i personaggi
Sarà famoso
«Con questo qui avremo a che
fare. Ci piaccia o no», dice Giordano Bruno Guerri che ha intervistato
Pietrangelo Buttafuoco, il fascista a modo suo che scrive per il "Secolo", ma
anche per "Cuore", e che pubblicherà, probabilmente con la Arnoldo Mondadori, il
suo primo romanzo, "I Beatipaoli".
E allora mi sono incazzato per davvero. Erano le due e mezzo di notte ma l'ho
chiamato lo stesso, Pietrangelo Buttafuoco: «Vorrei vederti, adesso». «Va bene»,
risponde, assonnato e tranquillo. Vaffanculo vaffanculo, rimugino mentre esco
dall'albergo. Non solo ha trentun'anni, accidenti a lui. Non solo è il
giornalista più originale che mi capita di leggere da molto. È anche uno
scrittore extraordinario.
Ero già a letto e avevo preso lo scartafaccio dattiloscritto di un suo romanzo,
convinto che mi conciliasse il sonno. Invece eccomi qui, in una notte romana
dove ci sarebbe di meglio da fare, montato su un taxi a cercare la casa di
Buttafuoco, vicino alla fontana di Trevi. Casa da studente, quattro piani a
piedi, mansarda di quelle che sbatti la testa, mobili così, pochi libri, pochi
dischi, alle pareti foto di Sciascia e siciliani vari, da Battiate a Verga. Lui
è un siciliano -Agira, Enna- di quelli strani, alto e quasi biondo, occhi
azzurri, allegro e misurato. Non fa una piega neanche quando gli irrompo in casa
come un lupo mannaro, né chiede che succede. Mi tocca dirglielo io: «Sai che
faccio quelle interviste su "Prima". Ho cominciato con Mieli e Feltri, il
prossimo forse sarà Rinaldi ma in mezzo ci voglio mettere te».
È una notizia che dovrebbe fare un po' di impressione a un praticante da 1
milione 770mila lire al mese, ma lui non batte ciglio. Mi fa una rabbia...
Scopro il suo punto debole: i polmoni, i bronchi: fatica a respirare. Comincio a
fumare, a fumare, gli sbuffo in faccia, tossisce disperatamente tutta la notte,
mentre risponde alle domande; a un certo punto si deve anche attaccare
all'aerosol, che tiene a portata di mano, ma non geme e non protesta. Mi si
consegna legato mani e piedi. Gli faccio anche domande talmente personali -e
risponde con una tale sincerità- che se pubblicassi le risposte rovinerei
perlomeno la sua vita affettiva. Ma si fida, sa benissimo che non voglio fargli
del male, anzi: l'intelligenza la si prende dove si trova. E dire che era lui un
mio ammiratore. Si era fatto avanti -un giorno, a un convegno- per dirmi che
aveva letto questo e quest'altro dei miei libri, che non perdeva un articolo,
eccetera. Anch'io ero curioso di lui, ne avevo sentito parlare. Ho cominciato a
seguire gli articoli e la rubrica che scrive la domenica sul "Secolo d'Italia"
(già, il "Secolo d'Italia") e che si permette il lusso di firmare con lo
pseudonimo Dragonera (perché il signor praticante firma con lo pseudonimo, non
spende il suo prezioso nome che sembra uno pseudonimo anche quello) e ho detto:
«Cazzo!».
Comparve al disonore delle cronache per la prima volta nel 1992, quando andò a
intervistare Tony Negri a Parigi, e Negri quasi lo picchiava, ma Buttafuoco
portò a casa questa dichiarazione, a proposito di giornalismo e terrorismo:
«Biagi, Bocca e Montanelli sarebbe stato meglio per loro essere assassinati,
così ora non sarebbero costretti a fare i buffoni». Il primo a segnalare
pubblicamente la sua bravura fu Filippo Ceccarelli, che lo intervistò per "La
Stampa". Di recente è stato stracitato come primo «fascista» che ha scritto su
"Cuore".
Eccolo qui il fascista, che tossisce rovinosamente ascoltando me e Mozart e
cerca di salvare almeno le prime vie respiratorie mangiando fette di enormi
limoni coperte di sale (buonissime, ho preso il vizio anch'io).
* * *
Domanda — Allora, perché sei fascista? Sei fascista?
