«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 1 - 31 Gennaio 1995

 

Incipit



Non tutti i giorni ci si può svegliare ridendo.
(G. Alpino, “II fratello italiano”)

Stiamo risalendo?
No, stiamo perdendo quota.

(J. Verne, “L'isola misteriosa”)

Eccoci qui, ancora soli.
(L. F. Celine, “Morte a credito”)

Non si può prevedere come gira il vento.
(G. Green, “II terzo uomo”)



Sicché siamo giunti alla fatidica data del 20 dicembre, S. Macario martire. È l'ultimo giorno d'autunno, e ultimo per la (s)compagine del Buongoverno e per il suo ilare Presidente. Ed è anche -e vorrei quasi dire: soprattutto- la fine di una grande illusione. La fine del lungo-breve sogno governativo per i fedeli Alleati.
Poveracci, in soli sette mesi di governo erano riusciti a ripulirsi del tutto, e tutti s'erano fedelmente convertiti alla Borsa e al Mercato, ai Valori e alle Standa... e, in così poco tempo, avevano già rinnegato tutto il rinnegabile ed anche di più... giurato su tutto ed il suo contrario... s'erano mutati e tramutati, secondo l'esigenza del libero commercio d'idee, in: occidentali, liberali, maggioritari, uninominalisti, federalisti, privatisti, monopolisti, israeliani, nordamericani, neogollisti, post-peronisti, prezzoliniani, gramsciani, e quant'altro Domeneiddio s'è compiaciuto far nascere su questa Terra... ed ora appena, appena il tempo di gustare in punta di lingua le prime pagine, e le prime cene ad Arcore o in Costa Smeralda... d'assaporare il profumo di crociere mediterranee e di serate al Gilda... di provare il brivido delle scorte e il tepore dei salotti-bene... di assaggiare le prime incerte raccomandazioni... di sgranocchiare i primi timidi clienti, i primi goffi tentativi di... poff, è già l'ora del risveglio.
... Sì, «C'è un'ironia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza...» (: seguito dell'incipit céliniano di cui sopra), nel ritrovarsi ai piani bassi del Palazzo.
Che succederà ora? Forse il Ponte sullo Stretto più non avrà ad intitolarsi «Publio Fiori», come da desiderata ministeriale?! O che non si dovranno più inseguire alla buvette i sospiri e le armonie di zio Pinuccio, e nemmeno i ruttini di Chicco, il piccolo epuratore?! E Gennaro, laggiù al "Secolo", finirà col perdere peso ed autorevolezza?! E i giornalisti, i managers, i boiardi neofinioti verranno ora spromossi e magari scappucciati?!
Numerosi, dunque, gli interrogativi che gravano sui destini destronazionali.
Fuor d'epitaffio, nei retrobottega e presso le deépendances Fininvest il sole più non sorge, libero e giocondo. Del resto, un vecchio del mestiere, eterno apprendista di segreteria, l'aveva sempre detto, lui, che più buio che a mezzanotte non è.

* * *
Sicché, sospeso fra albe radiose e cupi tramonti, il popolo destronazionale da segni di scoramento, con chiari sintomi da «ribaltone»...
Poi, la Reazione!
Ecco le grida di tradimento. Ecco gli appelli alle piazze. Ecco la destra di sempre che riavanza, e non va mai a male. Giovinezza, giovinezza: tutti in trincea contro i rossi. Da via dell'Umiltà a via della Scrofa è tutto un accorrere, come ad un sol Uomo. Che sarebbe Lui, lui che mette mano al cuore e al portafogli, ed arringa col cerone le folle. Ma ora il duce berluscone, dismesso il fard che lo faceva tanto «donnino di casa», alza il tono della polemica e in pubblico teatro, a Milano, proclama a viso aperto -senza più mezzi termini e mediazioni televisive al nylon- la lotta di autosuccessione.

