Caro
Antonio, tiriamo le somme
Nell'oramai lontano luglio 1991,
e in concomitanza con la rielezione di Fini a Segretario nazionale, io, tu ed
altri camerati lasciammo dopo anni ed anni di militanza ininterrotta il MSI. Lo
facemmo non perché non fossimo più «fascisti», nel senso che noi intendiamo e
nel significato che sempre abbiamo dato a quel termine. Come ben ricordi ci
ritrovammo tutti a Pieve di Cento alla «Festa nazional-popolare» dove cercammo
di definire le nostre posizioni e dove soprattutto concludemmo
significativamente quell'incontro nel ricordo di Beppe Niccolai e quindi di
Nicolino Bombacci, fondatore del PCI, che morì accanto a Mussolini gridando
«Viva l'Italia, viva il Socialismo!». Eravamo un bel gruppo, «fior di cervelli»
come qualcuno ha ricordato sulle colonne di questa rivista. Le motivazioni che
ci spinsero a quel gesto? Le ricordiamo tutti benissimo.
Un partito il MSI che ci stava stretto, una gabbia, perché troppo acriticamente
nostalgico, troppo ed esageratamente filo-americano (erano i tempi della guerra
del Golfo), molto filo-capitalista, troppo uguale agli altri partiti. Omologato,
dentro il sistema fino al collo. Assai poco sensibile ai problemi sociali.
Insomma era assai poco «fascista» per intenderci e per dire le cose come stavano
e come stanno.
Assai poco fascista per noi «fascisti di sinistra», alla Berto Ricci e alla
Beppe Niccolai.
E così di lì a poco ci definimmo antagonisti a tutto quanto ci circondava e ci
rivolgemmo principalmente a tutti coloro che non ci stavano, rifiutando le
anacronistiche etichettature di destra e di sinistra. Nacque poi "Tabula Rasa",
in continuità ideale e culturale con "L'Eco della Versilia". I primi tempi ci
stringemmo tutti attorno ad essa. Era il nostro strumento, il mezzo per fare
sentire la nostra voce, fuori dal coro. In piena libertà ed a tutto campo, come
tu hai sempre ostinatamente e giustamente voluto.
Ma con alcuni punti fermi, con alcuni paletti come si usa dire. E con essi tutti
d'accordo e tutti a collaborare, secondo le proprie capacità e possibilità. Da
Mario Bernardi Guardi a Beniamino Donnici, da Umberto Croppi a Fabio Granata,
dal sottoscritto a Giano Accame, da Gino Logli a Peppe Nanni, da Alberto
Ostidich a Pietrangelo Buttafuoco. Vi erano anche preziose ed intelligenti
collaborazioni «esterne», e che tali sono fortunatamente ancora oggi, quale
quella dell'amico Landolfi. Ma poi che cosa è successo? A poco a poco, folgorati
sulla via di Damasco e sempre più ubriacati ed inebriati dal nuovo e perverso
sistema maggioritario, molti del gruppo hanno cominciato a tentennare, a
prendere le distanze, fino a trasmigrare nelle più svariate formazioni
politiche, vecchie e nuove. Chi in Forza Italia o in Alleanza Nazionale, chi nei
Verdi o nella Rete, chi altrove.
Questo è successo, caro Antonio. Tutti presi da smanie elettoralistiche fino a
poco tempo prima impensabili. Molti di loro si giustificano dicendo che in fin
dei conti bisogna schierarsi. A destra o a sinistra. Così hanno accettato il
liberismo ed il capitalismo. Si sono inseriti in quel sistema che fino a pochi
giorni prima, proprio insieme a noi, affermavano di rifiutare. Magari ci
raccontano, ma alle favole io non ho mai creduto, che laddove si sono
posizionati possono meglio portare innanzi certi valori. Tutte fandonie e misere
giustificazioni. Sono diventati tutti antifascisti. Qualcuno di loro -lo
ricordi?- accusava te ed il sottoscritto di essere poco «fascisti» e troppo di
destra perché allora stavamo ancora nel MSI.
Quel qualcuno, di recente, si è candidato al seggio senatoriale, in quel di
Pisa, nell'antifascista Alleanza nazionale.
Scrivo e ti dico queste cose con tanta amarezza e non poca rabbia, ma con
altrettanta serenità e fermezza. Le scrivo e le dico a te perché so che sei
saldo come una roccia e perché so che anche tu sicuramente provi questi
sentimenti. Ma così va, ed è sempre andato il mondo. Qualcuno, non ricordo chi,
diceva: «Un uomo combatte per l'ideale che gli rende di più». Ma vale anche la
frase di Beppe Niccolai che sta sul frontespizio della nostra rivista. Viviamo
in un'epoca grigia, costellata di mediocri e arrivisti. Si dice che è l'epoca
della fine delle ideologie. E si vede. Eccome si vede! Dove non ci sono più
nemici, ma avversari. Ed è questo il miglior alibi per abiurare, per saltare
come ranocchi da una parte all'altra. Con una facilità che lascia allibiti ed
indignati. Si fanno i propri conti ed i propri interessi. Non era questo il
mastice che ci teneva uniti. Erano ben altri i valori e altre le motivazioni.
