Senza di noi, i tedeschi avrebbero avuto, l'8 settembre,
buon gioco per trattare l'Italia come terra di preda
L'ufficialissima posizione dell'Italia ufficiale sul Mussolini della Repubblica
Sociale Italiana è arcinota: altro non fu che uno straccio d'uomo fattosi
affittare dai tedeschi occupanti nel ruolo di burattino vestito con i panni di
un capo di Stato alleato ma, in realtà, adoperato dal burattinaio nazista in una
squallida funzione di modesto gauleiter. La versione, insomma, dell'antifascismo
puro e duro. Enorme, oceanico il numero delle citazioni possibili a supporto di
tale deprimente interpretazione del Mussolini ultimo. Mettiamo le mani nel
mucchio ed estraiamone un paio, così, a casaccio. Ecco, c'è Nicola Caracciolo
(autore insieme a Valerio Marino all'avvio degli Anni Novanta, di un
documentario di successo presentato al Festival del Cinema di Venezia con il
titolo "I 600 giorni di Salò"), il quale così si esprime in una intervista
rilasciata a "l'Unità" e raccolta da Gabriella Gallozzi: «... a cinquantanni di
distanza cosa avremo potuto aggiungere di più al giudizio storico ormai
acquisito? È noto che la Repubblica sociale è stato un tragico fallimento: con
Salò Mussolini ha legato il fascismo al carro di Hitler.» E, a sua volta, la
Gallozzi: «... un altro filmato, di quelli inediti, mostra invece tutte le
difficoltà di un esercito ormai dilaniato dalla diserzioni, costretto ad
arruolare ragazzini giovanissimi (sic!). E poi le ultime immagini di Mussolini,
davanti alle sue truppe nel '44, ormai non più capo del fantomatico impero, ma
un uomo stanco sottoposto completamente ai voleri di Hitler e ossessionato
dall'idea di essere tradito dai suoi generali».
Un Mussolini-spazzatura, dunque. Ma è proprio vero che nel campo
dell'antifascismo militante e, anzi, guerriero, questo sprezzante e liquidatorio
giudizio non soffra eccezione alcuna? No, non è vero. Per esempio, una illustre
personalità della cultura resistenziale, giornalista famoso, storico autorevole,
intellettuale di grosso spessore, non è propriamente del parere dei predetti
signori -sicuramente rappresentativi dell'opinione prevalente-, fino al punto di
discostarsene nettamente. Senza, va da sé, minimamente approcciarsi alla schiera
dei mussoliniani. Trattasi di Giorgio Bocca, tra i fondatori, insieme a Duccio
Galimberti e a Bianco, delle formazioni «Giustizia e Libertà», comandante della
«X Divisione GL», vice commissario politico nel cuneese e, dalla fine della
guerra ai nostri giorni, firma di prestigio e di lusso sui quotidiani quali "La
Gazzetta del Popolo", "Il Giorno", "la Repubblica" nonché di settimanali come
"L'Europeo", "L'Espresso" e tanti altri periodici. Ecco cosa scrive Bocca a
proposito del rapporto di Benito Mussolini con i tedeschi in uno dei suoi tanti
volumi, "Storia d'Italia nella guerra fascista", apparso nelle librerie un
quarto di secolo fa e coronato da grande successo di critica e di pubblico: «La
trappola è pronta a scattare e il dittatore non fa nulla per sfuggirle. Deposta
l'arroganza, quasi rassegnato alla sorte, rinuncia ai ricorsi "barbarici" che
Hitler gli ha suggerito, non si dissocia dal regime, non intende governare
dietro la protezione della baionette tedesche. È un uomo di molti errori e di
molti misfatti, ma non è un quisling. Se volesse potrebbe chiedere l'intervento
tedesco per fare piazza pulita dei suoi avversari, ma sarebbe la fine del suo
potere legale. Non dimentichiamo che a Salò andrà solo dopo lunghe esitazioni e
sotto la minaccia tedesca; concediamogli di non aver animo da servo». Il Lettore
di certo avrà compreso che il pezzo riprodotto fa riferimento alla situazione di
«ammutinamento» creatasi nell'ambito delle alte gerarchie littorie alla vigilia
della drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio '43.