Risposta — Intanto, non mi sento di destra, perché la destra in Italia si
identifica con il conservatorismo, l'ordine, e io tutt'altro sono che un
conservatore: non voglio fare il guardamacchine a nessuno. E non sono neanche
fascista, secondo il concetto comune. Io sono affascinato dallo stile di vita di
un certo fascismo, spavaldo, libertario, guascone, divertente e menefreghista.
Sono fascista di sinistra: libertario.
D — Per chi hai votato?
R — Sempre per il Movimento sociale.
D — Ma il fascista che descrivi non c'era nel MSI e non c'è in Alleanza
nazionale. Descrivi Italo Balbo e Berto Ricci.
R — Infatti. Non riesco mai a spiegare come si possa essere fascisti e allo
stesso tempo avere il gusto della libertà. Penso al Mussolini libertario, al
Mussolini non perbenista... L'unica cosa buona della svolta di Alleanza è che
non coinvolgerà più il fascismo nella sua propaganda politica: neanche il
Movimento Sociale è mai stato fascista.
D — Tu parli di un fascismo che non è mai esistito davvero, che era ridotto ai
minimi termini anche ai tempi del regime, un fascismo astratto e probabilmente
irrealizzabile. Come la vorresti la destra, oggi?
R — Elitaria, aristocratica, che si preoccupi della bellezza. Adesso solo la
sinistra ha la sensibilità per la bellezza, la destra è fatta da ragionieri.
D — Liberalizzeresti la droga?
R — Sì.
D — Patria?
R — Sicilia (la Sicilia torna sempre nei suoi discorsi. E favorevole alla
separazione dell'isola dall'Italia: «Non me ne fotte un cazzo dell'Italia
unita»).
D — Nemico?
R — Conformisti.
D — Divorzio?
R — Certo.
D — Dimmi perché lo sei diventato, «fascista».
R — Mio zio era un parlamentare del MSI. Mio padre, direttore didattico, e mia
madre sono fascisti. La mamma è farmacista e un tempo teneva sotto il banco una
bottiglia di acido muriatico, nel caso «i rossi» invadessero il negozio. In casa
c'era un busto di Mussolini. Ma non ho cominciato a essere di destra per
educazione, bensì per ribellione: tutti i miei coetanei erano di sinistra.
Leggevo Papini, Prezzolini, Malaparte. Evola mi ha annoiato subito.
D — Mussolini chi era, per te?
R — Da piccolo mi sembrava un eroe: Achille. Poi mi è piaciuto il Mussolini
socialista di Salò, il suo essere un personaggio tragico. Oggi per me è solo una
metafora letteraria. Mi sono iscritto al MSI nel 1984 e ho fatto anche parte
della Direzione Nazionale del Fronte della Gioventù quando il capo era Fini, ma
non ero finiano, ero di sinistra. Conosco Fini da molti anni, abbiamo rapporti
cordiali ma non siamo amici. Sono stato anche consigliere provinciale, con
scarsi risultati perché la burocrazia mi annoia, ho un sacro terrore delle
clientele, della gente che ti scongiura di trovargli il posto. Poi a 23 anni mi
sono laureato in filosofia, con una tesi su Ernst Jünger, a Catania. A 25 mi
sono sposato con una compagna di scuola, sono ancora sposato ma lei sta in
Sicilia, vado a trovarla quasi tutti i fine settimana. Mi sono sposato in
chiesa, con il rito latino, perché è tipico dei fascisti e fa incazzare i
vescovi. Odio i preti.
D — So che hai fatto anche il libraio. Questo ci piace. Racconta.
R — Nell'89 ho aperto con mia moglie una libreria a Leonforte, un paesone
siciliano ricco. Anche la libreria era ricca, di lusso, tavoli di marmo nero,
novità, catalogo, presentazioni di autori. Ma sono un pessimo venditore, mi
vergogno a farmi pagare, e i rappresentanti delle case editrici erano tremendi,
mi davano di tutto. È durata quattro anni e ho perso sui 240 milioni.
D — Sei ricco?
R — Ho avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta.
D — E dopo questa esperienza che idea ti sei fatto dell'editoria?
R — Io facevo il libraio come attività romantica: non ci ho capito niente. Anzi,
ho capito che i librai acculturati sono anche antipatici ai lettori, mentre
quelli ignoranti riescono a capire se il libro andrà o no.
D — Al giornalismo come ci arrivi?
