«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 4 - 30 Luglio 1995

 

Senza di noi, i tedeschi avrebbero avuto, l'8 settembre,
buon gioco per trattare l'Italia come terra di preda


L'ufficialissima posizione dell'Italia ufficiale sul Mussolini della Repubblica Sociale Italiana è arcinota: altro non fu che uno straccio d'uomo fattosi affittare dai tedeschi occupanti nel ruolo di burattino vestito con i panni di un capo di Stato alleato ma, in realtà, adoperato dal burattinaio nazista in una squallida funzione di modesto gauleiter. La versione, insomma, dell'antifascismo puro e duro. Enorme, oceanico il numero delle citazioni possibili a supporto di tale deprimente interpretazione del Mussolini ultimo. Mettiamo le mani nel mucchio ed estraiamone un paio, così, a casaccio. Ecco, c'è Nicola Caracciolo (autore insieme a Valerio Marino all'avvio degli Anni Novanta, di un documentario di successo presentato al Festival del Cinema di Venezia con il titolo "I 600 giorni di Salò"), il quale così si esprime in una intervista rilasciata a "l'Unità" e raccolta da Gabriella Gallozzi: «... a cinquantanni di distanza cosa avremo potuto aggiungere di più al giudizio storico ormai acquisito? È noto che la Repubblica sociale è stato un tragico fallimento: con Salò Mussolini ha legato il fascismo al carro di Hitler.» E, a sua volta, la Gallozzi: «... un altro filmato, di quelli inediti, mostra invece tutte le difficoltà di un esercito ormai dilaniato dalla diserzioni, costretto ad arruolare ragazzini giovanissimi (sic!). E poi le ultime immagini di Mussolini, davanti alle sue truppe nel '44, ormai non più capo del fantomatico impero, ma un uomo stanco sottoposto completamente ai voleri di Hitler e ossessionato dall'idea di essere tradito dai suoi generali».
Un Mussolini-spazzatura, dunque. Ma è proprio vero che nel campo dell'antifascismo militante e, anzi, guerriero, questo sprezzante e liquidatorio giudizio non soffra eccezione alcuna? No, non è vero. Per esempio, una illustre personalità della cultura resistenziale, giornalista famoso, storico autorevole, intellettuale di grosso spessore, non è propriamente del parere dei predetti signori -sicuramente rappresentativi dell'opinione prevalente-, fino al punto di discostarsene nettamente. Senza, va da sé, minimamente approcciarsi alla schiera dei mussoliniani. Trattasi di Giorgio Bocca, tra i fondatori, insieme a Duccio Galimberti e a Bianco, delle formazioni «Giustizia e Libertà», comandante della «X Divisione GL», vice commissario politico nel cuneese e, dalla fine della guerra ai nostri giorni, firma di prestigio e di lusso sui quotidiani quali "La Gazzetta del Popolo", "Il Giorno", "la Repubblica" nonché di settimanali come "L'Europeo", "L'Espresso" e tanti altri periodici. Ecco cosa scrive Bocca a proposito del rapporto di Benito Mussolini con i tedeschi in uno dei suoi tanti volumi, "Storia d'Italia nella guerra fascista", apparso nelle librerie un quarto di secolo fa e coronato da grande successo di critica e di pubblico: «La trappola è pronta a scattare e il dittatore non fa nulla per sfuggirle. Deposta l'arroganza, quasi rassegnato alla sorte, rinuncia ai ricorsi "barbarici" che Hitler gli ha suggerito, non si dissocia dal regime, non intende governare dietro la protezione della baionette tedesche. È un uomo di molti errori e di molti misfatti, ma non è un quisling. Se volesse potrebbe chiedere l'intervento tedesco per fare piazza pulita dei suoi avversari, ma sarebbe la fine del suo potere legale. Non dimentichiamo che a Salò andrà solo dopo lunghe esitazioni e sotto la minaccia tedesca; concediamogli di non aver animo da servo». Il Lettore di certo avrà compreso che il pezzo riprodotto fa riferimento alla situazione di «ammutinamento» creatasi nell'ambito delle alte gerarchie littorie alla vigilia della drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio '43.
