«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 3 - 15 Giugno 1995

 

Perchè «quelli» si fecero cittadini e guerrieri di Salò
A mezzo secolo dalla fine della guerra civile
 

Ci accingiamo a scrivere queste note mentre mancano pochi giorni allo scoccare sul quadrante della storia del semisecolo trascorso da quando -in una immensa tempesta di sangue lutti lacrime e dolori- la vittoria degli Alleati dava soluzione di continuità alla tragedia della guerra civile. Cruenta dietro la Linea Gotica; incruenta ma non meno determinata e feroce nel Regno del Sud, perché combattuta a colpi di epurazioni, processi politici, emarginazioni, terrorismo psicologico contro i veri o presunti «fascisti», con i soliti stracci che andavano all'aria e con papaveri, papere e paperon dei paperoni della zona grigia del vecchio Regime che riuscivano a mettersi al sicuro sia pure per il rotto della cuffia.
Col 25 aprile '45 finiva nel dramma la vicenda della Repubblica Sociale Italiana, la cui componente popolare, nazionale, socializzatrice Mussolini aveva tentato, in articulo mortis, di salvare mediante il passaggio dei poteri al Partito Socialista di Unità Proletaria. Su tale aspetto di quei remoti accadimenti, sui suoi dati al contempo di concretezza e di astrattezza, non mancheremo di soffermarci. Ora, con questo primo contributo ad una «introspezione» nuova delle caratteristiche della RSI -in certo qual modo e misura rifondativa della tradizionale e un po' consunta verità ufficiale- intendiamo focalizzare una questione precisa e circoscritta. Condensabile nel seguente interrogativo: Coloro che nell'autunno '43, rispondendo all'appello di Mussolini e di Graziani, accorsero -giovani e men giovani qui non importa- sotto le bandiere della RSI, erano davvero in possesso di una motivazione in qualche guisa plausibile e rispettabile oppure no? Oppure, cioè, erano solo -come sosteneva la propaganda degli Alleati e dei loro... alleati italiani, «vetero» o «neo» che fossero- spazzatura umana degna esclusivamente dei «Criminal Fascists Camp» delle varie Coltano e dintorni? Magari, nella migliore delle ipotesi, degli ingenui, degli immaturi, dei frastornati dal ventennale monologo mussoliniano, e, dunque, meritevoli di comprensione ed attenuanti?
Diciamo subito che questo monitoraggio della Repubblica gardesana intendiamo farlo da «sinistra» e allo scopo di fornire alla Sinistra nel suo insieme -quindi, sia a quella di «classe», di derivazione marxista; sia a quella «rinnovata» in senso liberaldemocratico e riformista- materiali atti a indirizzarla verso valutazioni e giudizi non psicologicamente condizionati, non soggetti alla pressione spirituale e intellettuale della tradizione, delle verità stabilite una volta per tutte e minatoriamente paralizzanti i processuali aggiornamenti culturali innescati dalla ricerca storica. È una vita che andiamo esternando la convinzione della necessità di una lettura in controluce, di una analisi meglio articolata, di un esame più distaccato, meno passionale, soprattutto meno oppresso dalla paura dell'invischiamento nel famoso «revisionismo», di quella che fu l'esperienza della RSI e ci siamo decisi, ancora una volta, a mettere nero su bianco dopo la catastrofe patita dalla Sinistra -anzi, saremmo tentati di dire, dalla democrazia nel suo complesso- lo scorso anno. Da una Sinistra, soggiungiamo, tutt'altro che esente da gravi responsabilità e colpe per i cinque milioni e mezzo di voti capitalizzati da Alleanza Nazionale, presentatasi al giudizio delle urne nella versione più crudamente maccartista, conservatrice, reazionaria, antipopolare, trasformista, che sia dato immaginare. Ciò per limitarci all'area postfascista verso la quale si è sparato nel mucchio, senza discernimento, senza preoccuparsi di produrre denuncie e discorsi atti a cogliere le contraddizioni dell'avversario onde approfondirle e volgerle a favore dell'avanguardia democratica.
