Perchè
«quelli»
si fecero cittadini e guerrieri di Salò
A mezzo
secolo dalla fine della guerra civile
Ci accingiamo a scrivere queste
note mentre mancano pochi giorni allo scoccare sul quadrante della storia del
semisecolo trascorso da quando -in una immensa tempesta di sangue lutti lacrime
e dolori- la vittoria degli Alleati dava soluzione di continuità alla tragedia
della guerra civile. Cruenta dietro la Linea Gotica; incruenta ma non meno
determinata e feroce nel Regno del Sud, perché combattuta a colpi di epurazioni,
processi politici, emarginazioni, terrorismo psicologico contro i veri o
presunti «fascisti», con i soliti stracci che andavano all'aria e con papaveri,
papere e paperon dei paperoni della zona grigia del vecchio Regime che
riuscivano a mettersi al sicuro sia pure per il rotto della cuffia.
Col 25 aprile '45 finiva nel dramma la vicenda della Repubblica Sociale
Italiana, la cui componente popolare, nazionale, socializzatrice Mussolini aveva
tentato, in articulo mortis, di salvare mediante il passaggio dei poteri al
Partito Socialista di Unità Proletaria. Su tale aspetto di quei remoti
accadimenti, sui suoi dati al contempo di concretezza e di astrattezza, non
mancheremo di soffermarci. Ora, con questo primo contributo ad una
«introspezione» nuova delle caratteristiche della RSI -in certo qual modo e
misura rifondativa della tradizionale e un po' consunta verità ufficiale-
intendiamo focalizzare una questione precisa e circoscritta. Condensabile nel
seguente interrogativo: Coloro che nell'autunno '43, rispondendo all'appello di
Mussolini e di Graziani, accorsero -giovani e men giovani qui non importa- sotto
le bandiere della RSI, erano davvero in possesso di una motivazione in qualche
guisa plausibile e rispettabile oppure no? Oppure, cioè, erano solo -come
sosteneva la propaganda degli Alleati e dei loro... alleati italiani, «vetero» o
«neo» che fossero- spazzatura umana degna esclusivamente dei «Criminal Fascists
Camp» delle varie Coltano e dintorni? Magari, nella migliore delle ipotesi,
degli ingenui, degli immaturi, dei frastornati dal ventennale monologo
mussoliniano, e, dunque, meritevoli di comprensione ed attenuanti?
Diciamo subito che questo monitoraggio della Repubblica gardesana intendiamo
farlo da «sinistra» e allo scopo di fornire alla Sinistra nel suo insieme
-quindi, sia a quella di «classe», di derivazione marxista; sia a quella
«rinnovata» in senso liberaldemocratico e riformista- materiali atti a
indirizzarla verso valutazioni e giudizi non psicologicamente condizionati, non
soggetti alla pressione spirituale e intellettuale della tradizione, delle
verità stabilite una volta per tutte e minatoriamente paralizzanti i processuali
aggiornamenti culturali innescati dalla ricerca storica. È una vita che andiamo
esternando la convinzione della necessità di una lettura in controluce, di una
analisi meglio articolata, di un esame più distaccato, meno passionale,
soprattutto meno oppresso dalla paura dell'invischiamento nel famoso
«revisionismo», di quella che fu l'esperienza della RSI e ci siamo decisi,
ancora una volta, a mettere nero su bianco dopo la catastrofe patita dalla
Sinistra -anzi, saremmo tentati di dire, dalla democrazia nel suo complesso- lo
scorso anno. Da una Sinistra, soggiungiamo, tutt'altro che esente da gravi
responsabilità e colpe per i cinque milioni e mezzo di voti capitalizzati da
Alleanza Nazionale, presentatasi al giudizio delle urne nella versione più
crudamente maccartista, conservatrice, reazionaria, antipopolare, trasformista,
che sia dato immaginare. Ciò per limitarci all'area postfascista verso la quale
si è sparato nel mucchio, senza discernimento, senza preoccuparsi di produrre
denuncie e discorsi atti a cogliere le contraddizioni dell'avversario onde
approfondirle e volgerle a favore dell'avanguardia democratica.