* * *
Le prove generali si erano tenute all'indomani del 22 novembre '94, giorno dell'«avviso» al Cavaliere. E, per la verità, la mobilitazione si era anche avuta, dopo l'appassionata (e un po' muscolare) arringa di un falso-magro come Fisichella (: «La sfida non fa paura alla Maggioranza, che risponderà colpo su colpo, piazza su piazza»), per far sì -come scrisse il Maestrino dalla penna nera, Marcello Veneziani- che «i tricolori sommergano le bandiere rosse».
Solo che, nonostante tali e simili appelli (del tipo: «De Gaulle portò in piazza 600.000 borghesi contro gli studenti del '68. Noi saremo di più», Enzo Savarese dixit), ad onta delle mirabolanti promesse di «un grande happening popolare [dove] ci saranno donne, vecchi e bambini» (il copyright è dell'on. Di Muccio), le cose non erano andate per il verso giusto. E, certamente, non secondo le versioni ufficiali & autorizzate di commentatori ed operatori compiacenti, che tanto s'eran dati da fare per allargare i cortei e moltiplicarne i partecipanti: la verità vuole che la «solidarietà» al Grande Inquisito si fosse rivelata assai meno generosa del previsto.
Tant'è che l'accorto G. F. Fini, che pure si era esibito in bellicose dichiarazioni (: «La sinistra [...] usa le piazze. Lo faremo anche noi»), addiverrà, quindi -vista la scarsa popolarità delle piazzate pro-Berlusconi- a più miti consigli, pronunciandosi per un irenico «rifiuto di agitare lo spettro delle piazze. Non dobbiamo mobilitare la nostra piazza come risposta alla piazza di sinistra. Sarebbe un errore ...» Traducendo: «La nostra rivoluzione borghese» -per dirla con uno dei Meluzzi d'occasione- non marcerà più. Ovvero, è meglio rinviarla a data da destinarsi. Usque tandem? Almeno sino a permanenza dentro la cosiddetta stanza dei bottoni...

* * *
Ma la situazione è cambiata, adesso che Lui -col suo seguito fedele- è stato sfiduciato.
Potranno ancora bastare le presenze-simbolo in piazza o i defilée all'aperto (vulgo, manifestazioni) di azzurri frou-frou e di fascisti light per fermare l'avanzante catto-lego-comunista? O non sarà il caso d'insistere e ridiscendere in campo più organizzati e coperti??
E dunque coperti non solo di capi firmati e di eleganti toilettes, in uno sfolgorio di moda e di colori, bensì frammisti con i prèts-à-porter, con gli aspiranti altoborghesi, con i vestiti in serie; mescolati coi dipendenti Fininvest di oscuro livello, coi proletari in borghese, con tutti quei naif in lista d'attesa per il milione di posti, con tutte quelle donne in pelliccetta e quegli ometti in grigio...
Per fortuna, a ravvivare il tono -e a «fare tendenza»- ci sono sempre loro, «i camerati di base». Quelli che in piazza ci son sempre andati; ieri magari con «Fascismo - Europa –Rivoluzione», oggi più destramente al ritmo di «Liberismo - America - Con-ser-va-zione»!
Cambiano gli slogans, ma che importa? Importante è marciare e non marcire. Gridare e non pensare.
Ed il «popolo missino» -o post che sia- esuberante è; e sempre pronto a sventolare, manifestare, gridare, e gridarsi addosso.

