«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 2 - 15 Marzo 1995

 

Veneziani Torna a casa!


Odo stridori di minacciate dimissioni, le nari affrante da fumi evoliani di uomini che si sentono eroicamente sulle rovine, lo stomaco in subbuglio per lettere aperte (queste sì, inutili!) inviate a chi non merita nemmeno degli schiaffoni. Diamoci tutti una regolata, in questo giornale. Per quanto mi riguarda, J'y suis etj'y reste, tanto per fare il verso a Patrice Mac Mahon. Un giornale non è un partito, è un luogo di discussione e da esso ci si dimette quando la libertà di espressione subisce la sferza della censura. Il che non sembra affligga chi riempie queste pagine. Non è nemmeno una cattedra, dalla quale impartire lezioni non richieste. L'umiltà è virtù dei forti. Noi apparteniamo alla generazione del '68; allora chiedevamo che i professori scendessero fra i banchi. Il '68 è finito male ma certe idee sono ancora valide. E non è, un giornale, nemmeno uno sfogatoio dove raccogliere le lacrime degli orfani. Contegno, signori, contegno! Siamo in una fase storica in cui vige e vince la «presa d'atto». Siamo alla burocratizzazione della politica. Dov'è il pensiero in questa fase della politica? La si smetta di fare sempre gli idealisti bacchettoni, di vedere barlumi di gloria dove esiste soltanto letame di miserie. La destra si scinde: da un lato Fini, dall'altro Rauti. Ma sempre destra è. E chi ancora s'illude, lo faccia ma non ci pizzichi lo scroto. Dobbiamo andare a sinistra? Io ci sto da sempre ma è un po' di tempo che faccio conoscenza con la sinistra ufficiale e istituzionale, quella che ha fatto tante cose, dal mito della Resistenza all'apologia delle foibe per poi sciogliersi nel giulebbe del liberalcapitalismo. Posso esprimere un giudizio? Stringatamente: una povertà di argomentazioni, una confusione dottrinaria e ideologica, un vuoto propositivo da far accapponare la pelle. Non c'è differenza fra destra e sinistra, affermano deboli tesi intercambiabili, Fini vale D'Alema e viceversa. Sono omologate, come i ragazzi di Isfahan di pasoliniana memoria. Anticomunismo e antifascismo. Fumo contro fumo. Mentre tutti vanno a Londra. Occhetto come Fini, Fini come Occhetto. Se la destra acquista la castità di Formigoni, la sinistra guadagna la verginità della Bindi. Ecco, il nocciolo. La castità della politica che si aggrega al centro, noto luogo di compromesso, utero verginale in cui alberga la mediocrità accomodante. Tutti corrono verso la «virtù della medianità», ognuno cultore dell'etica nicomachea. Questa tendenza va invertita. Quel di cui si ha bisogno è di estremizzare la politica. Non se ne può più di questa caramellosa love-story che annega il cervello in un mare di glucosio diabetico. Estremizzare la politica significa vincere la castità e abbandonarsi alla passione. Quella civile. Questo era un inciso, la parentesi è chiusa.