Rapida riflessione. Il libro di Bocca è di oltre un quarto di secolo successivo
a quel riluttare mussoliniano al protettorato germanico. Se dopo l'otto
settembre '43 il Duce si fosse ad esso acchetato, il brillante scrittore
piemontese avrebbe avuto a disposizione oltre un quarto del Novecento per
inseverire il giudizio coraggiosamente equo -per quel che attiene al modo di
atteggiarsi dell'uomo di Predappio verso l'uomo di Braunau- verso colui che egli
come partigiano aveva certamente combattuto dopo averlo altrettanto onestamente
servito in qualità di segretario del GUF (Gruppi Universitari Fascisti) di Cuneo
mediante articoli contro potenze e potentati «demoplutogiudaicomassoni» su
riviste «di area», come oggi si direbbe, o, magari, prendendo a sganassoni su di
un treno un industrialotto locale nel '43 per essersi costui permesso di
dubitare a voce alta della immancabile vittoria delle forze armate dell'Asse e,
in esse, di quelle italiane con relativa, successiva denuncia alla polizia per
disfattismo. Peccatucci di gioventù, indubbiamente, svelati dal quotidiano
"L'Indipendente" quando era diretto, in chiave berlusconiana, non ricordiamo
bene se da Vittorio Feltri o da Maria Pia; «penne buone» sempre in fregola di
fromboleggiamenti verso i polemisti più agguerriti del fronte progressista.
Certo, Bocca da un colpo al cerchio e uno alla botte; né potrebbe fare
diversamente, non essendo lecito, stando ai comandi dell'etica resistenziale,
vergare anche una sola pagina dalla quale possa emergere il sospetto che questo
Mussolini, poi, non fosse un personaggio completamente negativo e,
conseguentemente, non demonizzabile a volontà dovunque, comunque e con chiunque.
Riflessione anche più rapida, rapidissima, su quanto affermato da Nicola
Caracciolo a proposito del connotato di fondo di Salò, definita «tragico
fallimento». Il Caracciolo, che è uomo colto e preparato, non può non sapere che
in Italia, per un verso o per l'altro, tutte le Repubbliche delle età moderne e
contemporanee -non si può andare troppo lontano con Roma e le «marinare» del
Medioevo- sono tutte state un tragico fallimento: a tacer la Partenopea, la
Cispadana, la Cisalpina, la Romana e, buon'ultima, la prima Repubblica «nata
dalla resistenza». E, visto che ci siamo, sempre a Caracciolo facciamo presente
che -in tema di indipendenza di repubbliche dallo straniero- se Sparta piange
Atene non ride, come usa dire. Le repubbliche giacobine altro non furono che
protettorati francesi, dove i proconsoli del Direttorio o del Bonaparte facevano
il bello e il cattivo tempo, depredavano, saccheggiavano, imponevano tributi
esosi, requisivano, reclamavano contingenti militari da impiegare in guerra dove
l'interesse italiano allegramente latitava, si riservavano sempre l'ultima
parola per quel che concerneva le cariche pubbliche ed i pubblici affari,
trattavano gli italiani dall'alto in basso. Unica eccezione: la Repubblica
Romana, ma lì, ecco il punto, a tenere la bacchetta in mano c'era
nientepopodimeno che un Giuseppe Mazzini.
Ora, con tutti questi poco illustri precedenti, come ha potuto Caracciolo
limitarsi ad affermare che «con Salò Mussolini ha legato il fascismo al carro di
Hitler»? Comprendiamo bene che egli non può non bruciare il suo bravo grano di
incenso sull'altare delle «verità» ufficiali, di Stato, di epoca, duramente
presidiate da quelle vestali della cultura conformista che sono gli
intellettuali organici di tutti i partiti. Ma, insomma, perché essere poi tanto
radicali nel giudizio da mettersi in condizione di farsi smentire da una
personalità come Giorgio Bocca che, oltre ad appartenere al più qualificato e
autorevole brain trust della cultura resistenziale, il partigiano, vivaddio,
l'ha fatto e quando parla sa quel che dice. Sia detto, ciò, senza nulla togliere
alla nostra amicizia e considerazione per un intellettuale come Nicola -peraltro
nostro amico molto caro- il quale ha fatto tutte le sue brave prove con
risultati notevolissimi. Fra i quali, appunto, "I seicento giorni di Salò".
* * *
Nel Diario di Giovanni Dolfin, il giovane segretario particolare di Mussolini
prima di essere sostituito da Luigi Gatti, vengono riferiti alcuni sfoghi del
Duce taluni dei quali sembrerebbero dare ragione ai Caracciolo, ai Gallozzi e a
tutto il vasto stuolo degli sputtanatori della RSI e del suo Capo. Questo, per
esempio: «Ormai abbiamo perduto molto del nostro prestigio e stiamo perdendo
quel poco che ancora ci rimane, esercitando per delega altrui un potere che si
rivela sempre più fittizio. Ciò ci toglie ogni residua simpatia da parte del
popolo italiano che non potrà, sotto il peso della sventura, mai capire il mio
tormento per lui. È mio dovere, comunque, non sottrarmi alla responsabilità che
fa parte del mio destino» ...