* * *
Se vi sono manifestazioni in cui esso eccelle, queste non sono certamente riconducibili al pensiero. Meglio l'azione, una qualsiasi.
Altrimenti, se privilegiasse il pensiero, il missino sarebbe costretto a riconoscere che il suo successo elettorale è dovuto ad una serie di circostanze fortuite ed irripetibili; non previste e tantomeno predeterminate dalla sua leadership. La quale, nelle due teste di Fini e Tatarella, costituisce un insieme di abilità e di spregiudicatezza, di opportunismo e di furbizia: una sommatoria di doti intellettive e comportamentali, cioè, il cui risultato non consente loro, ai missini, ottimismi di lungo periodo.
E se costoro riflettessero davvero anche sul presente, dovrebbero altresì convenire sul fatto che chi sta pagando il conto dell'avventura berlusconiana è il Paese intero. E che se il loro progetto -comunque vadano le cose- è fallito, ciò non è imputabile ai tradimenti leghisti, a quanti han remato contro -dai pericolosi comunisti agli ebraici lobbisti- bensì all'inesperienza persino patetica del cav. Berlusconi in politica, all'assoluta modestia del personale politico di cui egli s'è circondato, alla mancanza nel cosiddetto Polo della libertà di un'idea-forza unificante, che non fosse quella di sbarazzarsi degli avversari e d'occupare ogni angolo di potere, ad iniziare dalla TV.
Né occorreva particolare preveggenza per sapere sin dall'inizio come una compagnia di saltimbanchi, di cinici equilibristi e di pluri-convertiti non avrebbe fondato alcuna «Nuova Repubblica»! Ed anche a voler prescindere da ogni vergognoso pentitismo, da ogni ributtante trasformismo di una simile «nuova classe dirigente», ciò che più l'ha contraddistinta e segnata è stata, io credo, un'assoluta carenza di onestà intellettuale: da parte di chi si è improvvisato esperto –poniamo- di telecomunicazioni o di ecologia e, dovendo muoversi in campi sconosciuti con la consueta superficialità ignorante e presuntuosa, ha poi preteso di dettare lui «le regole»!
D'altronde, se potessero ponderare, i missini, la lungimiranza della loro scelta di fondo (: via gli orpelli del fascismo, e tutto il resto) essi si accorgerebbero -così almeno ritengo- che l'aver puntato troppo su di un'improvvisata ruota della fortuna; che l'aver essi speso l'intero capitale per un fittizio riconoscimento liberal-democratico -se ha potuto render loro parecchio nell'immediato- potrà rivelarsi un pessimo investimento per il futuro.
Ma, obiettivamente, nulla resta da attendersi da un'entità politica quale quella postfascista, le cui uniche reazioni allo spoglio sistematico di ogni residuo avere sono state affidate alle sgangherate imprese di un Teodoro Buontempo, o alle rivendicazioni pensionabili di un Pino Rauti o alle ripicche vedovili di una donna Assunta!!
Si tratta insomma di un ammasso di «plagiati e contenti», virtualmente guidati da un guitto-imbonitore che al termine dei suoi messaggi «abbraccia tutti», che «rassicura nonne e zie» sulle pensioni, che si cruccia pubblicamente «per i suoi bambini» o per essere «ingrassato di sette chili ed invecchiato di altrettanti anni»! Ed allora: lunga vita al Milan! W la NATO! Il comunismo non passerà! W Gladio! W i Servizi! Lasciateci lavorare! W la Veronica! Giù le mani dal Polo!...

* * *
Crisi a destra. Crisi a sinistra. Crisi al centro. La crisi come metafora del passato che si invera nel presente. E fors'anche nel futuro. Una crisi ubiquitaria, permanente, onnicomprensiva.
In sette mesi sette non son riusciti a mettere in piedi uno straccio di opposizione. In sette mesi l'anti-destra ha proceduto a zig-zag sempre abbarbicata ai propri miti resistenziali, alle proprie certezze progressiste; rassicurata ed affezionata alle sue manie, alle sue fobie, alle sue spocchie antifasciste.
Così non ha saputo costruirsi dintorno alcuna prospettiva di più ampie vedute, che sia decorosamente alternativa (e non la brutta copia) del modello liberal-conservatore. La peculiarità dei tempi presenti -scrive giustamente Giorgio Bocca- «sta nel vuoto di passioni forti, di forti responsabilità, di forti contrasti e di forti speranze». Il brutto, di questi tempi, è che viviamo in una società falsamente pluralista e bassamente conflittuale, dove le ragioni del confliggere sono da rinvenirsi non in alti motivi ideali, fideistico-religiosi o etico-tradizionali (no: tutte le parti in conflitto vogliono la stessa cosa: la libertà, la democrazia, il libero mercato, il benessere, l'America, il modello americano, la cultura americana, la pace americana...), ma la lotta si origina e si sviluppa unicamente sul piano della gestione del potere, in sé e per sé; di un potere svuotato di ogni e qualsiasi significato o riferimento superiore.
Il futuro, quindi, per noi antagonisti si prospetta non particolarmente roseo.
Non ci resta che sperare. Sperare, per intanto, nel famoso «ribaltone».
Non foss'altro per soddisfare il nostro (umano, o forse, troppo umano) desiderio di veder ridimensionati certi mediocri personaggi, improvvisamente assurti alla gloria delle cronache.
Ma un timore ugualmente permane ed insiste: Bruno Vespa -ora occhieggiante in libreria col suo mondadoriano "Il Cambio (uomini e retroscena della Nuova Repubblica)" è in procinto di scrivere "Il Ricambio" (Feltrinelli ed.)??!
Che il peggio non sia ancora morto?

Alberto Ostidich

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