Veneziani Torna a casa!
Odo stridori di minacciate dimissioni, le nari affrante da fumi evoliani di
uomini che si sentono eroicamente sulle rovine, lo stomaco in subbuglio per
lettere aperte (queste sì, inutili!) inviate a chi non merita nemmeno degli
schiaffoni. Diamoci tutti una regolata, in questo giornale. Per quanto mi
riguarda, J'y suis etj'y reste, tanto per fare il verso a Patrice Mac Mahon. Un
giornale non è un partito, è un luogo di discussione e da esso ci si dimette
quando la libertà di espressione subisce la sferza della censura. Il che non
sembra affligga chi riempie queste pagine. Non è nemmeno una cattedra, dalla
quale impartire lezioni non richieste. L'umiltà è virtù dei forti. Noi
apparteniamo alla generazione del '68; allora chiedevamo che i professori
scendessero fra i banchi. Il '68 è finito male ma certe idee sono ancora valide.
E non è, un giornale, nemmeno uno sfogatoio dove raccogliere le lacrime degli
orfani. Contegno, signori, contegno! Siamo in una fase storica in cui vige e
vince la «presa d'atto». Siamo alla burocratizzazione della politica. Dov'è il
pensiero in questa fase della politica? La si smetta di fare sempre gli
idealisti bacchettoni, di vedere barlumi di gloria dove esiste soltanto letame
di miserie. La destra si scinde: da un lato Fini, dall'altro Rauti. Ma sempre
destra è. E chi ancora s'illude, lo faccia ma non ci pizzichi lo scroto.
Dobbiamo andare a sinistra? Io ci sto da sempre ma è un po' di tempo che faccio
conoscenza con la sinistra ufficiale e istituzionale, quella che ha fatto tante
cose, dal mito della Resistenza all'apologia delle foibe per poi sciogliersi nel
giulebbe del liberalcapitalismo. Posso esprimere un giudizio? Stringatamente:
una povertà di argomentazioni, una confusione dottrinaria e ideologica, un vuoto
propositivo da far accapponare la pelle. Non c'è differenza fra destra e
sinistra, affermano deboli tesi intercambiabili, Fini vale D'Alema e viceversa.
Sono omologate, come i ragazzi di Isfahan di pasoliniana memoria. Anticomunismo
e antifascismo. Fumo contro fumo. Mentre tutti vanno a Londra. Occhetto come
Fini, Fini come Occhetto. Se la destra acquista la castità di Formigoni, la
sinistra guadagna la verginità della Bindi. Ecco, il nocciolo. La castità della
politica che si aggrega al centro, noto luogo di compromesso, utero verginale in
cui alberga la mediocrità accomodante. Tutti corrono verso la «virtù della
medianità», ognuno cultore dell'etica nicomachea. Questa tendenza va invertita.
Quel di cui si ha bisogno è di estremizzare la politica. Non se ne può più di
questa caramellosa love-story che annega il cervello in un mare di glucosio
diabetico. Estremizzare la politica significa vincere la castità e abbandonarsi
alla passione. Quella civile. Questo era un inciso, la parentesi è chiusa.
Anche Marcello Veneziani deve smettere di sdoppiarsi. Sia detto (e inteso) senza
acrimonia. Egli è un conterraneo stimato seppure produttore di delusioni. Perché
nel corso del tempo è stato Jekyll e Hyde. Quando partì l'idea di fare un
giornale, non si pensava minimamente ai contenuti dell'attuale «settimanale». Si
sentiva forte il bisogno di creare un organo di stampa che andasse al di là
della destra e della sinistra. Le prime riunioni a Roma videro l'affollamento di
gente che proveniva dall'area nazionalpopolare. Si voleva un giornale che si
muovesse all'insegna del «fascio e martello». O i ricordi sono fallaci? Non c'è
traccia di queste intenzioni né della stragrande maggioranza di quelli che
stavano nei preliminari. C'è Adolfo Urso, Fabio Torriero, Gervaso, Selva.