Rapida riflessione. Il libro di Bocca è di oltre un quarto di secolo successivo a quel riluttare mussoliniano al protettorato germanico. Se dopo l'otto settembre '43 il Duce si fosse ad esso acchetato, il brillante scrittore piemontese avrebbe avuto a disposizione oltre un quarto del Novecento per inseverire il giudizio coraggiosamente equo -per quel che attiene al modo di atteggiarsi dell'uomo di Predappio verso l'uomo di Braunau- verso colui che egli come partigiano aveva certamente combattuto dopo averlo altrettanto onestamente servito in qualità di segretario del GUF (Gruppi Universitari Fascisti) di Cuneo mediante articoli contro potenze e potentati «demoplutogiudaicomassoni» su riviste «di area», come oggi si direbbe, o, magari, prendendo a sganassoni su di un treno un industrialotto locale nel '43 per essersi costui permesso di dubitare a voce alta della immancabile vittoria delle forze armate dell'Asse e, in esse, di quelle italiane con relativa, successiva denuncia alla polizia per disfattismo. Peccatucci di gioventù, indubbiamente, svelati dal quotidiano "L'Indipendente" quando era diretto, in chiave berlusconiana, non ricordiamo bene se da Vittorio Feltri o da Maria Pia; «penne buone» sempre in fregola di fromboleggiamenti verso i polemisti più agguerriti del fronte progressista.
Certo, Bocca da un colpo al cerchio e uno alla botte; né potrebbe fare diversamente, non essendo lecito, stando ai comandi dell'etica resistenziale, vergare anche una sola pagina dalla quale possa emergere il sospetto che questo Mussolini, poi, non fosse un personaggio completamente negativo e, conseguentemente, non demonizzabile a volontà dovunque, comunque e con chiunque. Riflessione anche più rapida, rapidissima, su quanto affermato da Nicola Caracciolo a proposito del connotato di fondo di Salò, definita «tragico fallimento». Il Caracciolo, che è uomo colto e preparato, non può non sapere che in Italia, per un verso o per l'altro, tutte le Repubbliche delle età moderne e contemporanee -non si può andare troppo lontano con Roma e le «marinare» del Medioevo- sono tutte state un tragico fallimento: a tacer la Partenopea, la Cispadana, la Cisalpina, la Romana e, buon'ultima, la prima Repubblica «nata dalla resistenza». E, visto che ci siamo, sempre a Caracciolo facciamo presente che -in tema di indipendenza di repubbliche dallo straniero- se Sparta piange Atene non ride, come usa dire. Le repubbliche giacobine altro non furono che protettorati francesi, dove i proconsoli del Direttorio o del Bonaparte facevano il bello e il cattivo tempo, depredavano, saccheggiavano, imponevano tributi esosi, requisivano, reclamavano contingenti militari da impiegare in guerra dove l'interesse italiano allegramente latitava, si riservavano sempre l'ultima parola per quel che concerneva le cariche pubbliche ed i pubblici affari, trattavano gli italiani dall'alto in basso. Unica eccezione: la Repubblica Romana, ma lì, ecco il punto, a tenere la bacchetta in mano c'era nientepopodimeno che un Giuseppe Mazzini.
Ora, con tutti questi poco illustri precedenti, come ha potuto Caracciolo limitarsi ad affermare che «con Salò Mussolini ha legato il fascismo al carro di Hitler»? Comprendiamo bene che egli non può non bruciare il suo bravo grano di incenso sull'altare delle «verità» ufficiali, di Stato, di epoca, duramente presidiate da quelle vestali della cultura conformista che sono gli intellettuali organici di tutti i partiti. Ma, insomma, perché essere poi tanto radicali nel giudizio da mettersi in condizione di farsi smentire da una personalità come Giorgio Bocca che, oltre ad appartenere al più qualificato e autorevole brain trust della cultura resistenziale, il partigiano, vivaddio, l'ha fatto e quando parla sa quel che dice. Sia detto, ciò, senza nulla togliere alla nostra amicizia e considerazione per un intellettuale come Nicola -peraltro nostro amico molto caro- il quale ha fatto tutte le sue brave prove con risultati notevolissimi. Fra i quali, appunto, "I seicento giorni di Salò".

