Roberta e il sogno della vita
Quanti anni hai, Roberta? Non darmi la risposta tutta borghese, tipica
dei salotti in cui la moralità è soltanto un perizoma che ricopre le nefandezze
di una vita dissoluta. Seppur donna, te la chiedo, l'età. Con i capelli grigi e
un passato ch'è ormai storia, cosa si è se non padri? Ma niente paternalismi,
nemmeno paternali. Come si fa a sdilinquire di fronte a chi ti sputa in faccia
la verità? Cercare di rabbonire? Non è da farsi. La vita è lotta dura e noi
abbiamo imparato ad affrontarla con la determinazione che solo la cattiveria sa
dare. Quella cattiveria, che quando è disinteressata, avulsa dalla ricerca del
compromesso, è santa e genuina manifestazione d'un'anima ardente. Perché non
sognare più, perché non sognare ancora, perché sognare un'ultima volta? La vita
è sogno, al cui risveglio può rimanerti l'amarezza della realtà. E la realtà è
degli uomini, questi perfidi e gaglioffi che raramente e inconsapevolmente
trovano l'attimo di luce nella redenzione. Quando diventano eroi e si discostano
dalla loro natura pusillanime avvicinandosi all'immagine e somiglianza di Dio.
Noi, quelli che hanno la responsabilità d'aver creato i tuoi sogni, siamo stati
uomini, svezzati da altri uomini, creatori dei nostri sogni fallaci.
Cos'è rimasto del nostro sogno? Dopo il risveglio, la memoria. Ricordo di fatti,
di persone, di azioni. Che oggi disvelano la loro premonizione. Sì, Roberta,
facemmo sogni premonitori. E quei sogni portavano alla morta gora della
quotidianità. Se continuiamo a sognare? Ancora illusi? Ancora vittime e artefici
d'un onirismo sterile? Sguazzando nel sangue della nostra anima lacerata,
imparammo che «tutti gli uomini sognano: ma non allo stesso modo. Coloro che
sognano di notte, nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono al
risveglio la vanità di quelle immagini, ma quelli che sognano di giorno sono
uomini pericolosi perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti,
per attuarlo». Roberta, questo pensiero manifestato a voce alta davanti alla
grandiosità terribile e terrificante del deserto, portò Lawrence nel sogno di
Aqaba e le sue notti cariche di stelle. Aqaba fu il sogno attuato perché
immaginato e goduto nella luce abbacinante del sole del deserto.
Guarda, Roberta, se non è vero che il sogno di Berto non stia per farsi realtà.
Hai visto il minare del Muro e la frana d'uno dei due bastioni su cui poggiava
l'arco malefico dell'Usura. Porgi l'orecchio, ascolta: non odi il sussulto e lo
scricchiolio del superstite? Guarda il mondo, allora, ricoprirsi di povertà.
Quello è lo stridio del pilastro. Quando si produce povertà e non si
distribuisce ricchezza, il sistema è invalido. L'invalidità porta cancrena,
pustole e bubboni.
Le piaghe del mondo si aprono e sgorga il secreto purulento che tracima su
popoli e genti. È il passo pesante della Storia che s'è rimessa in cammino. Il
cammino nel tempo ha un prezzo. Sangue e lacerazioni. Ma nel sangue origina la
vita. E la vita crea il sogno. È l'immensità dell'uomo che si fa carne. È il
limite dell'uomo. In questo processo grandioso e terribile, quanto vale pensare
alle sette? Nulla, quello è il ripostiglio polveroso della mente, lì si annida
la vanità dei sogni notturni, nelle tenebre dei regimi, nel buio delle
scimmiottaggini della storia. Non tutto è epopea, Roberta. Epopea è sogno
diurno; molto ci è stato spacciato come luminosità da tenebra. Molto era solo
tenebra. E fra le ombre si cantava. Quando le lingue di fuoco vividamente
sopprimevano i sogni di libertà. Ma cos'era la libertà, quando la terra bagnata
del sangue di milioni di uomini, veniva percorsa da schiere nemiche? Domandati,
chiedi a te stessa, interroga la tua coscienza: l'avventura «splendida e
irripetibile», corsa al di là del parallelo della Città Eterna, fu vera gloria?
Lo fu solo per chi sognava di giorno e cadeva, concimando col proprio sangue la
Madre Terra. Strame s'è fatto di quel sacrificio e vitelli d'oro, con la
poltiglia di quella «generazione che non si arrese». Ma cos'è la libertà, quando
il caos avvolge anni di piombo, in cui sedicenti vittime armano la mano
fratricida dei carnefici e sul selciato restano le intelligenze ch'ebbero
l'ardire di sognare la morte del Drago del Potere, mentre i ceppi si serrano
intorno alle mani che cercarono di portare la fantasia sul podio della vittoria?
Lì s'è errato ed è giusto che l'errore sia stato individuato.
Chiedere perdono? Serve? Può servire? E chi ci dovrebbe perdonare? E perché? No,
Roberta, non perdonarci. Odiaci per quel che ti abbiamo tolto. Odiaci per i
princìpi che si son dimostrati mortali. Odiaci per i sogni fugati. Ma amaci,
perché solo così noi potevamo dare forza ai tuoi sogni e ai tuoi princìpi. Amaci
perché dai nostri errori nasce la tua libertà. Una libertà, figlia della
carcerazione della nostra anima. Una libertà che è libertà d'un popolo. Amala,
questa libertà e non sognare mai di doverla sopprimere. Non tutti la meritano?
Non arrogarti mai questo diritto. Lascia che un imbecille goda del diritto di
libertà. Soffocandolo, non saprai mai di trovarti di fronte alla mota del mondo.
La libertà di parola ti offende? Come faresti a sceverare verità e menzogna se
il suono provenisse dal mutismo? La libertà di pensiero è pensiero in libertà?
Non rischiare di doverti un giorno assidere sul nostro scranno rovente, davanti
a parole di fuoco che bruciano la tua anima avvizzita nel tempo. Perché noi,
padri e figli di generazioni che hanno succhiato e sputato vicendevolmente
sangue, abbiamo giocato pericolosamente con la libertà. Se abbiamo una
giustificazione? Forse. La libertà è un lusso e la povertà non ne concede. Ecco
perché è necessario abbattere il sistema che ci soffoca. Perché, allora,
produrre povertà significa condannare a morte la libertà? E quando la libertà
muore, Aqaba s'allontana nel buio delle stelle spente. Un fulgore di pensiero
attraversa quest'anima bruciata. Sì, è vero, eravamo poveri. Ma la nostra
povertà era frammista ad ignoranza. Noi credemmo nella rivoluzione. Ed era
reazione. Ma noi sognavamo lo stesso di giorno. Roberta, tu che adesso sai,
potrai perdonarci? Odiaci per tutto quello che ti abbiamo tolto. Amaci per tutto
quello che ti abbiamo dato. E che a noi non fu concesso.
Vito Errico
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