Reazionari, monarchici, massoni. Mi costa fare queste affermazioni, com'è
lacerante riconoscere d'aver sbagliato. A Lido di Camaiore, nel marzo '93, fui
io a presentare il nuovo settimanale come «un utile strumento di lavoro». Ora
non lo è più. E Veneziani, con la sua onestà intellettuale, lo sa. Perché
credete che abbia inventato «il Pazzo» in ultima? Al «Pazzo» fa dire quel che
veramente pensa ma che il direttore «savio» non può affermare per carità di
bandiera. Ecco lo sdoppiamento di Veneziani. Che non riesco più a capire. C'è un
lettore che glielo rinfaccia ("L'Italia", 15.2.1995): «Mi è capitato di leggere
nello stesso giorno due interviste rilasciate a due diversi quotidiani. Nell'una
appariva critico verso la svolta di Fini, nell'altra appariva favorevole. Qual'è
la vera e qual'è la falsa intervista?» È proprio così, chi non conosce Veneziani
si pone questi enigmi. Ma chi lo conosce non riesce a comprendere il perché di
certi atteggiamenti. A Veneziani farebbe specie dirsi «intellettuale». O no? Non
è certamente un nostalgico. Come tutte le persone intelligenti e colte, s'è
posto il problema della revisione del fascismo fin dall'inizio degli Anni
Ottanta. Nell'articolo «II fascismo a viso aperto» ("Gli anni del fascismo",
Ciarrapico Ed., 1983) sostiene: «È tempo di rimeditazione storica, di
riscoperte, di analisi. È tempo di rivedere il fascismo, senza complessi. A viso
aperto». Ma di qui a schierarsi («Sono profondamente e inevitabilmente
"schierato" con passione civile e mi pare che sia sufficientemente chiaro»)
dalla parte della cricca conservatrice e clerico-massonica (Fini, Casini, Fiori)
ce ne corre. Perché Marcello? Perché questo masochismo? Perché imporsi questo
cilicio immeritato in una trasmissione televisiva ("Speciale", di Andrea
Barbato) in cui si vedeva sostenere ciò a cui non si crede? Ora arrivano da
Londra, capitale della «perfida» Albione, delle notizie raccapriccianti.
Gianfranco Tortellino ha sentenziato che «la storia ha condannato Mussolini». Ma
come si fa ad essere schierato «inevitabilmente» dalla parte di certe miserie?
In "Mussolini il politico", Ciarrapico Ed., 1981, Veneziani scrive: «Il fascismo
è figlio della Grande Guerra, è partorito dalla tensione del fronte e aveva
conosciuto la morte sulle trincee, la morte infame che ha il volto del nemico e
quella tragica che ha il volto dell'amico, del camerata perito davanti ai propri
occhi». Può la storia condannare ciò ch'è storia? Come si fa a stare insieme a
un propalatore di scelleratezze che denotano un'ignoranza abissale? È vero che
si è responsabili solo di ciò che porta la propria firma ma frequentare cattive
compagnie, fa. E ci si dispera quando si vede che «a difendere il pensiero di
destra rimane la sinistra» ("Corriere della Sera", 11.2.1995). Veneziani scrive:
«La vittoria politica della destra sta propiziando la sconfitta culturale
destra».
*
* *
Si fa fatica a liberarsi della
destra e della sinistra, intese quali categorie della politica. Non ce l'abbiamo
fatta, non ce la faremo più. Tanto vale allora incedervi. E allora chiediamo a
Veneziani: come si fa a sostenere ch'è la destra politica a decretare la
sconfitta della destra culturale? Quale cultura ha mai avuto la destra politica,
quella che si è affermata dal 1946 in avanti? Se non fosse stato per le case
editrici di sinistra, Einaudi in testa, non avremmo avuto libri da leggere. E
poi... vogliamo fare un conto della diaspora delle intelligenze, colpevoli solo
di voler e saper pensare? Buttiamo lì dei nomi: Giorgio Pini, Ernesto Massi,
Edmondo Cione, Manlio Sargenti e altri, altri ancora. Ah! dimenticavo... Stenio
Solinas, Marco Tarchi e Marcello Veneziani. Quali sono i risultati? Il governo
Berlusconi, quello dei peggiori sottosegretari e portavoce che la storia
d'Italia ricordi. Capisci, Veneziani, l'Italia di Gentile e di Croce, di Gramsci
e di Spirito nelle mani di Fisichella, di Gasparri e di Storace. Roba da
scappare in Zaire e chiederne la cittadinanza vergognandosi d'essere italiani.
Il volersi schierare di Veneziani è la concessione della nobiltà a un mucchio di
stracci fetidi. Veneziani, intelligenza ghettizzata negli anni degli «opposti
estremismi», deve pregare perché quel «mondo» vinca sempre: non per guadagnare
allori ma per non finire annegato nel vortice di risucchio dei legni in
affondamento. Potrebbe salvarsi? Direi di sì. Ci sono fasce larghe di gente che
a sinistra cercano un raggio di luce che rischiari un cammino ridottosi al buio.
