«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 3 - 15 Giugno 1995

 

l'ultima

Storie di Vàgeri

Barba e capelli
 

I gobbi, nostri clienti, eran tutti incaloriti. II gobbo Varese, magro come un paravento, dal naso affilato come un rasoio, con un forcone di gambe che ci sarebbe passato di sotto una gobba con una secchia in capo, a cui ogni tanto si faceva la barba per misericordia, un giorno capitò in bottega implorando:
— Fatemi la barba per amor di Dio!
Per il servizio che di notte tempo andette a fare, gli regalarono un paio di scarpe usate Quando il dimani gli dissero che dalle scarpe poteva prendere le abitudini che aveva il donatore, disse svelto svelto:
— Allora le metto in fusione nella creolina.
E vi capitavano i rivenduglioli di calìe degli spogli dei morti, i fondigli dei magazzini. I legittimi discendenti dei Cohen. I «Chanzan», ministri della religione, andavano, più su, alla barbitonseria di lusso, a noi toccava il giudaismo trito, quello che rispetta la legge anche dormendo sotto il rasoio.
Quelli che hanno quel sito di pannina ribollita, del sudaticcio rappreso, del pecorino, del cervino, del macubino.
Quelli che vendono le vestimenta e sembrano coprirsi di pelle abbiacchita, che vendono le calze e portano quelle che gli fece Iddio nella sua indissolubile unità, ricalcate dall'uso e consumo, che hanno le mani di cuoio conciato di giallumi insidriti e sul viso una maschera di pelli di storzola su cui è calciata la barba regnata, sulla voltata del cranio sotto cui ribolle la insaziabile e rapace voluttà del guadagno, c'è la parrucca di cernecchi annodati dall'lnchetto, tessuta dal perpetuo lavorio delle lendini.
Quelle chiome in cui era mestiere mettere la macchina senz'alzo, l'erpice fitto fitto di denti d'acciaio, onde rimuovere la forfora squalosa, la loia veneranda e annosa. Fughe di pidocchi, dalla radice del natio capello, dopo un ultimo morso disperato al cospetto di quella spaventosa tremoggia cigolante riunta dal capello reciso.
Le lendini davano più da fare che i pidocchi d'origine straniera s'eran talmente grumite nella loro ferocia alla sottostante pelle che soltanto la soda poteva castigarle. Dopo il taglio raso le ciuffate si condannavano alle fiamme e non mai s'udì crepitio all'abbrustolir dei pinelli come ne usciva da quei roghi.
Poi il taglio delle barbe, intonse da settimane e da mesi, su cui si eran annodati i baruffi dei bordatini, la lunaggine dei ciarpami, le volandole della cotonina, che pannuciolano col sudaticcio di una belletta condensata sui bulbi.
I rivenduglioli si sbarbano molto raramente, nel lutto si fanno crescere la barba, e sembrano aver sempre un morto in casa. Ma quando lo fanno, lo fanno con tutti i sacramenti. I trafficatori della paccottiglia merciaiola acciabattata nei mercati calze al telaretto, fazzoletti dai quali filtra la freddura, i baruffi del refe, i pettini radi e fitti, le stringhe, tutto intignato e mencio. L'atavico istinto di quando passavano a nuoto l'Eufrate, si ridestava nelle barbitonserie, desideravano essere lavati e digrassati con acque acetate e spigate. Vi si sciaguattavano come cani di padule, vi soffiavano come delfini, vi si spollmavano come folaghe. Per quelle teste si adoperava, dopo la macchina e le cesoie, il rullo -ordigno passato di moda- un cilindro di setole con due manichi, il quale si rullava a tutta forza sul capo, a pelle e cotenna, senza pietà e senza misericordia. II viso, dopo la depilazione, si frizzava con l'aceto schietto drogato di mordenti.
Poi volevano essere unti e riunti con le cerette, volevano la depilazione dei tubi del naso, delle trombe degli orecchi, le quali, intasate, non potevano dare più l'allarme alle cervella, polpa di noce costretta negli involucri di pellanche, di ciccia e d'ossi. Gli si riavviava le ciglia sotto cui balenavano gli occhi della cupidigia insaziabile.
 

Lorenzo Viani
"Barba e Capelli", Vallecchi Editore, Firenze, 1939

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