«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 2 - 15 Marzo 1995

 

Disobbedisco!

 


L'espressione non è mia. E di Gabriele d'Annunzio. La pronunciò tanti e tanti anni orsono. La ripropongo. Disobbedisco. A che cosa? A quanto ci circonda. Ad un mondo e ad una società nei quali non ci ritroviamo; ad un sistema politico, ed anche un modo di fare ed intendere la politica, che ci lascia del tutto indifferenti. E dire indifferenti è poco. Crea nausea e distacco. Non si riesce più, in politica, ad amare e ad odiare. A sopportare delusioni ed accendere entusiasmi. Tutto si è tremendamente appiattito. Vincono il disgusto e la rabbia. Niente valori in cui credere, niente battaglie sacrosante da combattere. Niente più nemici ben individualizzabili. Tutti amici e tutti nemici al tempo stesso. Oramai pochi gli amici con i quali ancora condividere ideali, speranze, illusioni. Un magma enorme e pesantissimo, informe e vigliacco, sta soffocando tutto e tutti.

Viviamo l'epoca delle abiure, dei tradimenti, dei ripensamenti. Delle marce indietro e delle fughe in avanti. Memorie e provenienza non contano più nulla. Tutti uguali. Tutti protesi verso una sorta di società massificata su di un liberal-capitalismo opprimente e dissacrante. Non è un paradosso; stiamo vivendo un socialismo reale alla rovescia. Dalla miseria materiale (che poi per molti tanto lontana non è) a quella morale e spirituale. La miseria dei valori. Ci si vergogna di essere chiamati o chiamarsi fascisti, così come comunisti. Ho sempre impressa nella mente una delle tante trasmissioni televisive che ci vengono propinate con monotonia. Erano collegate due sezioni storiche dell'ex MSI e dell'ex PCI. La prima a Roma, la seconda a Bologna. In entrambi i casi si è fatto a gara nel rinnegare il proprio passato, uno spettacolo avvilente!

Uno schiaffo alla memoria storica, all'impegno di decenni, al sacrificio di intere generazioni. Che pena! Che miseria! Che schifo! Ed allora è bene ricordare quanto diceva Beppe Niccolai: «Chi come noi, crede davvero che la fedeltà e la coerenza siano virtù inderogabili, non consiglierebbe mai ad un fascista di rinunciare ad esserlo; magari per la fragile ragione che l'antifascismo sta scomparendo. Dimenticando la propria provenienza dal fascismo e dall'antifascismo non nasce un'Italia migliore, nasce un'Italia smemorata, che smette di odiare perché ha smesso di amare; ci si abbraccia all'avversario di ieri non per conversione, ma per stanchezza».

È proprio così. Si smette di odiare perché si è smesso di amare. Niente slanci. Niente passioni. Perché non ci sono più valori ed idee. Da qualunque parte ci si volga. Vincono la rassegnazione ed il grigiore. Vince l'interesse. La chimera del facile guadagno. Lo sfruttamento. Vincono l'ingiustizia e la prevaricazione, l'egoismo e l'individualismo più deleterio. Non c'è più spazio per il sociale, per la solidarietà, per la partecipazione. La comunità si disintegra, sotto i colpi del consumismo e del qualunquismo. I deboli restano sempre più indifesi. Con la perdita di ogni punto di riferimento si annacqua, fino a scomparire, la identità di ciascuno di noi. Si è perso il gusto di lottare. Le delusioni di una sconfitta e le gioie di una vittoria. Si va alle urne, in numero sempre più ridotto, per forza di inerzia, o per dispetto o per interesse. Fino a disertare, chiamarsi fuori.
Fini e D'Alema fanno a gara nel rinnegare i loro rispettivi trascorsi. Giurano eterna fedeltà al liberismo e al capitalismo. A Wall Street, al padrone americano. Si fanno paladini di un modello di società e di un tipo di uomo che Mussolini e Gramsci, giustamente, combattevano. Per un certo periodo di comune accordo, poi su sponde abbastanza diverse anche se mai totalmente opposte. Forse pochi sanno, ma è così, che il fondatore del PCI definiva il fondatore del fascismo «l'odiosoamato».

Così come pochi sanno, ma è così, che nel 1936 il PCI rivolse un appello ai «proletari in camicia nera» per fondere i due movimenti in un unico partito che si richiamava proprio al programma fascista del 1919. È storia. La nostra storia. Per anni ed anni fascisti e comunisti hanno riconosciuto come punti di riferimento proprio Mussolini e Gramsci. Nella speranza di costruire un uomo nuovo, una società più giusta. Poco importa se in modo antagonistico. Oggi non più. Rinnegano cultura e memoria storica. Si sono arresi. Per convenienza. Per interesse. Pensano alla «bottega».
«La realtà italiana è oramai quella di una cultura esaurita, con un sistema delle idee totalmente depauperato. Lo si potrebbe comprendere anche soltanto analizzando quanto povere di proposte siano le forze politiche; quanto povere di pensiero siano le discussioni culturali; quanto povere di arte siano le creazioni artistiche».