R — Grazie a Adolfo Urso, oggi deputato di AN, che mi fa scrivere sul "Roma" di
Napoli, e a Domenico Mennitti, oggi direttore di "Ideazione" e allora del
"Secolo", che mi fa cominciare "L'orto delle delizie", la rubrica di Dragonera.
Poi è arrivato Maurizio Gasparri (coordinatore di AN) e giocavamo a non andare
d'accordo, perché io sono un siciliano e lui è un poliziotto. Comunque mi ha
preso come praticante. Ho cercato lavoro in tutti i giornali, scrivevo ai
direttori, ma nessuno mi ha mai risposto. Ho fatto anche domanda di assunzione
alla Fininvest: al loro esame di giornalismo mi hanno bocciato già allo scritto.
Per fortuna poi è arrivato Gennaro Malgieri, maggio 1994, il primo direttore
vero che il "Secolo" abbia avuto.
Ero già andato a curiosare in via della Scrofa, prima di telefonare l'altra
notte a Buttafuoco: il "Secolo" è lì, proprio sotto la sede di AN. Il giornale
sta tutto in uno stanzone più l'ufficio del direttore, senza neppure una
finestra: una volta qui si tenevano le conferenze stampa del MSI e si esponevano
i cadaveri dei dirigenti del partito. Venti redattori -la metà appartengono agli
uffici stampa dei big di AN- che lavorano come bestie per fare un quotidiano che
comincia a diventare decente. Aria di moderata soddisfazione e di molta fatica,
esterni sfruttati come pulci addomesticate: ce n'è una, neppure di destra,
eccellente nella cronaca di Palazzo: si chiama Laura Ciarallo e bisognerebbe
liberarla da quella gabbia, se scoprire i bravi è ancora uno scopo di questo
mestiere. Gennaro Malgieri lo conosco da più di vent'anni: venivo a Roma per
preparare la tesi di laurea e ci incontrammo nella stessa pensione di sacerdoti,
ci si andava per risparmiare. Mi ricorda -l'avevo rimosso- che venni espulso per
indegnità quando cercai di portare in camera una ragazza. (Bei tempi? Macchè,
uno schifo). E ora eccolo qui Gennaro, buddone di destra, che vuole fare il
"Secolo", avendo a modello "l'Unità". E un po' ci riesce, con quelle due lire:
soprattutto tenta di dare una svegliatina a una destra bolsa e conservatrice, di
rivelare loro cose mai sentite: che gli omosessuali non sono malati, che gli
spinelli non sono necessariamente l'anticamera dell'eroina, che si può essere di
destra anche senza essere piccini. Buttafuoco dice: «Certo che trattandosi di un
giornale di partito, l'editore vuole che la sua linea politica sia spiegata e
propagandata. Però possiamo spernacchiare certi dogmi della destra, per esempio
quello dell'ordine, l'isterismo forcaiolo e soprattutto la voluttà borghese del
tutto pulito, tutto perbene». Vedremo cosa succederà di Malgieri e Buttafuoco.
Intanto il direttore è orgoglioso del suo praticante e mi confessa candidamente
che non legge mai i suoi pezzi finché non vengono stampati: così non è costretto
a mentire quando, il giorno stesso, deve scrivere biglietti di scuse ai
personaggi del partito colpiti: per esempio, Buttafuoco ha scritto che
immergerebbe Giuseppe Tatarella in un bagno d'olio di ricino e ha sfottuto
Gianfranco Fini (editore del giornale) in una finta intervista.
D — Ti piace stare al "Secolo", Buttafuoco?
R — Sei matto. Voglio visibilità, voglio sfondare, voglio scappare.
D — Se potessi scegliere, cosa ti piacerebbe fare?
R — L'inviato cazzeggione. Raccontare. Fare pezzi di scrittura. Il quotidiano
che mi piace di più fra i giornali borghesi è "La Stampa", perché è un giornale
di inviati.
D — Non ti dovrebbe essere difficile, adesso, farti assumere in un buon
quotidiano.
R — Dici?