Si dirà: che cosa c'entra mai Salò con le elezioni perse dalla Sinistra nell'anno di grazia 1994. C'entra, eccome! Nel senso che si è ricavato da un apporto di discendenza meccanicisticamente valutato e settariamente disprezzato nella sua globalità un comportamento inadeguato, discriminatorio in nome di un antifascismo non solo targato 1945 ma umiliato nel ruolo di Sant'Uffizio della Resistenza, di autodafé del Controventennio. Con tutte le ovvie, inevitabili conseguenze in chiave di incomunicabilità, di reciproca sconoscenza, di assenza di dialogo dei partiti popolari -attenzione: popolari, non semplicemente numerosi- con una realtà di base ampiamente e fortemente segnata da potenzialità sociali compresse e disertate dai gruppi dirigenti.

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Esaurita l'antifona, torniamo al nocciolo della «questione». C'erano razionalità, ragione, ragionevolezza, ragionamento nell'opzione pro RSI di coloro che Umberto Calosso dai microfoni di Radio Londra per primo chiamò «repubblichini»? C'erano in essi dignità di movente, moralità guerriera, pulizia politica? Più precisamente: c'era, in sufficiente misura, logica -quanto meno una particolare logica di parte- nella scelta di volontariamente seguire Mussolini nella sua ultima avventura repubblicana o di non sottrarsi agli ukase di Graziani?
Riteniamo che, in proposito, sia opportuno fare riferimento a fonti inequivocabilmente antifasciste onde appurare il grado di consistenza e il livello di credibilità, lo spessore insomma, delle motivazioni «interventiste».
Cominciamo con Dino Grandi, il capo dell'opposizione interna al Regime Littorio, l'uomo che il 25 luglio '43 mise in minoranza il Duce nel Gran Consiglio del Fascismo, in tal modo offrendo al Re il «mezzo costituzionale» per sostituirlo con Badoglio. Orbene, colui che, stando a quanto ce ne dice il De Felice in un saggio dedicatogli, Vittorio Emanuele III reputava essere diventato il «simbolo dell'antifascismo» (sic!) così si esprime sull'avvio del fenomeno Salò: «Ma se questi (Mussolini) potè, dopo 45 giorni, risorgere, non fu soltanto perché venne sospinto e portato dalle baionette tedesche, ma altresì perché potè fare leva sulla rivolta morale, determinata dall'azione compiuta da Badoglio e dai suoi, e sull'angosciosa delusione che afferrò il popolo italiano dopo l'8 settembre. Il 25 luglio il popolo italiano ed il fascismo medesimo avevano abbandonato e condannato Mussolini. Dopo l'8 settembre questi trovò ad un tratto, attorno a sé, non soltanto i pochi fanatici superstiti della dittatura fascista, bensì anche molti offesi dallo scempio fatto sul corpo inerme della nazione».
Dunque, la RSI non fu solo un prodotto di «pochi fanatici» -parecchi dei quali, anzi, si erano affrettati a cambiare casacca per non pagare i troppo salati conti del loro fanatismo- ma anche di molti italiani, soprattutto giovani, spinti dalla «rivolta morale» antibadogliana verso il governo repubblicano.
Soprattutto la Sinistra faccia a ciò attenzione, perché il Grandi godette della stima di due illustri esponenti della politica e della cultura del PCI pur essendo egli -da uomo di destra quale formalmente e sostanzialmente manifestava, ad onta dei giovanili entusiasmi per Andrea Costa é Anna Kuliscioff e dell'abbonamento alla "Critica Sociale" di Turati e Treves- lontano trilioni di anni luce da ogni e qualsivoglia sinistrismo, sia fascista che antifascista. Le due personalità del PCI testé accennate sono da individuare negli on.li Mario Alicata e Antonello Trombadori. O Costoro giudicarono il presidente della Camera fascista degno di attenzione e di stima anche indipendentemente dal fatto di avere suggerito al Sovrano, nell'ultima udienza accordatagli prima del colpo di Stato il 4 giugno '43, la costituzione di un ministero di uomini della democrazia fra cui i socialisti Bruno Buozzi e Gino Baldesi.