Un gauleìter rassegnato e psicologicamente distrutto dalla consapevolezza della
subordinazione e della relativa sua inutilità, dunque? Niente affatto. Pur senza
abbandonare la chiave elegiaca del suo dire, eccolo riprendersi e, con orgoglio,
rivendicare necessità, positività, insostituibilità del suo ruolo. Dichiara:
«Eppure, senza di noi, senza questa cosiddetta larva di governo, che lotta come
può, ma lotta, i tedeschi avrebbero avuto, l'8 settembre, buon gioco per
trattare l'Italia come terra di preda. Non mancavano loro né gli intendimenti,
né le ragioni né i mezzi per impiegare nei nostri confronti la stessa durezza
che hanno posto in essere verso i popoli e le terre che hanno conquistato con le
armi».
A questo punto scatta una nostra riserva relativa alle «ragioni» dei germanici,
i quali sicuramente ne avevano da far valere nei confronti verso Badoglio e
sodali, ma altrettanto vero è che essi si erano spesso e soprattutto volentieri
comportati nei confronti dell'Italia, fascista o meno che fosse, con grande
scorrettezza. E qui potremmo riempire un intero volume a ciò dedicato, ma
basterà citare due soli casi: l'accordo Ribbentrop-Molotov prima e, quindi,
l'aggressione all'URSS. Ambedue le volte Regno d'Italia e Regime Fascista,
annodati nella Diarchia, furono messi di fronte al fatto compiuto. Ma seguiamo
il Dolfin in una sua chiosa di fronte al peculiare agire mussoliniano in questo
torno di tempo: «In questi tre mesi che gli sono vicino, non l'ho mai sentito
una sola volta esprimere parole di odio, che non siano state il frutto di un
impulso immediato, subito corretto, attenuato, verso i suoi avversari. Quando
può continua a salvarli, accentuando nei tedeschi diffidenza e ostilità.
(Dunque, non è un pupazzo, un rimorchiato, uno strumento nelle mani dei
nazisti). Silvestri ne sa qualche cosa. Giunge da noi settimanalmente, con
lunghi elenchi di perseguitati politici arrestati dalle diverse ed incontrollate
polizie. Talvolta si tratta di nomi ritenuti importanti quali capi responsabili
del movimento clandestino. Anche per Roveda, il duce si sta opponendo ad un
processo che i tedeschi e il partito reputano necessario. (Si è mai visto un
servo contestare a un padrone il diritto di processare chi gli pare e piace?).
Egli disprezza soltanto coloro che, approfittando delle sventure, fascisti sino
a ieri, hanno gettato tessera e fede per un atto di vigliaccheria fisica,
infierendo contro altri fascisti. Ed ha ragione».
Del resto, che Mussolini non abbia alcuna intenzione di essere un quisling, sia
pure riveduto e corretto, emerge anche da una risposta a Leandro Arpinati, uno
dei massimi gerarchi degli Anni Venti, «ras» di Bologna caduto in disgrazia per
un diverbio con Starace che, comprensibilmente, aveva negato la tessera del PNF
a Mario Missiroli, «penna buona» dell'antifascismo, duellante mediante sciabola
oltre che inchiostro con Mussolini il quale su "Il Popolo d'Italia" lo aveva
definito «perfido gesuita e solennissimo vigliacco» per avere egli tacciato il
fascismo di «schiavismo agrario». Dunque, ad Arpinati che gli dice: «Ma vedo che
tu sei prigioniero dei tedeschi» risponde: «Non è vero. Ho fatto sapere a tutti
che io faccio il capo del governo e devo avere la più ampia libertà d'azione. Se
no me ne vado. Ma ho bisogno di persone sicure. Tu sei l'unico uomo su cui posso
veramente contare. Tu devi essere per ora il ministro dell'Interno. Poi, nella
nuova repubblica, io sarò il presidente e tu sarai il capo del governo. Ma tu
devi stare con me».