Perché la sinistra riscopre Pound, perché Valiani rivaluta Jünger e Cacciari
tenta di portarlo a Venezia, perché le «terze pagine» sono ricolme di ritratti
di autori che hanno infiammato la nostra giovinezza e ristorato la nostra sete
di cultura? Perché "Pagine Libere" si vende da Feltrinelli? Cos'ha di
culturalmente decente da presentare, la sinistra? Se si esclude l'impolitico
«romanticismo» di Che Guevara e tutta la pubblicistica resistenziale ormai
stantia, la sinistra è nuda. Può masticare un po' «di uno sciapito Dahrendorf e
di un piatto, piattissimo Popper» (Angiolo Bandinelli, "Pagine Libere", n° 1,
1995) ma se vuole ritrovare la forza del pensiero deve venire a noi. Ma noi non
dobbiamo negarci alla sinistra. L'altezzosità, oltre a far torto alla cultura e
all'intelligenza, è appannaggio della reazione. Si dirà: ma sono biecamente,
visceralmente antifascisti. Li si ha da capire. I fascisti hanno impedito loro
di trionfare, la storia qui non si presta a interpretazioni. È certezza. Ma
un'opinione, qual'è ormai il fascismo (come il risorgimento e la Vandea) può
impedire l'instaurarsi d'un nuovo essere in politica? Io penso di no e noi
partiamo da posizioni di forza. Per noi il lavoro non è mercé, esso è un valore
di civiltà. I vertici della sinistra biascicano liberalcapitalismo dopo aver
masticato velleitarie dittature del proletariato. Noi siamo depositari del sogno
partecipazionistico, che la Germania e il Giappone -i due giganti dell'economia
mondiale- trattano, mentre l'Italia si attarda a percorrere le strade senza
uscita dell'asse Londra-Washington. Il capitalismo cadrà per collasso
strutturale: quando un sistema non produce più ricchezza, ha il destino segnato.
E ci sono quaranta milioni di poveri in USA, dieci in Italia, quindici in
Inghilterra. Quando si verificherà, la sinistra dovrà riconoscere, come noi
pensiamo, che il mercato non è il fine ma è soltanto un mezzo. Come farà la
sinistra a risolvere i problemi del Sud del mondo? Per cinquant'anni ha offerto
marxismo a chi aveva bisogno di civiltà del lavoro. Le miserie del comunismo
hanno aggravato le piaghe degli sfruttati del mondo. Amare la propria patria,
sosteneva Beppe Niccolai, significa amare le patrie altrui. Niccolai aveva in
gran stima Veneziani e questi, quello. Ma Niccolai non era di destra e non
sarebbe stato con «questa» destra. Se resistette nel '76, nel '79 voleva
andarsene. Nel '95 se ne sarebbe certamente andato. E noi, che siamo patriottici
e non nazionalisti, non possiamo non amare quelle patrie. Con la loro
specificità, con la loro particolarità. Non possiamo non avere rispetto di
quelle patrie. La destra, quella occidentalista, ha spostato il contrasto
Est-Ovest al Nord-Sud e l'Islam è il nuovo nemico. Ma perché lo è per noi,
uomini d'una terra stretta e lunga, dalle coste lambite da un'acqua comune che
ha tenuto a battesimo Islam e Cristianesimo? Che cosa c'entriamo noi, che
portiamo nella somatizzazione i tratti comuni ai popoli del Sud del mondo, che
abbiamo la nostra cultura di popolo impastata di arabismo, con questo nuovo tipo
di razzismo nazista? Domande che esigono risposte. Per farsi male, per non
continuare a farsi male. E c'è da stare sicuri: «a difendere Jünger resteranno
Cacciari e Valiani e non certo Fini e Fisichella». Per un semplice motivo: che
dalla parte di Cacciari ci saremo noi, quegli uomini che non hanno mai condiviso
sistemi dittatoriali, censure, orbace e stivaloni. «Noi siamo decisamente contro
tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da
quella del danaro a quella del numero; noi riconosciamo soltanto la dittatura
della volontà e dell'intelligenza». Era San Sepolcro, quello che rivolgeva il
primo pensiero «ai figli d'Italia che son caduti per la grandezza della Patria e
per la libertà del Mondo», che dichiarava «di opporsi all'imperialismo italiano
a danno di altri popoli», «noi che siamo tendenzialmente repubblicani, diciamo
fin da questo momento: repubblica!» E questi postulati troveranno accoglienza
presso chi scriverà la «lettera ai fratelli in camicia nera». Questo non c'entra
nulla con De Gaulle, l'uomo di Bir Ackeim, il boia di Brasillach. Si può
perdonare molto, si può ricordare poco, non si può dimenticare tutto. Veneziani
è fuor di casa da parecchio. È ora di rientrare.
Vito Errico
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