* * *
Nel Diario di Giovanni Dolfin, il giovane segretario particolare di Mussolini prima di essere sostituito da Luigi Gatti, vengono riferiti alcuni sfoghi del Duce taluni dei quali sembrerebbero dare ragione ai Caracciolo, ai Gallozzi e a tutto il vasto stuolo degli sputtanatori della RSI e del suo Capo. Questo, per esempio: «Ormai abbiamo perduto molto del nostro prestigio e stiamo perdendo quel poco che ancora ci rimane, esercitando per delega altrui un potere che si rivela sempre più fittizio. Ciò ci toglie ogni residua simpatia da parte del popolo italiano che non potrà, sotto il peso della sventura, mai capire il mio tormento per lui. È mio dovere, comunque, non sottrarmi alla responsabilità che fa parte del mio destino» ...
Un gauleìter rassegnato e psicologicamente distrutto dalla consapevolezza della subordinazione e della relativa sua inutilità, dunque? Niente affatto. Pur senza abbandonare la chiave elegiaca del suo dire, eccolo riprendersi e, con orgoglio, rivendicare necessità, positività, insostituibilità del suo ruolo. Dichiara: «Eppure, senza di noi, senza questa cosiddetta larva di governo, che lotta come può, ma lotta, i tedeschi avrebbero avuto, l'8 settembre, buon gioco per trattare l'Italia come terra di preda. Non mancavano loro né gli intendimenti, né le ragioni né i mezzi per impiegare nei nostri confronti la stessa durezza che hanno posto in essere verso i popoli e le terre che hanno conquistato con le armi».
A questo punto scatta una nostra riserva relativa alle «ragioni» dei germanici, i quali sicuramente ne avevano da far valere nei confronti verso Badoglio e sodali, ma altrettanto vero è che essi si erano spesso e soprattutto volentieri comportati nei confronti dell'Italia, fascista o meno che fosse, con grande scorrettezza. E qui potremmo riempire un intero volume a ciò dedicato, ma basterà citare due soli casi: l'accordo Ribbentrop-Molotov prima e, quindi, l'aggressione all'URSS. Ambedue le volte Regno d'Italia e Regime Fascista, annodati nella Diarchia, furono messi di fronte al fatto compiuto. Ma seguiamo il Dolfin in una sua chiosa di fronte al peculiare agire mussoliniano in questo torno di tempo: «In questi tre mesi che gli sono vicino, non l'ho mai sentito una sola volta esprimere parole di odio, che non siano state il frutto di un impulso immediato, subito corretto, attenuato, verso i suoi avversari. Quando può continua a salvarli, accentuando nei tedeschi diffidenza e ostilità. (Dunque, non è un pupazzo, un rimorchiato, uno strumento nelle mani dei nazisti). Silvestri ne sa qualche cosa. Giunge da noi settimanalmente, con lunghi elenchi di perseguitati politici arrestati dalle diverse ed incontrollate polizie. Talvolta si tratta di nomi ritenuti importanti quali capi responsabili del movimento clandestino. Anche per Roveda, il duce si sta opponendo ad un processo che i tedeschi e il partito reputano necessario. (Si è mai visto un servo contestare a un padrone il diritto di processare chi gli pare e piace?). Egli disprezza soltanto coloro che, approfittando delle sventure, fascisti sino a ieri, hanno gettato tessera e fede per un atto di vigliaccheria fisica, infierendo contro altri fascisti. Ed ha ragione».