Dove ci si imbatte ancora nel solito Mussolini che di uomini si intende poco o
nulla. Afferma di ritenere l'Arpinati il solo uomo degno di affidamento da parte
sua. E invece è distante trilioni di anni luce dalla verità. Infatti il suo
felsineo interlocutore rifiuta le offerte tremende e generosissime del suo
ex-capo e, in verità molto onestamente, egli dice che non se la sente di
patrocinare una causa nella quale non può credere e, men che meno, si
identifica; tanto più che i princìpi stessi della Repubblica Sociale Italiana
sono ben lungi dall'incontrare fervori e favori suoi. Per dirla tutta: Leandro
Arpinati, liberista puro, come oggi si dice, è avverso alla socializzazione; ed
è strano che il Duce abbia dimenticato che, a parte la questione Missiroli e
l'incompatibilità con Achille Starace, un altro dei motivi del braccio di ferro
con le alte gerarchle littorie che lo ridusse ai margini, ai fuori, del Regime
fu la sua dichiarata avversione al corporativismo. Ma l'ex-pezzo grosso del
fascio petroniano non si limiterà a respingere le compromettenti e tuttavia
allettantissime profferte mussoliniane, ma prenderà contatti con la Resistenza e
darà asilo a prigionieri angloamericani e affini guadagnandosi benemerenze
antifasciste e antitedesche che gli varranno la fucilazione da parte non delle
Brigate Nere ma dei partigiani. Infatti, nei momenti più tumultuosi e caotici
successivi alla capitolazione germanica un gruppo di tangheri che nulla sapevano
delle vicissitudini dell'Arpinati nel Littorio e neppure erano edotti della sua
più recente posizione politica, decisero di andare a prenderlo e di metterlo al
muro senza voler sentire ragioni né accettare spiegazioni.
Di questa orrenda, oltre che paradossale vicenda, va però colto un elemento
preciso: Mussolini si rivolge all'antico seguace per affidargli il dicastero
dell'Interno soprattutto per sfruttarne le doti di personalità e di energia
precipuamente al fine di fare argine all'invadenza dei nazisti e alla odiosità
dei loro metodi. Secondo noi, la nomina di Arpinati gli serviva anche per
bloccare la candidatura «naturale» di Guido Buffarini Guidi, dirigente dal
carattere ellittico e sfuggente; e, oltre a ciò, in fama di propinquità
eccessiva ai tedeschi, alle loro idee, ai loro interessi.
Ma, comunque, Arpinati o non Arpinati, Buffarini o non Buffarini, l'Uomo che dai
fastigi e dai trionfi di Palazzo Venezia era finito in un esilio lacustre
silente e solitario, la sua parte di marginatore degli alleati-occupanti la
fece. Nei limiti consentiti dalle circostanze eccezionalissime, si capisce.
Tanto da giungere addirittura al punto di intervenire su Hitler nel tentativo di
salvare uno dei membri della congiura del venti luglio '44: il diplomatico von
Hassel, ex-ambasciatore a Roma. Ordina all'ambasciatore a Berlino, Filippo
Anfuso, di fare un passo presso il Fuhrer a suo nome. Francamente non
ricordiamo, mentre scriviamo, come andò a finire. Ma si trattava di una causa
disperata e, comunque, non italiana.
I più violenti detrattori di Mussolini -soprattutto alcuni ex-ultras fascisti
passati sull'altra parte della barricata e, quindi, bisognosi di accreditarsi
nella nuova versione facendo sfoggio di incontenibile avversione per il vecchio
idolo non più sostenuto dalla Dea bendata- hanno scritto e detto che sulle rive
del Garda il già Inquilino di Palazzo Venezia altro non era che un fantoccio su
cui i tedeschi non riversavano che ironia e, soprattutto, disprezzo. Orbene, mai
raffigurazione fu più marcata e strumentale. Certo, nel suo "Diario" il Goebbels
scrive che «in fondo questo Mussolini è soltanto un italiano», ma trattasi di
valutazione che, ove a conoscenza dell'interessato, non sarebbe affatto tornata
a lui sgradita. Hitler, invece, sempre ritenne Mussolini un suo pari e lo
rispettò profondamente, cercando, ove possibile, di venirgli incontro nei suoi
desiderata. Fermo restando, ovviamente, il primato degli interessi tedeschi. Per
esempio, pur non credendo nella socializzazione, ordinò ai suoi rappresentanti
in Italia -ma si trovarono i marchingegni idonei ad ottemperare solo in misura
molto limitata alle sue disposizioni- di non contrastare il revival socialista
del vecchio direttore de "La Lotta di classe" e de "l'Avanti!".