Spostiamoci ora all'estero. La propaganda angloamericana da tre anni si esercita ossessivamente in questo refrain: «Siamo nemici del fascismo e di Mussolini, non dell'Italia. Gli italiani si liberino di ambedue, si schierino con le Nazioni Unite, e automaticamente le vecchie amicizie saranno ripristinate mediante una pace non punitiva». Però, guarda caso, a due settimane dalla eliminazione del Regime e del suo capo a Londra, nella Camera dei Lords, il ministro dei Dominion Lord Cranborne, portavoce del governo, dichiarava: «Lo scopo che ci siamo prefissi per quanto concerne l'Italia è la capitolazione senza condizioni». E, al fine di guarnire la durezza con la beffa, aggiunge: «Una capitolazione onorevole non significa altro che questo. Questa è ormai la nostra politica».
Si dirà: il governo Badoglio aveva esordito con l'assioma «la guerra continua». Perché mai, allora, gli Alleati avrebbero dovuto abbassare la guardia, rinunciando all'unconditional surrender proclamato all'inizio del '43 a Casablanca? Perché, diciamo noi insieme a tanti altri, quell'assioma non era affatto... assiomatico, come avevano capito tutti e come fingeva di non aver capito il Cranborne, il quale, interrogato circa la disponibilità o meno dei governi della coalizione a concedere più clementi condizioni ad un governo «popolare» (cioè democratico, immaginiamo) in Italia, così si esprimeva: «No. La ragione per cui noi domandiamo la resa incondizionata è perché intendiamo proseguire la guerra contro la Germania, fino in fondo e con i mezzi più adatti a tale scopo. Se noi oggi negoziassimo delle condizioni migliori con un governo del quale non conosciamo le vere intenzioni ciò non farebbe che servire gli interessi tedeschi».
Però, non appena il ministro di Sua Maestà Britannica, il governo di cui è membro e relativi sodali di Oltreatlantico e dell'Est affetteranno di avere finalmente contezza della vera verità circa le intenzioni regio-badogliane, si guarderanno bene dal mitigare le condizioni capestro stabilite in quel di Casablanca. Del resto, ci pensa il futuro presidente USA all'epoca comandante in capo delle forze militari delle Nazioni Unite nel Mediterraneo, generale Eisenhower, a coonestare le dichiarazioni del churchilliano Cranborne. Anzi, continua a ingannare l'Italia, alla quale si rivolge con queste parole: «II fascista Badoglio (sic!) vi tradisce. Egli prosegue la guerra di Mussolini. Imponete la vostra volontà di pace. Noi non vogliamo la guerra contro il popolo italiano. A voi la scelta».

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Ci è capitato sovente di sentirci accusare -nel soffermarci su questi argomenti, discettandovi come qui veniamo facendo- di essere eccessivamente proclivi ad adottare valutazioni che furono della propaganda erresseista. Evidentemente quella propaganda doveva esprimersi con eccezionale efficacia se «un alto personaggio americano di passaggio a Lisbona» non potè fare a meno di dire a Dino Grandi, che ivi si trovava in più o meno volontario esilio, quanto segue: «Non vi è errore che potesse commettersi nei riguardi dell'Italia, che noi non abbiamo commesso». Costui li chiama errori, forse in buona fede.