Anche Marcello Veneziani deve smettere di sdoppiarsi. Sia detto (e inteso) senza acrimonia. Egli è un conterraneo stimato seppure produttore di delusioni. Perché nel corso del tempo è stato Jekyll e Hyde. Quando partì l'idea di fare un giornale, non si pensava minimamente ai contenuti dell'attuale «settimanale». Si sentiva forte il bisogno di creare un organo di stampa che andasse al di là della destra e della sinistra. Le prime riunioni a Roma videro l'affollamento di gente che proveniva dall'area nazionalpopolare. Si voleva un giornale che si muovesse all'insegna del «fascio e martello». O i ricordi sono fallaci? Non c'è traccia di queste intenzioni né della stragrande maggioranza di quelli che stavano nei preliminari. C'è Adolfo Urso, Fabio Torriero, Gervaso, Selva. Reazionari, monarchici, massoni. Mi costa fare queste affermazioni, com'è lacerante riconoscere d'aver sbagliato. A Lido di Camaiore, nel marzo '93, fui io a presentare il nuovo settimanale come «un utile strumento di lavoro». Ora non lo è più. E Veneziani, con la sua onestà intellettuale, lo sa. Perché credete che abbia inventato «il Pazzo» in ultima? Al «Pazzo» fa dire quel che veramente pensa ma che il direttore «savio» non può affermare per carità di bandiera. Ecco lo sdoppiamento di Veneziani. Che non riesco più a capire. C'è un lettore che glielo rinfaccia ("L'Italia", 15.2.1995): «Mi è capitato di leggere nello stesso giorno due interviste rilasciate a due diversi quotidiani. Nell'una appariva critico verso la svolta di Fini, nell'altra appariva favorevole. Qual'è la vera e qual'è la falsa intervista?» È proprio così, chi non conosce Veneziani si pone questi enigmi. Ma chi lo conosce non riesce a comprendere il perché di certi atteggiamenti. A Veneziani farebbe specie dirsi «intellettuale». O no? Non è certamente un nostalgico. Come tutte le persone intelligenti e colte, s'è posto il problema della revisione del fascismo fin dall'inizio degli Anni Ottanta. Nell'articolo «II fascismo a viso aperto» ("Gli anni del fascismo", Ciarrapico Ed., 1983) sostiene: «È tempo di rimeditazione storica, di riscoperte, di analisi. È tempo di rivedere il fascismo, senza complessi. A viso aperto». Ma di qui a schierarsi («Sono profondamente e inevitabilmente "schierato" con passione civile e mi pare che sia sufficientemente chiaro») dalla parte della cricca conservatrice e clerico-massonica (Fini, Casini, Fiori) ce ne corre. Perché Marcello? Perché questo masochismo? Perché imporsi questo cilicio immeritato in una trasmissione televisiva ("Speciale", di Andrea Barbato) in cui si vedeva sostenere ciò a cui non si crede? Ora arrivano da Londra, capitale della «perfida» Albione, delle notizie raccapriccianti. Gianfranco Tortellino ha sentenziato che «la storia ha condannato Mussolini». Ma come si fa ad essere schierato «inevitabilmente» dalla parte di certe miserie? In "Mussolini il politico", Ciarrapico Ed., 1981, Veneziani scrive: «Il fascismo è figlio della Grande Guerra, è partorito dalla tensione del fronte e aveva conosciuto la morte sulle trincee, la morte infame che ha il volto del nemico e quella tragica che ha il volto dell'amico, del camerata perito davanti ai propri occhi». Può la storia condannare ciò ch'è storia? Come si fa a stare insieme a un propalatore di scelleratezze che denotano un'ignoranza abissale? È vero che si è responsabili solo di ciò che porta la propria firma ma frequentare cattive compagnie, fa. E ci si dispera quando si vede che «a difendere il pensiero di destra rimane la sinistra» ("Corriere della Sera", 11.2.1995). Veneziani scrive: «La vittoria politica della destra sta propiziando la sconfitta culturale destra».