Così come -riferisce ciò il Deakyn, autore inglese di sicura caratura
antifascista nella sua "Storia della Repubblica di Salò"- a proposito del
processo di Verona «ripetè le sue istruzioni, che cioè il processo doveva essere
considerato una questione esclusiva di Mussolini nella quale i tedeschi non
dovevano interferire, né in un senso né nell'altro».
In taluni momenti, a taluni tedeschi, al rispetto viene a sommarsi l'entusiasmo
più schietto e, perfino, l'ammirazione più incondizionata. E così in occasione
del famoso discorso al Teatro Lirico del dicembre '44 -nella Milano che lo aveva
accolto festosamente, trionfalmente, da una folla turgida di nostalgia e di
rimpianto; quella stessa folla che quattro mesi dopo avrebbe macabramente,
orgiasticamente danzato non dinanzi all'Albero della Libertà, ma allo scempio di
Piazzale Loreto- Rudolf Rahn, l'ambasciatore tedesco, esprime questo parere
sull'allocuzione del più famoso incantatore di «adunate oceaniche» che mai abbia
calcato le scene della politica sul pianeta: «È decisamente un grand'uomo,
capace di imporsi ai più grandi della terra; il suo discorso è stato un
autentico capolavoro davanti al quale bisogna togliersi il cappello».
Se questo è un commento sprezzante... Ma vediamo come un altro «crucco» descrive
le manifestazioni incontenibili di gioia dei milanesi al passaggio per strade e
piazze cittadine di colui che si considerava -lo aveva detto anche a Vittorio
Emanuele III a Villa Savoia, prima di essere arrestato- «l'uomo più odiato
d'Italia». Quello che scrive, eccezionalmente, un «crucco» simpatico, il dott.
Georg Zachariae medico curante di Mussolini, specialista di malattie di cui
soffre il Duce e in pianta stabile a Salò su ordine personale di Hitler per
seguirne gli sviluppi e adeguatamente curarle. Dice dunque costui: «... I
marciapiedi erano invasi da una quantità di gente in continuo movimento, da una
popolazione entusiasta che si spingeva avanti per vedere il suo duce da vicino,
per cogliere possibilmente un suo sguardo; spesso erano vani i tentativi dei
vigili e delle truppe per tenere sufficientemente libera la strada, poiché la
folla tentava ad ogni istante di rompere i cordoni in modo che le macchine
potevano avanzare lentamente e con la massima prudenza. Io ho visto anche a
Berlino delle scene indescrivibili di entusiasmo, ma l'entusiasmo al quale ho
assistito in quei giorni a Milano è ben raramente eguagliabile».
E scusate tanto se è poco! «La folla è femmina», soleva dire quel maschilista
inveterato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini. Ma come dargli torto
se quella meneghina nel giro di una manciata di mesi passa da una strabiliante e
straripante euforia ad una indecente, indegna e criminale manifestazione di
filostragismo barbarico e infame che ha disonorato l'Italia e Milano agli occhi
di tutto indistintamente il mondo civile, fascista o antifascista che fosse? Per
quanto ci riguarda, ci rifiutiamo di coinvolgere l'ampia parte sana, creativa,
feconda della Resistenza in quell'obbrobrio. Così come, del resto, ci guardiamo
bene dall'indebitamente mescolare la altrettanto ampia quota pulita,
patriottica, civilissima, nazionalpopolare, socializzatrice della Repubblica
Sociale Italiana con le bande terroristi che delle cosiddette polizie private,
con il collaborazionismo ideologicamente ottuso o privatisticamente interessato
degli elementi e dei gruppi filonazisti che sfuggivano anche al controllo di
Mussolini e dei suoi più affidabili ministri.
In ogni caso, siamo ferocemente avversi -e non certo per spirito banalmente
pacifondaio, che sappiamo ben comprendere l'esigenza della guerra di
liberazione, ma per profonda vocazione umana e politica- all'idea stessa della
guerra e, in primo luogo, di quella detta «civile», che meglio sarebbe chiamare
incivile.