Si dirà: che cosa c'entra mai Salò con le elezioni perse dalla Sinistra
nell'anno di grazia 1994. C'entra, eccome! Nel senso che si è ricavato da un
apporto di discendenza meccanicisticamente valutato e settariamente disprezzato
nella sua globalità un comportamento inadeguato, discriminatorio in nome di un
antifascismo non solo targato 1945 ma umiliato nel ruolo di Sant'Uffizio della
Resistenza, di autodafé del Controventennio. Con tutte le ovvie, inevitabili
conseguenze in chiave di incomunicabilità, di reciproca sconoscenza, di assenza
di dialogo dei partiti popolari -attenzione: popolari, non semplicemente
numerosi- con una realtà di base ampiamente e fortemente segnata da potenzialità
sociali compresse e disertate dai gruppi dirigenti.
* * *
Esaurita l'antifona, torniamo al nocciolo della «questione». C'erano
razionalità, ragione, ragionevolezza, ragionamento nell'opzione pro RSI di
coloro che Umberto Calosso dai microfoni di Radio Londra per primo chiamò
«repubblichini»? C'erano in essi dignità di movente, moralità guerriera, pulizia
politica? Più precisamente: c'era, in sufficiente misura, logica -quanto meno
una particolare logica di parte- nella scelta di volontariamente seguire
Mussolini nella sua ultima avventura repubblicana o di non sottrarsi agli ukase
di Graziani?
Riteniamo che, in proposito, sia opportuno fare riferimento a fonti
inequivocabilmente antifasciste onde appurare il grado di consistenza e il
livello di credibilità, lo spessore insomma, delle motivazioni «interventiste».
Cominciamo con Dino Grandi, il capo dell'opposizione interna al Regime Littorio,
l'uomo che il 25 luglio '43 mise in minoranza il Duce nel Gran Consiglio del
Fascismo, in tal modo offrendo al Re il «mezzo costituzionale» per sostituirlo
con Badoglio. Orbene, colui che, stando a quanto ce ne dice il De Felice in un
saggio dedicatogli, Vittorio Emanuele III reputava essere diventato il «simbolo
dell'antifascismo» (sic!) così si esprime sull'avvio del fenomeno Salò: «Ma se
questi (Mussolini) potè, dopo 45 giorni, risorgere, non fu soltanto perché venne
sospinto e portato dalle baionette tedesche, ma altresì perché potè fare leva
sulla rivolta morale, determinata dall'azione compiuta da Badoglio e dai suoi, e
sull'angosciosa delusione che afferrò il popolo italiano dopo l'8 settembre. Il
25 luglio il popolo italiano ed il fascismo medesimo avevano abbandonato e
condannato Mussolini. Dopo l'8 settembre questi trovò ad un tratto, attorno a
sé, non soltanto i pochi fanatici superstiti della dittatura fascista, bensì
anche molti offesi dallo scempio fatto sul corpo inerme della nazione».
Dunque, la RSI non fu solo un prodotto di «pochi fanatici» -parecchi dei quali,
anzi, si erano affrettati a cambiare casacca per non pagare i troppo salati
conti del loro fanatismo- ma anche di molti italiani, soprattutto giovani,
spinti dalla «rivolta morale» antibadogliana verso il governo repubblicano.
Soprattutto la Sinistra faccia a ciò attenzione, perché il Grandi godette della
stima di due illustri esponenti della politica e della cultura del PCI pur
essendo egli -da uomo di destra quale formalmente e sostanzialmente manifestava,
ad onta dei giovanili entusiasmi per Andrea Costa é Anna Kuliscioff e
dell'abbonamento alla "Critica Sociale" di Turati e Treves- lontano trilioni di
anni luce da ogni e qualsivoglia sinistrismo, sia fascista che antifascista. Le
due personalità del PCI testé accennate sono da individuare negli on.li Mario
Alicata e Antonello Trombadori. O Costoro giudicarono il presidente della Camera
fascista degno di attenzione e di stima anche indipendentemente dal fatto di
avere suggerito al Sovrano, nell'ultima udienza accordatagli prima del colpo di
Stato il 4 giugno '43, la costituzione di un ministero di uomini della
democrazia fra cui i socialisti Bruno Buozzi e Gino Baldesi.