Secondo me Buttafuoco fa il furbo: ha capito che le sue azioni salgono di giorno
in giorno senza che debba fare niente, e aspetta che un «giornale borghese» gli
offra su un piatto d'oro di fare l'inviato cazzeggione. Pochi giorni dopo
quest'intervista gli hanno offerto la direzione de "l'Italia settimanale", in
sostituzione del disarcionato Marcello Veneziani. Compito dei più ingrati,
certo, ma occasione ghiotta per un praticante che non ne può più di stare al
"Secolo". Buttafuoco però è stato così accorto da non buttafuocarsi
nell'avventura e ha rifiutato con un'abile dichiarazione alla stampa: «Non
riuscirei a intercettare un pubblico che aspetta la discesa in campo di Amedeo
d'Aosta e non vuole le tette in copertina». Il vero problema è capire quanto sia
ingenuo e quanto finto ingenuo. Sul finto l'ho beccato una volta sola, quando mi
ha detto che si è visto arrivare a casa la Freccia alata -senza chiederla- solo
perché viaggia spesso sul Roma-Catania. (D — Non dire stronzate. Chi sa che hai
fatto per averla. R — Beh, ho scritto un articolo parlando malissimo
dell'Alitalia ...). Ingenuità pura, con uno spruzzo di pigrizia, mi è sembrata
invece la non vicenda editoriale del suo romanzo, che si chiama "I Beatipaoli":
è una storia di mafia e di educazione sentimentale: bellissimo, finito da un
anno. Buttafuoco, tossendo e mangiando limone salato, giura che non l'ha
proposto a un editore perché non sa «come fare», non «conosce nessuno». Come se
fosse difficile conoscere uno straccio di editore. (Ma gli editori non si
eccitino, ormai è andata: ora ha il contratto. "I Beatipaoli" di Buttafuoco
usciranno all'inizio dell'anno prossimo, e quando gliel'ho annunciato,
finalmente ho sentito la sua voce tremare. Sarà la più interessante novità
letteraria degli ultimi anni, dopo l'esordio di Aldo Busi).
D — Ti piace Busi?
R — Scrive come un dio.
D — Tu sei un grande scrittore?
R — Sì. Fotto tutti perché penso e scrivo in siciliano, come Sciascia, Verga,
Pirandello: sembra che scriviamo in italiano, ma la struttura linguistica e
mentale è siciliana.
D — La cosa che ti piace di più al mondo è scrivere?
R — No, è fottere. Scoperei notte e giorno, ho sempre voglia.
D — Ole. Omosessualità?
R — Niente.
D — Droghe?
R — Macchè, neanche sigarette o alcol. Costretto alla sobrietà per la salute.
D — E come giornalista, quanto sei bravo?
R — Non mi considero un giornalista. Sono giornalista per caso, perché so
leggere, parlare, scrivere: ma i giornalisti spesso perdono la dignità stando
nel gregge, mentre il dovere dell'intellettuale è stare nella cattiveria
dell'essere contro: penso a Busi, a Carmelo Bene... Comunque non posso parlare
male del giornalismo: a me fa divertire.
D — Esci da te medesimo. Parlami del giornalismo come lettore.
R — II giornalismo italiano è ipocrita. Un giornalismo di dogmi, che gronda di
rispetto verso certi personaggi, certi editori, dove non si può dire questo o
quest'altro a seconda delle testate. Ma tutti i giornali borghesi si fanno le
pippe, aprono con le solite solfe del Galante Garrone o del Norberto Bobbio di
turno, coi grandi papi laici che devono profondere le loro elucubrazioni. Ma
soprattutto c'è il fatto che nei giornali certe cose non si possono dire, non
scrivono mai quel che è vero ma quel che si deve dire, che non è mai vero. Per
esempio, il problema Scalfaro: gli italiani ormai hanno capito che è un
sacrestano, un... (censura dell'esperto intervistatore per evitare querela) ma i
giornali non lo dicono. Lo dice magari Feltri e allora si pensa che serve
Berlusconi; in realtà quello che scrivete di Scalfaro, lui o tu, tutti lo
pensano e nessun altro lo scrive. Così come nessuno scrive che in Italia c'è un
problema che si chiama Fiat, che lo sviluppo del Paese è deformato perché
serviva alla Fiat: pessimo sistema ferroviario, eccetera.
D — E così perdi venti miliardi di pubblicità e chiudi il giornale.
R — Sì, ma come hanno funzionato "Il Popolo d'Italia" di Mussolini o
"L'Indipendente" di Feltri, anche con un minimo di pubblicità? Con la violenza
del linguaggio, con la velocità del messaggio, con la capacità di scuotere la
gente: se tu non procuri un tuffo al cuore al lettore, non fai un buon
giornalismo. Se dici la verità colpisci sempre il lettore, e lo conquisti. Io
farei un giornale con il massimo di raffinatezza nella scrittura e il massimo di
volgarità nelle denuncie. I giornali borghesi si guardano bene dal fare l'una e
l'altra cosa.
