tre anni con Togliatti". Quindi, quella, di... Gianfranco Fini, che di
recente si è così espresso: «Almirante ha avuto il merito di inserire il
reducismo fascista nel quadro democratico, così come identica operazione
positiva fece Togliatti con le masse comuniste reduci dalla Resistenza». Citiamo
a memoria, pertanto non giureremmo sulla corrispondenza formale di questa frase
alle parole effettivamente pronunciate dal leader della Destra, però siamo
sicuri di non equivocare su soggetti, oggetti e concetti. Peraltro, in una
prossima occasione non mancheremo di soffermarci sui seri limiti sia
dell'operato togliattiano che di quello almirantiano.
* * *
A chi ha le nostre idee può perfino capitare di trovarsi d'accordo con i
compilatori del documento finesco allorché esprimono punti di vista e
prospettive apprezzabili per motivi diversi da differenti sponde. Come, a
proposito del rapporto storico-ideologico fra Destra e Fascismo. Verissimo, è
scorretto sostenere una identificazione fra di essi o anche una filiazione della
prima dal secondo. Però, a giudizio nostro e di tanti altri in possesso di una
autorevolezza che noi non siamo certo in grado di vantare, è perfettamente
corretto affermare che la Destra -sia nei suoi aspetti di classe che con i suoi
contenuti culturali- si inserì in modo devastante in un movimento
originariamente libertario, democratico, rivoluzionario, popolare-nazionale
quale quello dei Fasci sansepolcristi, attiva e combattiva componente della
sinistra interventista. Caratteristiche, queste, così autentiche da consentire a
un Pietro Nenni di aderirvi all'atto della fondazione, salvo allontanarsene
quando fu chiaro che i misoneisti stavano mettendo sopra le mani profittando
dell'altrettanto devastante settarismo dei socialisti, di null'altro desiderosi
che di arrivare alla resa dei conti con un Mussolini «traditore» solo perché
fautore di un interventismo predicato e praticato da fior di formazioni di
sinistra, da rivoluzionari militanti di grande fama e prestigio, dai massimi
partiti della Internazionale Socialista collocati nell'ambito dei due blocchi
nemici.
La Destra dentro il Fascismo vi fece masserizie, politicamente parlando
-esattamente come farà, mutatis mutandis, dentro il Movimento Sociale Italiano
nel secondo dopoguerra- conquistandovi cioè e gestendovi una pesante egemonia. E
tuttavia, ciò malgrado, mai riuscirà a fare del Regime, complessivamente
considerato, una costruzione ideologica, statuale, spirituale, psicologica
totalmente, permanentemente, irrimediabilmente di destra, perché la realtà del
Ventennio era dicotomica, come ben mostra e dimostra il De Felice allorché
individua due grandi filoni: il fascismo-istituzione e il fascismo-movimento.
L'uno moderato, l'altro rivoluzionario. L'uno nazional-conservatore, l'altro
nazionale-popolare. E basta leggere le memorie di Tullio Cianetti, il più
autorevole sindacalista dell'epoca e ultimo ministro delle Corporazioni, i saggi
di due studiosi di valore come Francesco Perfetti e Giuseppe Parlato sul
sindacalismo fascista, per rendersi conto che nell'ambito dell'assetto
totalitario ferveva, e neppure tanto sotterraneamente, una vera e propria lotta
di classe anche a livello più squisitamente politico. Il Cianetti non soltanto
non se ne scandalizzava ma arrivava perfino ad ammetterla come fenomeno, a certe
condizioni, positivo e degno di teorizzazione. E Mussolini? La realpolitik non
poteva che indurlo a collegarsi, nel presente, prevalentemente con la
«istituzione», pur senza rinunciare a scegliere il «movimento» al momento
giusto. Il quale gli sembrò arrivato nella primavera del '43, quando, insieme al
testé citato ministro, divisò la socializzazione delle grandi industrie
nazionali a cominciare dalla FIAT, così inaugurando una svolta che assumerà
forma e contenuto con le leggi di applicazione dei postulati socializzatori del
Manifesto di Verona.
Gianfranco Fini e i suoi «teorici» sono andati oltre la tradizione dell'ala
conservatrice -e devastatrice- del Fascismo. Sono finiti nella deriva
reazionaria, nell'ultraliberismo di indole tatcheriana e reaganiana, nel patto
di ferro con quella che una volta si definiva la «destra economica», nella
Crociata maccartysta contro i partiti popolari e di classe. Riteniamo che, tutto
considerato, non andranno lontano. E speriamo appassionatamente di non
sbagliarci.
Enrico Landolfi
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