Spostiamoci ora all'estero. La propaganda angloamericana da tre anni si esercita
ossessivamente in questo refrain: «Siamo nemici del fascismo e di Mussolini, non
dell'Italia. Gli italiani si liberino di ambedue, si schierino con le Nazioni
Unite, e automaticamente le vecchie amicizie saranno ripristinate mediante una
pace non punitiva». Però, guarda caso, a due settimane dalla eliminazione del
Regime e del suo capo a Londra, nella Camera dei Lords, il ministro dei Dominion
Lord Cranborne, portavoce del governo, dichiarava: «Lo scopo che ci siamo
prefissi per quanto concerne l'Italia è la capitolazione senza condizioni». E,
al fine di guarnire la durezza con la beffa, aggiunge: «Una capitolazione
onorevole non significa altro che questo. Questa è ormai la nostra politica».
Si dirà: il governo Badoglio aveva esordito con l'assioma «la guerra continua».
Perché mai, allora, gli Alleati avrebbero dovuto abbassare la guardia,
rinunciando all'unconditional surrender proclamato all'inizio del '43 a
Casablanca? Perché, diciamo noi insieme a tanti altri, quell'assioma non era
affatto... assiomatico, come avevano capito tutti e come fingeva di non aver
capito il Cranborne, il quale, interrogato circa la disponibilità o meno dei
governi della coalizione a concedere più clementi condizioni ad un governo
«popolare» (cioè democratico, immaginiamo) in Italia, così si esprimeva: «No. La
ragione per cui noi domandiamo la resa incondizionata è perché intendiamo
proseguire la guerra contro la Germania, fino in fondo e con i mezzi più adatti
a tale scopo. Se noi oggi negoziassimo delle condizioni migliori con un governo
del quale non conosciamo le vere intenzioni ciò non farebbe che servire gli
interessi tedeschi».
Però, non appena il ministro di Sua Maestà Britannica, il governo di cui è
membro e relativi sodali di Oltreatlantico e dell'Est affetteranno di avere
finalmente contezza della vera verità circa le intenzioni regio-badogliane, si
guarderanno bene dal mitigare le condizioni capestro stabilite in quel di
Casablanca. Del resto, ci pensa il futuro presidente USA all'epoca comandante in
capo delle forze militari delle Nazioni Unite nel Mediterraneo, generale
Eisenhower, a coonestare le dichiarazioni del churchilliano Cranborne. Anzi,
continua a ingannare l'Italia, alla quale si rivolge con queste parole: «II
fascista Badoglio (sic!) vi tradisce. Egli prosegue la guerra di Mussolini.
Imponete la vostra volontà di pace. Noi non vogliamo la guerra contro il popolo
italiano. A voi la scelta».
* * *
Ci è capitato sovente di sentirci accusare -nel soffermarci su questi argomenti,
discettandovi come qui veniamo facendo- di essere eccessivamente proclivi ad
adottare valutazioni che furono della propaganda erresseista. Evidentemente
quella propaganda doveva esprimersi con eccezionale efficacia se «un alto
personaggio americano di passaggio a Lisbona» non potè fare a meno di dire a
Dino Grandi, che ivi si trovava in più o meno volontario esilio, quanto segue:
«Non vi è errore che potesse commettersi nei riguardi dell'Italia, che noi non
abbiamo commesso». Costui li chiama errori, forse in buona fede.