Ma che non di errori si trattò, bensì di un preordinato piano di vendetta, di punizione e, soprattutto, di ridimensionamento drastico del nostro Paese e del suo ruolo mediterraneo, africano, planetario è dimostrato, tra l'altro, dal fatto che quanto detto dal notabile statunitense al Conte di Mordano in terra lusitana risale al gennaio '44, ragion per cui è giocoforza ritenere che per correggere, cassare, far dimenticare gli «errori» e connessi orrori c'era, ed avanzava anzi, tutto il tempo necessario e le relative occasioni. Se non se ne fece nulla fu perché le vere o presunte erranze facevano comodo ai vincitori. I quali, peraltro, si comportavano con grande cinismo e ipocrisia, come comprovato da questo brano di Churchill che estrapoliamo dal contesto di una allocuzione ai Comuni in data 24 maggio '44: «La sorte dell'Italia è senza dubbio terribile e personalmente (sic!) io non posso nutrire un sentimento di animosità verso il popolo italiano. Può darsi che dopo la caduta di Mussolini la nostra azione avrebbe dovuto essere più rapida o più audace. Io non pretendo che degli errori non siano stati commessi da parte nostra e dall'azione congiunta dei nostri alleati».
Orbene, non risulta che dopo cotale discorsetto Sir Winston abbia fatto alcunché per appalesare con fatti e non con chiacchiere di essere amico del nostro popolo. Tutt'altro! Nel monarcato meridionale e via via che gli eserciti alleati risalivano la Penisola l'occupazione inglese si evidenziava ben più pesante e invadente di quella della Repubblica stellata. No. Il premier inglese non soltanto peccò, per così dire, di omissione di soccorso, ma addirittura volle teorizzare la vendetta. Di più: vestì i panni odiosi del provocatore. Il 28 agosto del '44, all'atto di congedarsi dalle truppe, a conclusione della visita in Italia, ritenne di dover indirizzare un messaggio «d'addio» (era proprio il caso di definirlo in tal modo nel quale campeggiava una proposizione come questa: «Quando una nazione si è lasciata trascinare in un regime tirannico non può essere assolta dalle colpe che quel regime ha commesso. Noi non dimentichiamo».
Al che il Mordano, cioè il gerarca che Farinacci chiamava «l'uomo degli Inglesi», l'amico intimo di Churchill e di tante altre alte ed altissime personalità del Regno Unito -inclusi i Sovrani- si vede costretto a vergare nelle sue memorie, scritte nel '44 in Portogallo ma licenziate alle stampe nell'83 per i tipi della "Editrice Il Mulino" di Bologna, questa esternazione: «Punizione quindi. Redenzione poi. Lontane, dimenticate le parole dette prima del 25 luglio, ed anche le parole dette poi, a più riprese e in diverse occasioni, da Churchill, da Roosevelt, da Eisenhower, da altri. Propaganda di guerra. Fruttuosa e ben calcolata propaganda di guerra». E scusate tanto se è poco.
Ma se un anglofilo, anzi un anglomane, come Dino Grandi, ambasciatore per vari anni a Londra e capo della fronda antitedesca interna al fascismo, sentiva il bisogno di mettere nero su bianco per giudizi tanto irati sui suoi sodali albionici, cosa mai dovevano pensare dire e fare migliaia e migliaia di italiani delle generazioni più o meno recenti, fresche di indottrinamento fascista nelle aule di studio, nella GIL, nei GUF, nelle Scuole di Mistica Fascista? Esattamente quello che pensarono dissero e fecero, decidendo, alla fine, o di non sabotare il richiamo alle armi delle classi interessate deciso dal governo della RSI su proposta del Maresciallo Rodolfo Graziani o, addirittura più giovani di entrare volontariamente a far parte della Decima Mas, della Guardia Nazionale Repubblicana, di quel tanto o poco della marina e della aviazione che era riuscito a sottrarsi alla consegna a Malta, proprio a Malta, con evidenti fini di umiliazione.