Per tornare a Mussolini, c'è davvero da chiedersi se, al termine di quella
irripetibile giornata milanese, egli non si sia ricordato della frase
pronunciata quando, trent'anni prima, lo avevano espulso dal PSI e non ne abbia
misurato la straordinaria veridicità. «Voi mi odiate perché mi amate ancora»,
disse allora; e che ancora lo amino -ecco, nel classico rapporto amore-odio- lo
si evince sempre di più mentre il sacerdote d'Esculapio speditogli da Berlino
prosegue più che mai sorpreso, nella sua al tempo stesso realistica e magica
narrazione, così esternando nel descrivere i movimenti del Duce nella caserma
della Legione Muti ove si era recato per assistere alla sfilata della Guardia
Nazionale Repubblicana: «II duce, che voleva uscire, non poteva muoversi. Io
stavo proprio dietro a lui, alla mia sinistra c'era Pavolini e alla mia destra
Buffarini; invano cercavamo di fargli un argine, di aprirgli una strada. Una
signorina mi saltò sulla schiena, mi tenne stretto, mi tirò indietro la testa e
con la mano libera riuscì ad aggrapparsi a una delle spalline del duce, gridando
nelle mie orecchie: "Duce, Duce"; abbandonò la spallina solo quando egli si
voltò e le fece una carezza sulla guancia. Allora mi lasciò libero, piangendo e
ridendo di gioia e io la vidi sparire tra la folla».
Annota a questo punto Bruno Gatta, storico e giornalista di talento, nella sua
biografia di Mussolini, licenziata alla stampa per i tipi della Editrice Rusconi
di Milano nell'88: «II 18 dicembre, il terzo giorno della visita di Mussolini,
parata al castello Sforzesco delle forze giovanili del fascio milanese. Una
marea di popolo lungo il percorso [...] Sono inquadrate prima le giovani, le
giovanissime, le piccole italiane, poi i giovani, i balilla, gli avanguardisti
e, infine, completano il quadrato le ausiliarie, cioè le donne-soldato,
anch'esse, soprattutto esse, in ordine perfetto e marziale. All'ingresso di
Mussolini cantano gli inni del fascismo [...] C'è la benedizione delle bandiere,
poi Mussolini sale sul podio e parla brevemente, rievocando quel 18 dicembre di
nove anni prima in cui le donne italiane si erano raccolte attorno all'ara dei
caduti e vi avevano deposto i loro ori, compreso l'anello nuziale [...]
Mussolini bacia la bandiera che una bella giovane italiana gli tende, bacia
anche la giovanetta in divisa» che, assicura a sua volta lo Zachariae, «ha una
espressione estasiata, di beatitudine senza pari; una grande tenerezza, una
dedizione completa e un'intensa commozione le si leggono sul volto, anche questo
quadro è per me indimenticabile [...]» Era, convintissimo, il nume tutelare
della salute del Solitario del Garda, che si trattava di «un entusiasmo
spontaneo e sincero, dell'ultima grande fiammata, che rievocava i giorni
dell'apoteosi, di una immensa fiammata di passione che non avrebbe mai lasciato
presagire la ormai prossima, tragica fine».
Soggiunge: «Notavo come fosse difficile, per le ragazze specialmente, star ferme
nei ranghi anziché correre verso il Duce. La lotta interna che dovevano
sostenere si vedeva chiaramente nei loro volti, molte di loro avevano le lacrime
agli occhi ma non ci fu un solo caso di indisciplina».
A questo punto è giusto che il gentile e da noi amatissimo Lettore dica la sua.
Magari rispondendo, rispondendoci, al seguente quesito: «Sono mai immaginabili
scenari simili per un servo dei tedeschi o di chicchessia?»
Quesito, questo, che si posero, per esempio, sia il fascista di estrema sinistra
Stanis Ruinas (autore nel '44 di un volume, "Lettera a un rivoluzionario",
poliantea epistolare diretta a un ignoto suo amico comunista per indurlo a
schierarsi con la RSI) sia il già mentovato ex-fascista passato all'antifascismo
combattente Giorgio Bocca. Il primo condensa il problema in un ulteriore
interrogativo: «Era febbre di curiosità, o delirio, o pazzia?» Il secondo, tenta
di cavarsela con una spiegazione, come dire?, «funzionalistica», ecco. Dice:
«Singolare il fatto che Mussolini sia riuscito a percorrere in macchina scoperta
una grande città come Milano. La sua visita comincia, è vero, con un momento di
crisi dell'organizzazione gappista ma rivela anche una debolezza della
Resistenza milanese, che apparirà in modo ben più chiaro nelle ore
dell'insurrezione». Bocciamo ambedue le dichiarazioni. Esse, infatti, restano al
di qua del reale perché non rispondono alla domanda relativa alle giornate di
trionfo mussoliniano mentre la guerra andava come andava e, per communis opinio,
la famosa «capitale morale» era (o sarebbe stata), di fatto, nelle mani
dell'apparato resistenziale.
Enrico Landolfi
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