Ma che non di errori si trattò, bensì di un preordinato piano di vendetta, di
punizione e, soprattutto, di ridimensionamento drastico del nostro Paese e del
suo ruolo mediterraneo, africano, planetario è dimostrato, tra l'altro, dal
fatto che quanto detto dal notabile statunitense al Conte di Mordano in terra
lusitana risale al gennaio '44, ragion per cui è giocoforza ritenere che per
correggere, cassare, far dimenticare gli «errori» e connessi orrori c'era, ed
avanzava anzi, tutto il tempo necessario e le relative occasioni. Se non se ne
fece nulla fu perché le vere o presunte erranze facevano comodo ai vincitori. I
quali, peraltro, si comportavano con grande cinismo e ipocrisia, come comprovato
da questo brano di Churchill che estrapoliamo dal contesto di una allocuzione ai
Comuni in data 24 maggio '44: «La sorte dell'Italia è senza dubbio terribile e
personalmente (sic!) io non posso nutrire un sentimento di animosità verso il
popolo italiano. Può darsi che dopo la caduta di Mussolini la nostra azione
avrebbe dovuto essere più rapida o più audace. Io non pretendo che degli errori
non siano stati commessi da parte nostra e dall'azione congiunta dei nostri
alleati».
Orbene, non risulta che dopo cotale discorsetto Sir Winston abbia fatto alcunché
per appalesare con fatti e non con chiacchiere di essere amico del nostro
popolo. Tutt'altro! Nel monarcato meridionale e via via che gli eserciti alleati
risalivano la Penisola l'occupazione inglese si evidenziava ben più pesante e
invadente di quella della Repubblica stellata. No. Il premier inglese non
soltanto peccò, per così dire, di omissione di soccorso, ma addirittura volle
teorizzare la vendetta. Di più: vestì i panni odiosi del provocatore. Il 28
agosto del '44, all'atto di congedarsi dalle truppe, a conclusione della visita
in Italia, ritenne di dover indirizzare un messaggio «d'addio» (era proprio il
caso di definirlo in tal modo nel quale campeggiava una proposizione come
questa: «Quando una nazione si è lasciata trascinare in un regime tirannico non
può essere assolta dalle colpe che quel regime ha commesso. Noi non
dimentichiamo».
Al che il Mordano, cioè il gerarca che Farinacci chiamava «l'uomo degli
Inglesi», l'amico intimo di Churchill e di tante altre alte ed altissime
personalità del Regno Unito -inclusi i Sovrani- si vede costretto a vergare
nelle sue memorie, scritte nel '44 in Portogallo ma licenziate alle stampe
nell'83 per i tipi della "Editrice Il Mulino" di Bologna, questa esternazione:
«Punizione quindi. Redenzione poi. Lontane, dimenticate le parole dette prima
del 25 luglio, ed anche le parole dette poi, a più riprese e in diverse
occasioni, da Churchill, da Roosevelt, da Eisenhower, da altri. Propaganda di
guerra. Fruttuosa e ben calcolata propaganda di guerra». E scusate tanto se è
poco.
Ma se un anglofilo, anzi un anglomane, come Dino Grandi, ambasciatore per vari
anni a Londra e capo della fronda antitedesca interna al fascismo, sentiva il
bisogno di mettere nero su bianco per giudizi tanto irati sui suoi sodali
albionici, cosa mai dovevano pensare dire e fare migliaia e migliaia di italiani
delle generazioni più o meno recenti, fresche di indottrinamento fascista nelle
aule di studio, nella GIL, nei GUF, nelle Scuole di Mistica Fascista?
Esattamente quello che pensarono dissero e fecero, decidendo, alla fine, o di
non sabotare il richiamo alle armi delle classi interessate deciso dal governo
della RSI su proposta del Maresciallo Rodolfo Graziani o, addirittura più
giovani di entrare volontariamente a far parte della Decima Mas, della Guardia
Nazionale Repubblicana, di quel tanto o poco della marina e della aviazione che
era riuscito a sottrarsi alla consegna a Malta, proprio a Malta, con evidenti
fini di umiliazione.