Così si esprime Ida Magli in una recente pubblicazione dal significativo titolo "La bandiera strappata". Tutti o quasi abbiamo salutato con entusiasmo la momentanea fine di quel regime che si era soliti definire partitocratico e consociativo. La momentanea fine di un tipo di democrazia che per cinquanta anni ha funzionato, e continua tuttora, e si è proposto ai cittadini con i medesimi meccanismi caratteristici di una dittatura o di una oligarchia. Intangibilità, vessazione, impunità, prevaricazione, ingiustizia sono stati gli elementi fondanti della repubblica nata dalla resistenza. Il suo auspicato crollo ha però coinciso soltanto con la perdita di ogni valore. La fine delle ideologie forti. L'esaurimento di ogni tipo di cultura. Una grigia e suicida omologazione. Tutti uguali, tremendamente uguali. In politica, nella vita, in economia. Non a caso ha potuto diventare presidente del consiglio Silvio Berlusconi, un imprenditore ed un uomo d'affari. Uno che entra in politica pensando agli interessi, uno che porta con sé al potere mezza squadra targata Fininvest. E gli altri?

Si sono vigliaccamente e interessatamente adeguati. Fini va con il cavaliere di Arcore, si sbraca e seppellisce il patrimonio culturale e sociale del fascismo movimento. D'Alema e compagni, sotto shock per il crollo del socialismo reale, lo scimmiottano e mettono una pietra sopra al loro patrimonio culturale e sociale. E così tutti filo-capitalisti e liberisti. Tutti moderati. Tutti in corsa verso il centro. Tutti protesi verso «particolari» interessi. Niente più idee. Niente più miti. Niente più simboli e bandiere.

Ecco, quindi, per chi non ci sta, che diventa di attualità il dannunziano «disobbedisco». Disobbedire al tipo di società che si va consolidando, al tipo di uomo che si va plasmando.
Al meccanismo elettorale che si è volutamente creato. Alla falsa e superata contrapposizione destra - sinistra, fascismo - antifascismo, comunismo - anticomunismo. I due schieramenti che si sono fittiziamente creati nel nostro Paese (conservatori e progressisti), per sopravvivere, l'unica cosa che temono reciprocamente non è l'esistenza del fascismo o del comunismo, ma la loro esistenza. E li usano reciprocamente come specchietto per le allodole. È il vecchio gioco centrista e tutto democristiano. La ricordate la DC negli anni del consociativismo più sfacciato? Lo ricordate Montanelli che invitava a votarla con il vomito alla bocca?

L'imperativo è disobbedire anche a questa perversa logica. È una disobbedienza che si concretizza, per quanto ci riguarda, anche e soprattutto nel credere ancora nella validità dello stato sociale e di conseguenza in un socialismo nazionale che si rifà al primo ed ultimo fascismo ed al socialismo delle origini. Rimettendo, quindi, in movimento valori e culture che fanno parte della nostra memoria storica. Con tutta la loro tensione e carica sociale. In un momento storico in cui il sociale è vilipeso, in cui tutti parlano di privatizzazioni, in cui la solidarietà e la partecipazione sono termini in via di estinzione. Disobbedire per riaffermare al tempo stesso la propria identità, le proprie origini, gli autentici ancoraggi culturali. Occorre andare verso una rivoluzione culturale prima e sociale poi. Senza riferimenti culturali ben precisi, senza libri e bandiere non vi potranno mai essere una società ed una comunità degne di tal nome. L'esempio lo abbiamo, palpabile, sotto i nostri occhi.
In epoca di abiure e di compromessi disobbedire è, ad esempio, fare proprio quanto veniva scritto nel 1947 su "Rivolta Ideale", organo ufficiale del MSI: «Sì siamo fascisti; ma quei fascisti che si sono battuti per dare all'Italia una legislazione sociale e sindacale, siamo i fascisti dei contratti collettivi di lavoro riconosciuti come leggi, dei sindacati concepiti come libere associazioni di liberi lavoratori democraticamente organizzati [...] Siamo i fascisti che si sono battuti per la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili delle imprese».
Trasgressione, eresia, utopia? Al momento sicuramente. Ma domani? Intanto disobbediamo.
 

Gianni Benvenuti

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