 

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Si fa fatica a liberarsi della destra e della sinistra, intese quali categorie della politica. Non ce l'abbiamo fatta, non ce la faremo più. Tanto vale allora incedervi. E allora chiediamo a Veneziani: come si fa a sostenere ch'è la destra politica a decretare la sconfitta della destra culturale? Quale cultura ha mai avuto la destra politica, quella che si è affermata dal 1946 in avanti? Se non fosse stato per le case editrici di sinistra, Einaudi in testa, non avremmo avuto libri da leggere. E poi... vogliamo fare un conto della diaspora delle intelligenze, colpevoli solo di voler e saper pensare? Buttiamo lì dei nomi: Giorgio Pini, Ernesto Massi, Edmondo Cione, Manlio Sargenti e altri, altri ancora. Ah! dimenticavo... Stenio Solinas, Marco Tarchi e Marcello Veneziani. Quali sono i risultati? Il governo Berlusconi, quello dei peggiori sottosegretari e portavoce che la storia d'Italia ricordi. Capisci, Veneziani, l'Italia di Gentile e di Croce, di Gramsci e di Spirito nelle mani di Fisichella, di Gasparri e di Storace. Roba da scappare in Zaire e chiederne la cittadinanza vergognandosi d'essere italiani. Il volersi schierare di Veneziani è la concessione della nobiltà a un mucchio di stracci fetidi. Veneziani, intelligenza ghettizzata negli anni degli «opposti estremismi», deve pregare perché quel «mondo» vinca sempre: non per guadagnare allori ma per non finire annegato nel vortice di risucchio dei legni in affondamento. Potrebbe salvarsi? Direi di sì. Ci sono fasce larghe di gente che a sinistra cercano un raggio di luce che rischiari un cammino ridottosi al buio. Perché la sinistra riscopre Pound, perché Valiani rivaluta Jünger e Cacciari tenta di portarlo a Venezia, perché le «terze pagine» sono ricolme di ritratti di autori che hanno infiammato la nostra giovinezza e ristorato la nostra sete di cultura? Perché "Pagine Libere" si vende da Feltrinelli? Cos'ha di culturalmente decente da presentare, la sinistra? Se si esclude l'impolitico «romanticismo» di Che Guevara e tutta la pubblicistica resistenziale ormai stantia, la sinistra è nuda. Può masticare un po' «di uno sciapito Dahrendorf e di un piatto, piattissimo Popper» (Angiolo Bandinelli, "Pagine Libere", n° 1, 1995) ma se vuole ritrovare la forza del pensiero deve venire a noi. Ma noi non dobbiamo negarci alla sinistra. L'altezzosità, oltre a far torto alla cultura e all'intelligenza, è appannaggio della reazione. Si dirà: ma sono biecamente, visceralmente antifascisti. Li si ha da capire. I fascisti hanno impedito loro di trionfare, la storia qui non si presta a interpretazioni. È certezza. Ma un'opinione, qual'è ormai il fascismo (come il risorgimento e la Vandea) può impedire l'instaurarsi d'un nuovo essere in politica? Io penso di no e noi partiamo da posizioni di forza. Per noi il lavoro non è mercé, esso è un valore di civiltà. I vertici della sinistra biascicano liberalcapitalismo dopo aver masticato velleitarie dittature del proletariato. Noi siamo depositari del sogno partecipazionistico, che la Germania e il Giappone -i due giganti dell'economia mondiale- trattano, mentre l'Italia si attarda a percorrere le strade senza uscita dell'asse Londra-Washington. Il capitalismo cadrà per collasso strutturale: quando un sistema non produce più ricchezza, ha il destino segnato. E ci sono quaranta milioni di poveri in USA, dieci in Italia, quindici in Inghilterra. Quando si verificherà, la sinistra dovrà riconoscere, come noi pensiamo, che il mercato non è il fine ma è soltanto un mezzo. Come farà la sinistra a risolvere i problemi del Sud del mondo? Per cinquant'anni ha offerto marxismo a chi aveva bisogno di civiltà del lavoro. Le miserie del comunismo hanno aggravato le piaghe degli sfruttati del mondo. Amare la propria patria, sosteneva Beppe Niccolai, significa amare le patrie altrui. Niccolai aveva in gran stima Veneziani e questi, quello. Ma Niccolai non era di destra e non sarebbe stato con «questa» destra. Se resistette nel '76, nel '79 voleva andarsene. Nel '95 se ne sarebbe certamente andato. E noi, che siamo patriottici e non nazionalisti, non possiamo non amare quelle patrie. Con la loro specificità, con la loro particolarità. Non possiamo non avere rispetto di quelle patrie. La destra, quella occidentalista, ha spostato il contrasto Est-Ovest al Nord-Sud e l'Islam è il nuovo nemico. Ma perché lo è per noi, uomini d'una terra stretta e lunga, dalle coste lambite da un'acqua comune che ha tenuto a battesimo Islam e Cristianesimo? Che cosa c'entriamo noi, che portiamo nella somatizzazione i tratti comuni ai popoli del Sud del mondo, che abbiamo la nostra cultura di popolo impastata di arabismo, con questo nuovo tipo di razzismo nazista? Domande che esigono risposte. Per farsi male, per non continuare a farsi male. E c'è da stare sicuri: «a difendere Jünger resteranno Cacciari e Valiani e non certo Fini e Fisichella». Per un semplice motivo: che dalla parte di Cacciari ci saremo noi, quegli uomini che non hanno mai condiviso sistemi dittatoriali, censure, orbace e stivaloni. «Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da quella del danaro a quella del numero; noi riconosciamo soltanto la dittatura della volontà e dell'intelligenza». Era San Sepolcro, quello che rivolgeva il primo pensiero «ai figli d'Italia che son caduti per la grandezza della Patria e per la libertà del Mondo», che dichiarava «di opporsi all'imperialismo italiano a danno di altri popoli», «noi che siamo tendenzialmente repubblicani, diciamo fin da questo momento: repubblica!» E questi postulati troveranno accoglienza presso chi scriverà la «lettera ai fratelli in camicia nera». Questo non c'entra nulla con De Gaulle, l'uomo di Bir Ackeim, il boia di Brasillach. Si può perdonare molto, si può ricordare poco, non si può dimenticare tutto. Veneziani è fuor di casa da parecchio. È ora di rientrare.

Vito Errico

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