Quando l'antifascismo in genere e quello di sinistra in particolare si
soffermano sui tempi ed eventi qui evocati cerchino di svincolarsi, prima di
formulare malevoli giudizi e definizioni, dall'idea che fino al quarto millennio
dopo Cristo la radice di tutto quanto accade sul pianeta debba ricercarsi
esclusivamente nella dialettica fascismo-antifascismo e che la sola
pregiudiziale ideologica sia atta a spiegare pulsioni e comportamenti del
prossimo nostro. Ciò detto, resta da constatare che i presunti «errori»
angloamericani -ivi compresa la sistematica criminale distruzione rateale
dell'Italia effettuata dalle fortezze volanti- ebbero a rivelarsi ben più
efficaci dei bandi governativi nel rimpolpare le inizialmente esili schiere
castrensi della Repubblica Sociale Italiana.
Un preoccupatissimo Dino Grandi, in vena di autocritica, afferma: «Le democrazie
anglosassoni avrebbero potuto avere l'Italia per sé e con sé, per sempre (e
purtroppo per sempre l'hanno avuta, caro Conte! N.d.R.). Hanno preferito
umiliarla. Non l'hanno voluta. Essi non videro nel 25 luglio che un beneficio
inatteso, giunto esclusivamente a facilitare i piani militari Alleati, già
fissati a Casablanca nel gennaio 1943 e a Washington nel maggio successivo. Win
fall, pioggia benefica e insperata, fu definita da Churchill ai Comuni, la resa
dell'Italia». Accaloratissimo nel suo appassionato e serrato argomentare, il
Mordano non si accorge di dire esattamente le stesse cose che negli stessi
giorni, nelle stesse ore, dice la propaganda della RSI e sentono i giovani che
invece di recarsi in montagna per raggiungere i nuclei partigiani si presentano
nelle caserme di Graziani e di Borghese, in tal modo depurando Salò dei
caratteri di una aggregazione collaborazionista, come, del resto, testardamente
desiderato dal Duce.
Più che mai in vena di sincerità, il cugino di Vittorio Emanuele III -in quanto
collare della Santissima Annunziata- scopre ulteriori altarini: «Parve persino
che l'inattesa e insperata caduta di Mussolini fosse accolta da taluni con senso
di dispetto, soltanto perché essa veniva ad un tratto ad introdurre problemi
politici nuovi suscettibili di mutare questi piani, i quali si riassumevano in
una formula brutale e semplice, la debellatio dell'Italia. Un'Italia divenuta ad
un tratto amica ed alleata sembrò apparire a taluno quasi più come un ostacolo
ed un ingombro che un vantaggio. Dove risulta riduttiva la prudenza che spinge a
usare un linguaggio felpato nel fare riferimento alle male intenzioni affioranti
nel campo degli Alleati al momento della elaborazione di comportamenti politici
e militari nei confronti della nuova situazione italiana creata dai "19", dalla
Reggia, dai militari».
Continua amareggiatissimo l'ex alto esponente del Littorio: «Ancora oggi, dopo
più di un anno, i termini dell'armistizio italiano dell'8 settembre sono
custoditi nel segreto e nel silenzio: sembra che gli stessi Alleati se ne
vergognino o quanto meno che essi valutino appieno il danno che, ancora oggi, la
pubblicazione di tale documento potrebbe determinare alla causa generale della
guerra che si approssima verso il suo epilogo di vittoria».
In verità, ciò che gli angloamericani intendevano fare dell'Italia era «scritto»
nei loro comportamenti, se ne vergognassero o meno. Solo l'astrattezza del
nostro memorialista poteva pervenire alla scialba conclusione -ma, da un cavallo
di razza della «estera» come lui era lecita attendersi una interpretazione meno
campata in aria delle mosse e delle intenzioni dei suoi amici di sempre che
tanto lo deludevano- che le «Nazioni Unite» si fossero decise a pagare anch'esse
prezzi enormi in termini di ricchezze materiali, di sangue, di distruzioni nella
guerra contro l'Asse al solo fine di consentire agli italiani prima e ai
tedeschi poi, di eleggere un parlamento con liste di partito. In ciò questo
furbo di tre cotte che era riuscito a mettere nel sacco un campione della
tattica e della strategia chiamato Benito Mussolini, dava prova di ingenuità che
i propagandisti radiofonici e a mezzo stampa della RSI mostravano di non patire.
