Anno IV - n° 2 - 15 Marzo 1995
Disobbedisco!
Viviamo l'epoca delle abiure, dei tradimenti, dei ripensamenti. Delle marce indietro e delle fughe in avanti. Memorie e provenienza non contano più nulla. Tutti uguali. Tutti protesi verso una sorta di società massificata su di un liberal-capitalismo opprimente e dissacrante. Non è un paradosso; stiamo vivendo un socialismo reale alla rovescia. Dalla miseria materiale (che poi per molti tanto lontana non è) a quella morale e spirituale. La miseria dei valori. Ci si vergogna di essere chiamati o chiamarsi fascisti, così come comunisti. Ho sempre impressa nella mente una delle tante trasmissioni televisive che ci vengono propinate con monotonia. Erano collegate due sezioni storiche dell'ex MSI e dell'ex PCI. La prima a Roma, la seconda a Bologna. In entrambi i casi si è fatto a gara nel rinnegare il proprio passato, uno spettacolo avvilente! Uno schiaffo alla memoria storica, all'impegno di decenni, al sacrificio di intere generazioni. Che pena! Che miseria! Che schifo! Ed allora è bene ricordare quanto diceva Beppe Niccolai: «Chi come noi, crede davvero che la fedeltà e la coerenza siano virtù inderogabili, non consiglierebbe mai ad un fascista di rinunciare ad esserlo; magari per la fragile ragione che l'antifascismo sta scomparendo. Dimenticando la propria provenienza dal fascismo e dall'antifascismo non nasce un'Italia migliore, nasce un'Italia smemorata, che smette di odiare perché ha smesso di amare; ci si abbraccia all'avversario di ieri non per conversione, ma per stanchezza».
È proprio così. Si smette di
odiare perché si è smesso di amare. Niente slanci. Niente passioni. Perché non
ci sono più valori ed idee. Da qualunque parte ci si volga. Vincono la
rassegnazione ed il grigiore. Vince l'interesse. La chimera del facile guadagno.
Lo sfruttamento. Vincono l'ingiustizia e la prevaricazione, l'egoismo e
l'individualismo più deleterio. Non c'è più spazio per il sociale, per la
solidarietà, per la partecipazione. La comunità si disintegra, sotto i colpi del
consumismo e del qualunquismo. I deboli restano sempre più indifesi. Con la
perdita di ogni punto di riferimento si annacqua, fino a scomparire, la identità
di ciascuno di noi. Si è perso il gusto di lottare. Le delusioni di una
sconfitta e le gioie di una vittoria. Si va alle urne, in numero sempre più
ridotto, per forza di inerzia, o per dispetto o per interesse. Fino a disertare,
chiamarsi fuori.
Così come pochi sanno, ma è
così, che nel 1936 il PCI rivolse un appello ai «proletari in camicia nera» per
fondere i due movimenti in un unico partito che si richiamava proprio al
programma fascista del 1919. È storia. La nostra storia. Per anni ed anni
fascisti e comunisti hanno riconosciuto come punti di riferimento proprio
Mussolini e Gramsci. Nella speranza di costruire un uomo nuovo, una società più
giusta. Poco importa se in modo antagonistico. Oggi non più. Rinnegano cultura e
memoria storica. Si sono arresi. Per convenienza. Per interesse. Pensano alla
«bottega». Così si esprime Ida Magli in una recente pubblicazione dal significativo titolo "La bandiera strappata". Tutti o quasi abbiamo salutato con entusiasmo la momentanea fine di quel regime che si era soliti definire partitocratico e consociativo. La momentanea fine di un tipo di democrazia che per cinquanta anni ha funzionato, e continua tuttora, e si è proposto ai cittadini con i medesimi meccanismi caratteristici di una dittatura o di una oligarchia. Intangibilità, vessazione, impunità, prevaricazione, ingiustizia sono stati gli elementi fondanti della repubblica nata dalla resistenza. Il suo auspicato crollo ha però coinciso soltanto con la perdita di ogni valore. La fine delle ideologie forti. L'esaurimento di ogni tipo di cultura. Una grigia e suicida omologazione. Tutti uguali, tremendamente uguali. In politica, nella vita, in economia. Non a caso ha potuto diventare presidente del consiglio Silvio Berlusconi, un imprenditore ed un uomo d'affari. Uno che entra in politica pensando agli interessi, uno che porta con sé al potere mezza squadra targata Fininvest. E gli altri? Si sono vigliaccamente e interessatamente adeguati. Fini va con il cavaliere di Arcore, si sbraca e seppellisce il patrimonio culturale e sociale del fascismo movimento. D'Alema e compagni, sotto shock per il crollo del socialismo reale, lo scimmiottano e mettono una pietra sopra al loro patrimonio culturale e sociale. E così tutti filo-capitalisti e liberisti. Tutti moderati. Tutti in corsa verso il centro. Tutti protesi verso «particolari» interessi. Niente più idee. Niente più miti. Niente più simboli e bandiere.
Ecco, quindi, per chi non ci
sta, che diventa di attualità il dannunziano «disobbedisco». Disobbedire al tipo
di società che si va consolidando, al tipo di uomo che si va plasmando.
L'imperativo è disobbedire anche
a questa perversa logica. È una disobbedienza che si concretizza, per quanto ci
riguarda, anche e soprattutto nel credere ancora nella validità dello stato
sociale e di conseguenza in un socialismo nazionale che si rifà al primo ed
ultimo fascismo ed al socialismo delle origini. Rimettendo, quindi, in movimento
valori e culture che fanno parte della nostra memoria storica. Con tutta la loro
tensione e carica sociale. In un momento storico in cui il sociale è vilipeso,
in cui tutti parlano di privatizzazioni, in cui la solidarietà e la
partecipazione sono termini in via di estinzione. Disobbedire per riaffermare al
tempo stesso la propria identità, le proprie origini, gli autentici ancoraggi
culturali. Occorre andare verso una rivoluzione culturale prima e sociale poi.
Senza riferimenti culturali ben precisi, senza libri e bandiere non vi potranno
mai essere una società ed una comunità degne di tal nome. L'esempio lo abbiamo,
palpabile, sotto i nostri occhi. Gianni Benvenuti |