Si arriva così a Fiuggi. Là avviene qualcosa, perlomeno in partenza, che
aspettavamo da tempo. Si scoprono le carte. Le due anime del fascismo finalmente
si dividono. Quella conservatrice e reazionaria, il «fascismo regime» per
intenderci, si dichiara antifascista e si schiera con il capitalismo e il
centro-destra più retrivo; l'altra, il «fascismo movimento» si libera e prende
la propria strada, oltre la destra e la sinistra. Tornano, in partenza, le
motivazioni ed i punti fermi che ci riportano alla nostra fuoriuscita nel 1991.
A Pieve di Cento, a Nicolino Bombacci, al primo ed ultimo fascismo per capirci
fino in fondo.
Per chi come il sottoscritto in questi anni è rimasto saldo e fermo in quelle
posizioni, è il momento di impegnarsi ancora. È un treno che passa e sul quale
non si può non salire. È un atteggiamento quantomeno coerente. Una scelta
logica. Su questo credo, anzi sono convinto, anche tu sarai d'accordo.
Conoscendoti bene non ho alcun dubbio. Tu così generoso e così testardo non puoi
che essere felice che uno dei più assidui collaboratori della tua rivista, ma
soprattutto se mi consenti anche tuo amico e camerata, si getti generosamente, e
disinteressatamente come è nel nostro costume, in questa nuova avventura. Sono
altresì convinto che, in un modo o nell'altro, continueremo ad essere vicini
anche in questa, antica e nuova al tempo stesso, esperienza. Non può essere
diversamente. Nella speranza che fra qualche tempo, quando tireremo di nuovo le
somme, sia scomparsa larga parte della amarezza che oggi portiamo dentro di noi.
Comunque vada potremo però sempre guardarci negli occhi e allo specchio. Senza
vergognarci. Senza dover nulla rimproverarci. E questo, caro Antonio, non è poco
nella vita di un individuo. Anzi, è tutto.
Gianni Benvenuti
Sai, Gianni, non me la sento di
tirare le somme. La frequentazione degli uomini, la loro noncuranza nel non
tener fede alla parola data -e con una leggerezza tale che il loro gesto neppure
può sollevare rimostranze tanto è naturale il modo in cui lo fanno, quasi da
infante- mi ha costretto a vivere nel dubbio perenne. Avere pochi amici (non me
ne dolgo) e trascorrere i miei giorni in un interminabile contenzioso è stata
una costante nella mia esistenza.
Non provo amarezza se alcuni amici ci hanno lasciato che, altrimenti, mi dici
come avrei potuto continuare in questa avventura, con questo foglio, se non
avessi contato solo ed esclusivamente sulle mie forze e su quelle dei pochi
amici che ho? E che mi bastano! Viviamo, in piccolo branco (e tu sei fra
quelli), la nostra vita da lupi. E stata una nostra scelta: tacita: assoluta
indipendenza l'uno dall'altro, ma con il riguardo dovuto a ciascuno e nel
rispetto del carattere di ognuno. Senza elargire consigli, senza essere capi,
senza essere gregari. Uomini liberi, in grado di comprenderci perché ci lega un
filo comune: la «voglia» di essere uomini in ogni circostanza nella
società-marmellata che ci attornia (e ci vuol poco!). Anche nell'espletamento
delle nostre mansioni, siano esse professionali o di prestatori d'opera.
Ognuno di noi è libero di esporsi a qualsivoglia rischio. È una nostra
abitudine. Il rischio ha tracciato la nostra esistenza, ha formato il nostro
carattere, si è inciso nella nostra memoria. Mai un calcolo, ecco perché non
voglio tirare le somme... È così bello andare incontro all'ignoto!
Tu lo vuoi fare ed io ti sarò vicino, ma non mi chiedere dì parteciparvi con
convinzione. I dubbi sono tutti miei, non mi permetterei mai di giudicare un
«amico e camerata che si getta generosamente, e disinteressatamente come è nel
nostro costume, in questa nuova avventura». Non emetto giudizi. Vivo nei miei
dubbi, ma non li esterno. Chissà -questa però è una mia riflessione-, forse, il
tuo, può essere un gesto che può indicare la via a quanti l'hanno smarrita; che
si sono arresi e vegetano nella quiete del limbo. Chissà, tutto può accadere. In
questo stesso numero c'è una bella lettera di un amico, un giovane lettore di
Milano, Michele Zeffirino -al quale non darò risposta perché vi ha già
provveduto da solo-, cui è «capitato» di leggere, su "Tabularasa", la lettera
del soldato tedesco inviata alla moglie da Stalingrado assediata. L'avevo già
pubblicata, «quella» lettera, altre due volte. Mi piaceva. Perché nella mia vita
ho sempre avuto un 'ubbia negli incontri con gli uomini: misurarli (senza
giudicarli) dalla stretta di mano e dallo sguardo. Ecco, Gianni, «quella»
lettera, quella mia fissazione, ha «costretto» un amico che non era perduto, a
ritornare fra noi. Non è un «figliol prodigo» che ritorna pentito, ma un uomo
che non aveva mai dimenticato di esserlo e che si era preso una vacanza.
Può darsi che tu, in rinnovata avventura, riesca ad avere, moltiplicato, lo
stesso risultato.
Te lo auguro. L'auguro a tutti noi, a questa povera Italia divenuta parte
settentrionale dell'Africa nera e che non trova di meglio che affidarsi o ad un
colonizzatore calato dalla Brianza o ad una «mortadella dal volto umano». Ovvero
Prodi - così definito dall'amico Pietrangelo Buttafuoco.
A.C.
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