E con essi coloro che decidevano di seguire Mussolini nel progetto di
prosecuzione dello sforzo bellico. Per quanto aleatoria potesse apparire loro la
possibilità di farlo sboccare in una vittoria; per quante riserve potessero
nutrire sul rapporto sinergico con la Germania. Sicuramente non una
villeggiatura; men che meno un idillio. Ma almeno -così pensavano, così si
esprimevano- si sarebbe caduti in piedi, come usa dire.
Ad un certo punto la critica grandiana, ormai infiammata e tuttavia condotta sul
filo di un discorso logico, trabocca per dar luogo un grido di dolore: «...
continuano a levarsi per l'Italia voci di minaccia oscura, che non possono non
trovare una eco sgomenta nello spirito degli italiani. Trieste, Fiume, Istria,
Alto Adige, Val d'Aosta, Colle di Tenda; si vorrebbero forse rimettere in
discussione i confini del Risorgimento e della prima guerra mondiale? [...] Si
parla persino di un possibile sacrificio dell'Eritrea, della Somalia, della
Libia ...».
«Si vorrebbero», «si parla persino» etc. etc. Ma in che mondo vive quest'uomo,
che è stato per tre anni ministro degli esteri e per sette ambasciatore a Londra
dopo un tirocinio come sottosegretario a Palazzo Chigi accanto a Mussolini?
Improvvisamente, però, evade dal nirvana dell'ideologismo
churchilliano-rooseveltiano, in cui si è cullato per troppo tempo, e si
concede... a Lenin. Vediamo: «Le ideologie, distruggendosi a vicenda, si
livellano, la miseria e il dolore tutti accomuna in un destino comune. Dalla
comune povertà nasce una fatale uguaglianza e si ristabiliscono delle nuove
posizioni di partenza uguali per tutti gli uomini. La seconda guerra mondiale
non è stata mai una guerra di idee bensì soltanto una guerra di nazioni e di
continenti, una lotta mortale di imperialismi che cercano di difendersi, di
distruggersi a vicenda per affermare la supremazia dell'uno sull'altro. Si è
proclamata dalle opposte parti, come un conflitto di ideologie, una guerra di
religione. Ciascuno ha scritto sui propri vessilli etc. etc. etc. ... Ebbene,
forse in poche guerre come in questa attuale, vi è stata giammai, tra
l'assordante clamore di tante vane parole incitatrici, una così fredda assenza
di idee e di miti, di motivi spirituali e morali. Questo spiega la sua
implacabile, fredda crudeltà, la sua arida determinazione, la sua demoniaca
orgia di distruzione e di morte». Non tutto, in questo brano, è oro colato.
Tuttavia si avverte la sensazione, scorrendolo, che nell'impugnare la penna
stavolta il Mordano abbia avuto più mordente, più la testa sul collo e i piedi
per terra.
Passata la festa, gabbato lo santo, secondo avverte la saggezza popolare. Il 6
novembre 1945 vengono pubblicati i termini dell'armistizio. Un funzionario del
Dipartimento di Stato USA ne correda il testo con questa dichiarazione: «La
pubblicazione è stata ritardata per evitare che essa potesse servire alla
propaganda neofascista e potesse scoraggiare i partigiani italiani che
combattevano nel nord d'Italia ...». Più chiara dimostrazione dei truffaldini
espedienti inventati dagli Alleati per raggirare il popolo italiano, deluderlo,
odiarlo sotto le mentite spoglie dell'amicizia e della «liberazione» non
potrebbe essere data.