Quando l'antifascismo in genere e quello di sinistra in particolare si soffermano sui tempi ed eventi qui evocati cerchino di svincolarsi, prima di formulare malevoli giudizi e definizioni, dall'idea che fino al quarto millennio dopo Cristo la radice di tutto quanto accade sul pianeta debba ricercarsi esclusivamente nella dialettica fascismo-antifascismo e che la sola pregiudiziale ideologica sia atta a spiegare pulsioni e comportamenti del prossimo nostro. Ciò detto, resta da constatare che i presunti «errori» angloamericani -ivi compresa la sistematica criminale distruzione rateale dell'Italia effettuata dalle fortezze volanti- ebbero a rivelarsi ben più efficaci dei bandi governativi nel rimpolpare le inizialmente esili schiere castrensi della Repubblica Sociale Italiana.
Un preoccupatissimo Dino Grandi, in vena di autocritica, afferma: «Le democrazie anglosassoni avrebbero potuto avere l'Italia per sé e con sé, per sempre (e purtroppo per sempre l'hanno avuta, caro Conte! N.d.R.). Hanno preferito umiliarla. Non l'hanno voluta. Essi non videro nel 25 luglio che un beneficio inatteso, giunto esclusivamente a facilitare i piani militari Alleati, già fissati a Casablanca nel gennaio 1943 e a Washington nel maggio successivo. Win fall, pioggia benefica e insperata, fu definita da Churchill ai Comuni, la resa dell'Italia». Accaloratissimo nel suo appassionato e serrato argomentare, il Mordano non si accorge di dire esattamente le stesse cose che negli stessi giorni, nelle stesse ore, dice la propaganda della RSI e sentono i giovani che invece di recarsi in montagna per raggiungere i nuclei partigiani si presentano nelle caserme di Graziani e di Borghese, in tal modo depurando Salò dei caratteri di una aggregazione collaborazionista, come, del resto, testardamente desiderato dal Duce.
Più che mai in vena di sincerità, il cugino di Vittorio Emanuele III -in quanto collare della Santissima Annunziata- scopre ulteriori altarini: «Parve persino che l'inattesa e insperata caduta di Mussolini fosse accolta da taluni con senso di dispetto, soltanto perché essa veniva ad un tratto ad introdurre problemi politici nuovi suscettibili di mutare questi piani, i quali si riassumevano in una formula brutale e semplice, la debellatio dell'Italia. Un'Italia divenuta ad un tratto amica ed alleata sembrò apparire a taluno quasi più come un ostacolo ed un ingombro che un vantaggio. Dove risulta riduttiva la prudenza che spinge a usare un linguaggio felpato nel fare riferimento alle male intenzioni affioranti nel campo degli Alleati al momento della elaborazione di comportamenti politici e militari nei confronti della nuova situazione italiana creata dai "19", dalla Reggia, dai militari».
Continua amareggiatissimo l'ex alto esponente del Littorio: «Ancora oggi, dopo più di un anno, i termini dell'armistizio italiano dell'8 settembre sono custoditi nel segreto e nel silenzio: sembra che gli stessi Alleati se ne vergognino o quanto meno che essi valutino appieno il danno che, ancora oggi, la pubblicazione di tale documento potrebbe determinare alla causa generale della guerra che si approssima verso il suo epilogo di vittoria».
In verità, ciò che gli angloamericani intendevano fare dell'Italia era «scritto» nei loro comportamenti, se ne vergognassero o meno. Solo l'astrattezza del nostro memorialista poteva pervenire alla scialba conclusione -ma, da un cavallo di razza della «estera» come lui era lecita attendersi una interpretazione meno campata in aria delle mosse e delle intenzioni dei suoi amici di sempre che tanto lo deludevano- che le «Nazioni Unite» si fossero decise a pagare anch'esse prezzi enormi in termini di ricchezze materiali, di sangue, di distruzioni nella guerra contro l'Asse al solo fine di consentire agli italiani prima e ai tedeschi poi, di eleggere un parlamento con liste di partito. In ciò questo furbo di tre cotte che era riuscito a mettere nel sacco un campione della tattica e della strategia chiamato Benito Mussolini, dava prova di ingenuità che i propagandisti radiofonici e a mezzo stampa della RSI mostravano di non patire. E con essi coloro che decidevano di seguire Mussolini nel progetto di prosecuzione dello sforzo bellico. Per quanto aleatoria potesse apparire loro la possibilità di farlo sboccare in una vittoria; per quante riserve potessero nutrire sul rapporto sinergico con la Germania. Sicuramente non una villeggiatura; men che meno un idillio. Ma almeno -così pensavano, così si esprimevano- si sarebbe caduti in piedi, come usa dire.