D — Cosa intendi per «giornale borghese»?
R — È il giornale che ci immaginiamo venga aperto dopo il pranzo la domenica
pomeriggio e accompagna lo zapping fra lo sport e «Domenica In». Quello che
ospita l'enciclica domenicale di Eugenio Scalfari: è la testata che si incarna
nel solco del perbenismo italiano, cioè tutte. Anche il "Secolo" ha
un'aspirazione a diventare un giornale borghese; borghesissima è "l'Unità",
battuta solo da "Il Sole-24 Ore". L'unico quotidiano non borghese che ho visto
in Italia era "L'Indipendente" di Feltri, e anche quello di Pialuisa Bianco.
D — "Cuore"!
R — E un giornale istituzionale.
D — "Espresso" e "Panorama"!
R — Di Panorama mi piacciono solo gli articoli di Mughini...
D — E ridagli con la Sicilia. Cos'è, un'associazione giornalistico-mafiosa?
R — Oh, Mughini è un po' il padre di tutti noi giornalisti siciliani a Roma...
Comunque, "Panorama" è il salotto che compri da Aiazzone, è popolare: il
borghese vero è quello che sa accostare i mobili antichi con quelli moderni.
"L'Espresso" in questo senso è borghese borghese borghese, però mi piace
tantissimo perché è anche libertario e cazzeggione. È capace di analizzare le
grandi trasformazioni della società italiana: peccato che siano così fanatici
nella battaglia contro Berlusconi. Berlusconi deve essere visto per quello che
è, un ingenuo, certo non un mefistofele.
D — Berlusconi un ingenuo?
R — Ma sì, è più un bravo padre di famiglia che una mente politica. Basta vedere
la falsità che c'è dietro il suo sorriso, così palese che solo un uomo ingenuo
può credere di riuscire a nasconderla. Secondo me finirà male: il berlusconismo
verrà amministrato dal centrosinistra e arriveremo a una società berlusconiana
senza Berlusconi, amministrata da gente tipo Prodi che rappresenta il perbenismo
beota, la retorica dei tortellini e la bicicletta con la panza.
D — Sei tu, vero, ad avere inventato la definizione di Prodi «mortadella dal
volto umano»? R — Sì.
D — E Fini?
R — Tutt'altro che ingenuo. Si è saputo trasformare e ha una grande virtù, il
fattore C: il culo, ha un culo straordinario, le circostanze gli sono sempre
favorevoli.
D — Facciamo che incontri un bambino siciliano e gli devi spiegare chi sono i
giornalisti italiani.
R — Per prima cosa gli direi che ci sono un sacco di tagliasacchetti, che non
vuol dire tanto borseggiatori quanto avvoltoi, quelli che aspettano sempre il
momento giusto per approfittare di qualsiasi cosa: i più pezzenti, dei
cialtroni, dei pompinari. Per esempio, nella vicenda di Alleanza Nazionale al
governo, le puttane più assolute sono stati i giornalisti, osceni. Noi, che
abbiamo sempre avuto un marchio di infamia, ci trovavamo davanti questi
personaggi che sono stati democristiani, moderatini, e che d'improvviso
-plaffete- ti facevano vedere la fotografia del padre in orbace: «Guarda, è un
orgoglio per me!». C'è anche il giornalismo ipocritissimo e becero, da coglione,
non saprei come definirlo altrimenti, che è quello dei tre pontificatori Biagi,
Bocca e Montanelli, soprattutto quello malafedissimo di Montanelli, per il quale
è ancora valida la definizione di Longanesi: «Montanelli è uno stronzo, uno
stronzo, uno stronzo», perché è semplicemente in malafede, col suo turarsi il
naso e i vari cambiamenti. Fra i giornalisti, i più sono impiegati. Del resto è
così in qualsiasi istituzione italiana, dall'esercito all'università. Poi hanno
questo buffo senso della gerarchia e del nonnismo che a me -praticante più bravo
di loro- fa sempre ridere: questi capiservizio, capicazzo, capieccetera sempre a
rivendicare il loro potere. Poi ci sono pochi giornalisti che amano veramente il
mestiere e che lo vivono 24 ore su 24, come Ceccarelli o Pier Luigi Battista.