Del resto, che Mussolini non abbia alcuna intenzione di essere un quisling, sia pure riveduto e corretto, emerge anche da una risposta a Leandro Arpinati, uno dei massimi gerarchi degli Anni Venti, «ras» di Bologna caduto in disgrazia per un diverbio con Starace che, comprensibilmente, aveva negato la tessera del PNF a Mario Missiroli, «penna buona» dell'antifascismo, duellante mediante sciabola oltre che inchiostro con Mussolini il quale su "Il Popolo d'Italia" lo aveva definito «perfido gesuita e solennissimo vigliacco» per avere egli tacciato il fascismo di «schiavismo agrario». Dunque, ad Arpinati che gli dice: «Ma vedo che tu sei prigioniero dei tedeschi» risponde: «Non è vero. Ho fatto sapere a tutti che io faccio il capo del governo e devo avere la più ampia libertà d'azione. Se no me ne vado. Ma ho bisogno di persone sicure. Tu sei l'unico uomo su cui posso veramente contare. Tu devi essere per ora il ministro dell'Interno. Poi, nella nuova repubblica, io sarò il presidente e tu sarai il capo del governo. Ma tu devi stare con me».
Dove ci si imbatte ancora nel solito Mussolini che di uomini si intende poco o nulla. Afferma di ritenere l'Arpinati il solo uomo degno di affidamento da parte sua. E invece è distante trilioni di anni luce dalla verità. Infatti il suo felsineo interlocutore rifiuta le offerte tremende e generosissime del suo ex-capo e, in verità molto onestamente, egli dice che non se la sente di patrocinare una causa nella quale non può credere e, men che meno, si identifica; tanto più che i princìpi stessi della Repubblica Sociale Italiana sono ben lungi dall'incontrare fervori e favori suoi. Per dirla tutta: Leandro Arpinati, liberista puro, come oggi si dice, è avverso alla socializzazione; ed è strano che il Duce abbia dimenticato che, a parte la questione Missiroli e l'incompatibilità con Achille Starace, un altro dei motivi del braccio di ferro con le alte gerarchle littorie che lo ridusse ai margini, ai fuori, del Regime fu la sua dichiarata avversione al corporativismo. Ma l'ex-pezzo grosso del fascio petroniano non si limiterà a respingere le compromettenti e tuttavia allettantissime profferte mussoliniane, ma prenderà contatti con la Resistenza e darà asilo a prigionieri angloamericani e affini guadagnandosi benemerenze antifasciste e antitedesche che gli varranno la fucilazione da parte non delle Brigate Nere ma dei partigiani. Infatti, nei momenti più tumultuosi e caotici successivi alla capitolazione germanica un gruppo di tangheri che nulla sapevano delle vicissitudini dell'Arpinati nel Littorio e neppure erano edotti della sua più recente posizione politica, decisero di andare a prenderlo e di metterlo al muro senza voler sentire ragioni né accettare spiegazioni.
Di questa orrenda, oltre che paradossale vicenda, va però colto un elemento preciso: Mussolini si rivolge all'antico seguace per affidargli il dicastero dell'Interno soprattutto per sfruttarne le doti di personalità e di energia precipuamente al fine di fare argine all'invadenza dei nazisti e alla odiosità dei loro metodi. Secondo noi, la nomina di Arpinati gli serviva anche per bloccare la candidatura «naturale» di Guido Buffarini Guidi, dirigente dal carattere ellittico e sfuggente; e, oltre a ciò, in fama di propinquità eccessiva ai tedeschi, alle loro idee, ai loro interessi.
Ma, comunque, Arpinati o non Arpinati, Buffarini o non Buffarini, l'Uomo che dai fastigi e dai trionfi di Palazzo Venezia era finito in un esilio lacustre silente e solitario, la sua parte di marginatore degli alleati-occupanti la fece. Nei limiti consentiti dalle circostanze eccezionalissime, si capisce. Tanto da giungere addirittura al punto di intervenire su Hitler nel tentativo di salvare uno dei membri della congiura del venti luglio '44: il diplomatico von Hassel, ex-ambasciatore a Roma. Ordina all'ambasciatore a Berlino, Filippo Anfuso, di fare un passo presso il Fuhrer a suo nome. Francamente non ricordiamo, mentre scriviamo, come andò a finire. Ma si trattava di una causa disperata e, comunque, non italiana.