Ad un certo punto la critica grandiana, ormai infiammata e tuttavia condotta sul filo di un discorso logico, trabocca per dar luogo un grido di dolore: «... continuano a levarsi per l'Italia voci di minaccia oscura, che non possono non trovare una eco sgomenta nello spirito degli italiani. Trieste, Fiume, Istria, Alto Adige, Val d'Aosta, Colle di Tenda; si vorrebbero forse rimettere in discussione i confini del Risorgimento e della prima guerra mondiale? [...] Si parla persino di un possibile sacrificio dell'Eritrea, della Somalia, della Libia ...».
«Si vorrebbero», «si parla persino» etc. etc. Ma in che mondo vive quest'uomo, che è stato per tre anni ministro degli esteri e per sette ambasciatore a Londra dopo un tirocinio come sottosegretario a Palazzo Chigi accanto a Mussolini?
Improvvisamente, però, evade dal nirvana dell'ideologismo churchilliano-rooseveltiano, in cui si è cullato per troppo tempo, e si concede... a Lenin. Vediamo: «Le ideologie, distruggendosi a vicenda, si livellano, la miseria e il dolore tutti accomuna in un destino comune. Dalla comune povertà nasce una fatale uguaglianza e si ristabiliscono delle nuove posizioni di partenza uguali per tutti gli uomini. La seconda guerra mondiale non è stata mai una guerra di idee bensì soltanto una guerra di nazioni e di continenti, una lotta mortale di imperialismi che cercano di difendersi, di distruggersi a vicenda per affermare la supremazia dell'uno sull'altro. Si è proclamata dalle opposte parti, come un conflitto di ideologie, una guerra di religione. Ciascuno ha scritto sui propri vessilli etc. etc. etc. ... Ebbene, forse in poche guerre come in questa attuale, vi è stata giammai, tra l'assordante clamore di tante vane parole incitatrici, una così fredda assenza di idee e di miti, di motivi spirituali e morali. Questo spiega la sua implacabile, fredda crudeltà, la sua arida determinazione, la sua demoniaca orgia di distruzione e di morte». Non tutto, in questo brano, è oro colato. Tuttavia si avverte la sensazione, scorrendolo, che nell'impugnare la penna stavolta il Mordano abbia avuto più mordente, più la testa sul collo e i piedi per terra.
Passata la festa, gabbato lo santo, secondo avverte la saggezza popolare. Il 6 novembre 1945 vengono pubblicati i termini dell'armistizio. Un funzionario del Dipartimento di Stato USA ne correda il testo con questa dichiarazione: «La pubblicazione è stata ritardata per evitare che essa potesse servire alla propaganda neofascista e potesse scoraggiare i partigiani italiani che combattevano nel nord d'Italia ...». Più chiara dimostrazione dei truffaldini espedienti inventati dagli Alleati per raggirare il popolo italiano, deluderlo, odiarlo sotto le mentite spoglie dell'amicizia e della «liberazione» non potrebbe essere data.