Del resto, di che stupirsi se il ministro degli esteri britannico, Eden, fra la
fine del '42 e l'inizio del '43 in una lettera a un uomo di governo americano,
Cordell Hull, incitava a «non contare sulla possibilità di pace separata e
puntare tutto sui bombardamenti aerei indiscriminati, sull'azione militare in
genere, su una linea di fermezza nella nostra propaganda in modo da determinare
disordini tali da provocare o un'occupazione tedesca o una iniziativa da parte
di Vittorio Emanuele III»? Qui il cinismo raggiunge lo zenith: addirittura si
cerca l'occupazione tedesca della Penisola per meglio giustificare la
polverizzazione di metropoli e paesi, con annesso e connesso stragismo
indiscriminato di massa. Insomma, sulle intenzioni degli Alleati si ingannava
solo chi voleva farsi ingannare.
Occorre, dunque, riconoscere -indipendentemente da qualsivoglia giudizio si
intende dare sulla loro scelta- che gli aderenti alla RSI furono quelli che più
decisamente intesero respingere la grande frode. A proposito di essa,
interessante appare a noi quanto in data 9 novembre '45 asseverava la "Tribune
de Genève" per la penna del suo corrispondente da Chiasso: «La dichiarazione
ufficiosa fatta dal Dipartimento di Stato a Washington costituisce l'implicito
riconoscimento che l'armistizio era così duro da scoraggiare il popolo italiano
a partecipare alla lotta contro la Germania e altresì la confessione che questa
partecipazione italiana era giudicata dagli Alleati utile e necessaria». Diciamo
la verità: fa ribrezzo questa avarizia spirituale e politica mescolata alla
menzogna, alla violenza morale, alla durezza del cuore e dell'animo. E dire che
ancora oggi si pretende che noi si cantino epinìci in lode e in onore dei
vincitori di allora!
L'atteggiamento britannico-statunitense nei confronti dell'Italia fu talmente
odioso da indurre gli ultras del filo-alleatismo, ossia il Partito d'Azione e
dintorni, a intervenire ufficialmente per sottoporre a non blanda critica il
comportamento delle Nazioni Unite. Il 10 novembre '45 "L'Italia Libera",
quotidiano del PdA, così estrinsecava: «... il Fascismo non è un fatto
esclusivamente italiano e non si potrebbe spiegare storicamente senza tenere
conto dell'attitudine degli Alleati verso l'Italia alla fine della prima guerra
mondiale; una parte dell'Europa fu allora tenuta in uno stato di sottomissione,
di minorità, che provocò una reazione. Ripetere di nuovo questo errore sarebbe
condannare il nostro continente e farebbe dubitare dell'intelligenza degli
uomini così come del progresso della civiltà. Noi dobbiamo purtroppo constatare
che la popolarità di cui godevano gli Alleati mentre il fascismo li combatteva,
è oggi assai diminuita. Il popolo italiano era allora anima e cuore vicino ad
essi. Ci si fecero mille promesse, mille blandizie per indurci a ribellarci
contro la dittatura di Mussolini e allorché venne per l'Italia la sua ora, la
Nazione ha dovuto pagare un prezzo enorme in migliaia di morti, in torture, in
distruzioni ed ecco che ancora oggi ci si minaccia che tutte le promesse non
saranno mantenute».
Ove una affermazione lascia perplessi: quella che rappresenta l'Italia come
perdutamente innamorata degli angloamericani durante l'intero arco bellico. Non
fu così. Se, ciò avvenne, è da mettere in rapporto al catastrofico andamento
delle operazioni militari.
Comunque, è notevole che gli azionisti abbiano allora preso il coraggio a due
mani, come suoi dirsi, e si siano decisi a criticare le potenze occidentali per
le segnalate magagne del primo dopoguerra. Con il «rischio» di appaiarsi ai
fascisti in questa analisi in negativo dei fatti e dello spirito di Versailles.
A quei fascisti che, paradossalmente -e per una di quelle «astuzie della storia»
di cui parlava Antonio Gramsci-, con la «socializzazione» si erano accinti ad
attuare il programma sociale della rosselliana "Giustizia e Libertà". Magari
andando anche oltre sul terreno della audacia rivoluzionaria. In fondo, non
aveva torto Augusto Del Noce a definire «fratelli nemici» gli azionisti e i
fascisti.
Enrico Landolfi
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