Comunque, la categoria più patetica è quella dei frustrati, come spero di non
dovere essere io, quei tanti che fanno giornalismo solo perché vorrebbero fare
gli scrittori. C'è anche un giornalismo di alta scrittura che non si sente
frustrato perché vuole fare proprio quello: Igor Mann, Francesco Merlo...
D — Siciliani anche loro. Allora cantami «vitti 'na crozza» e non ne parliamo
più.
R — Mica per regionalismo, che credi! Ti ho già detto che la lingua siciliana
favorisce la grande scrittura.
D — Va bene. La polemica se l'italiano è nato in Sicilia o in Toscana ha già
qualche secolo, lasciamo stare. E che mi dici dell'Ordine?
R — Va spazzato via. Perché se è vero che il giornalismo si avvia verso la
deskizzazione obbligata, avrà sempre più bisogno di professionisti con le palle
che non c'entrano con il desk. Allora le testate devono poter scegliere chi
vogliono, senza sindacato tra i piedi.
D — E il giornalismo di destra?
R — I più erano reietti che meritavano di esserlo, e che dovrebbero esserlo per
sempre. Le eccezioni erano Paolo Isotta e -come si chiama- quel pazzo simpatico
che se la prende coi froci... Piero Buscaroli. Si salva anche Giano Accame.
Quanto a oggi, mi piace ovviamente Malgieri, una delle persone più colte che ho
conosciuto. Veneziani è un mitomane, anche se di grande livello, colto.
D — E il futuro?
R — II giornalismo di destra dovrà eliminare tutti i suoi tromboni, che sono
tantissimi e penosi: quelli che fanno il giornalismo moralista,
moralisteggiante, moralizzatore. Ma fra quelli che si occupano di politica non
vedo i sostituti, anche perché uno dei vizi più forti della classe dirigente di
AN è l'analfabetismo. Era molto più colta la dirigenza del Movimento Sociale.
C'è qualcosa solo nell'ambito della cultura: per esempio, un tipo straordinario,
Valerio Zecchini di Bologna, che lavora nell'underground, uno che non ti
immagini, che ha fondato un circolo di Alleanza Nazionale: Lsd e recite di
poesie futuriste.
D — (Domanda fatta prima del licenziamento di Veneziani e prima che la direzione
venisse offerta a Buttafuoco.) Che ne pensi de "l'Italia settimanale"?
R — Dovrebbe abbandonare il raglio dell'io. E poi dovrebbe cambiare
completamente la rubrica della posta dei lettori, che è come quella del
"Giornale": non c'è niente di peggio dei reazionari borghesi piccoli piccoli
piccoli piccoli che si lamentano, sempre a criticare, a dolersi, a piangere.
Comunque, con "L'Italia" ho collaborato, Veneziani mi invita ancora ma non ho
tempo, se no lo farei.
D — Se "L'Espresso" ti offrisse una rubrica, il tempo lo troveresti?
R — Senz' altro.
D — Mafia?
R — Non esiste ed è un peccato che non ci sia: è stata sostituita dalla
criminalità volgare, anche se ne mantiene le forme e la struttura esoterica
della vecchia mafia. La mafia nasceva da un istinto primario dell'uomo, da uno
scetticismo di base, dalla consapevolezza che la politica non può dare la
felicità a nessuno e che chiunque si mette in testa di creare un paradiso non fa
altro che creare un inferno. La mafia è fondata sulla convinzione che tutto è
fatuo ed è una struttura che non conosce ipocrisia: era la sua caratteristica
più terribile ma anche più interessante.
D — Racconta qualcosa dei «Beatipaoli».
R — Si confrontano il Bene e il Male non dal punto di vista della morale ma
delle fantasmagorie migliori dell'uno e dell'altro. Ci sono un Bene
assolutamente noioso e un Male assolutamente consapevole, che è scettico, che
scava, prende, cattura, che soprattutto non concede nulla alla quiete.
D — Chi vince?
R — Vince il Male.
D — E questo ti piace?
R — Come no!
Eccolo qui, il Pietrangelo Buttafuoco. Alla fine della notte mi sembra molto
meno bravo, meno interessante di quando scrive. Ma è normale, succede quasi
sempre con i grandi scrittori. Vi piaccia o no, ci avremo a che fare.
Intervista di
Giordano Bruno
Guerri
da: «Prima
comunicazione», n° 240, aprile 1995
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