Del resto, di che stupirsi se il ministro degli esteri britannico, Eden, fra la fine del '42 e l'inizio del '43 in una lettera a un uomo di governo americano, Cordell Hull, incitava a «non contare sulla possibilità di pace separata e puntare tutto sui bombardamenti aerei indiscriminati, sull'azione militare in genere, su una linea di fermezza nella nostra propaganda in modo da determinare disordini tali da provocare o un'occupazione tedesca o una iniziativa da parte di Vittorio Emanuele III»? Qui il cinismo raggiunge lo zenith: addirittura si cerca l'occupazione tedesca della Penisola per meglio giustificare la polverizzazione di metropoli e paesi, con annesso e connesso stragismo indiscriminato di massa. Insomma, sulle intenzioni degli Alleati si ingannava solo chi voleva farsi ingannare.
Occorre, dunque, riconoscere -indipendentemente da qualsivoglia giudizio si intende dare sulla loro scelta- che gli aderenti alla RSI furono quelli che più decisamente intesero respingere la grande frode. A proposito di essa, interessante appare a noi quanto in data 9 novembre '45 asseverava la "Tribune de Genève" per la penna del suo corrispondente da Chiasso: «La dichiarazione ufficiosa fatta dal Dipartimento di Stato a Washington costituisce l'implicito riconoscimento che l'armistizio era così duro da scoraggiare il popolo italiano a partecipare alla lotta contro la Germania e altresì la confessione che questa partecipazione italiana era giudicata dagli Alleati utile e necessaria». Diciamo la verità: fa ribrezzo questa avarizia spirituale e politica mescolata alla menzogna, alla violenza morale, alla durezza del cuore e dell'animo. E dire che ancora oggi si pretende che noi si cantino epinìci in lode e in onore dei vincitori di allora!
L'atteggiamento britannico-statunitense nei confronti dell'Italia fu talmente odioso da indurre gli ultras del filo-alleatismo, ossia il Partito d'Azione e dintorni, a intervenire ufficialmente per sottoporre a non blanda critica il comportamento delle Nazioni Unite. Il 10 novembre '45 "L'Italia Libera", quotidiano del PdA, così estrinsecava: «... il Fascismo non è un fatto esclusivamente italiano e non si potrebbe spiegare storicamente senza tenere conto dell'attitudine degli Alleati verso l'Italia alla fine della prima guerra mondiale; una parte dell'Europa fu allora tenuta in uno stato di sottomissione, di minorità, che provocò una reazione. Ripetere di nuovo questo errore sarebbe condannare il nostro continente e farebbe dubitare dell'intelligenza degli uomini così come del progresso della civiltà. Noi dobbiamo purtroppo constatare che la popolarità di cui godevano gli Alleati mentre il fascismo li combatteva, è oggi assai diminuita. Il popolo italiano era allora anima e cuore vicino ad essi. Ci si fecero mille promesse, mille blandizie per indurci a ribellarci contro la dittatura di Mussolini e allorché venne per l'Italia la sua ora, la Nazione ha dovuto pagare un prezzo enorme in migliaia di morti, in torture, in distruzioni ed ecco che ancora oggi ci si minaccia che tutte le promesse non saranno mantenute».
Ove una affermazione lascia perplessi: quella che rappresenta l'Italia come perdutamente innamorata degli angloamericani durante l'intero arco bellico. Non fu così. Se, ciò avvenne, è da mettere in rapporto al catastrofico andamento delle operazioni militari.
Comunque, è notevole che gli azionisti abbiano allora preso il coraggio a due mani, come suoi dirsi, e si siano decisi a criticare le potenze occidentali per le segnalate magagne del primo dopoguerra. Con il «rischio» di appaiarsi ai fascisti in questa analisi in negativo dei fatti e dello spirito di Versailles. A quei fascisti che, paradossalmente -e per una di quelle «astuzie della storia» di cui parlava Antonio Gramsci-, con la «socializzazione» si erano accinti ad attuare il programma sociale della rosselliana "Giustizia e Libertà". Magari andando anche oltre sul terreno della audacia rivoluzionaria. In fondo, non aveva torto Augusto Del Noce a definire «fratelli nemici» gli azionisti e i fascisti.

Enrico Landolfi

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