I più violenti detrattori di Mussolini -soprattutto alcuni ex-ultras fascisti passati sull'altra parte della barricata e, quindi, bisognosi di accreditarsi nella nuova versione facendo sfoggio di incontenibile avversione per il vecchio idolo non più sostenuto dalla Dea bendata- hanno scritto e detto che sulle rive del Garda il già Inquilino di Palazzo Venezia altro non era che un fantoccio su cui i tedeschi non riversavano che ironia e, soprattutto, disprezzo. Orbene, mai raffigurazione fu più marcata e strumentale. Certo, nel suo "Diario" il Goebbels scrive che «in fondo questo Mussolini è soltanto un italiano», ma trattasi di valutazione che, ove a conoscenza dell'interessato, non sarebbe affatto tornata a lui sgradita. Hitler, invece, sempre ritenne Mussolini un suo pari e lo rispettò profondamente, cercando, ove possibile, di venirgli incontro nei suoi desiderata. Fermo restando, ovviamente, il primato degli interessi tedeschi. Per esempio, pur non credendo nella socializzazione, ordinò ai suoi rappresentanti in Italia -ma si trovarono i marchingegni idonei ad ottemperare solo in misura molto limitata alle sue disposizioni- di non contrastare il revival socialista del vecchio direttore de "La Lotta di classe" e de "l'Avanti!".
Così come -riferisce ciò il Deakyn, autore inglese di sicura caratura antifascista nella sua "Storia della Repubblica di Salò"- a proposito del processo di Verona «ripetè le sue istruzioni, che cioè il processo doveva essere considerato una questione esclusiva di Mussolini nella quale i tedeschi non dovevano interferire, né in un senso né nell'altro».
In taluni momenti, a taluni tedeschi, al rispetto viene a sommarsi l'entusiasmo più schietto e, perfino, l'ammirazione più incondizionata. E così in occasione del famoso discorso al Teatro Lirico del dicembre '44 -nella Milano che lo aveva accolto festosamente, trionfalmente, da una folla turgida di nostalgia e di rimpianto; quella stessa folla che quattro mesi dopo avrebbe macabramente, orgiasticamente danzato non dinanzi all'Albero della Libertà, ma allo scempio di Piazzale Loreto- Rudolf Rahn, l'ambasciatore tedesco, esprime questo parere sull'allocuzione del più famoso incantatore di «adunate oceaniche» che mai abbia calcato le scene della politica sul pianeta: «È decisamente un grand'uomo, capace di imporsi ai più grandi della terra; il suo discorso è stato un autentico capolavoro davanti al quale bisogna togliersi il cappello».
Se questo è un commento sprezzante... Ma vediamo come un altro «crucco» descrive le manifestazioni incontenibili di gioia dei milanesi al passaggio per strade e piazze cittadine di colui che si considerava -lo aveva detto anche a Vittorio Emanuele III a Villa Savoia, prima di essere arrestato- «l'uomo più odiato d'Italia». Quello che scrive, eccezionalmente, un «crucco» simpatico, il dott. Georg Zachariae medico curante di Mussolini, specialista di malattie di cui soffre il Duce e in pianta stabile a Salò su ordine personale di Hitler per seguirne gli sviluppi e adeguatamente curarle. Dice dunque costui: «... I marciapiedi erano invasi da una quantità di gente in continuo movimento, da una popolazione entusiasta che si spingeva avanti per vedere il suo duce da vicino, per cogliere possibilmente un suo sguardo; spesso erano vani i tentativi dei vigili e delle truppe per tenere sufficientemente libera la strada, poiché la folla tentava ad ogni istante di rompere i cordoni in modo che le macchine potevano avanzare lentamente e con la massima prudenza. Io ho visto anche a Berlino delle scene indescrivibili di entusiasmo, ma l'entusiasmo al quale ho assistito in quei giorni a Milano è ben raramente eguagliabile».
E scusate tanto se è poco! «La folla è femmina», soleva dire quel maschilista inveterato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini. Ma come dargli torto se quella meneghina nel giro di una manciata di mesi passa da una strabiliante e straripante euforia ad una indecente, indegna e criminale manifestazione di filostragismo barbarico e infame che ha disonorato l'Italia e Milano agli occhi di tutto indistintamente il mondo civile, fascista o antifascista che fosse? Per quanto ci riguarda, ci rifiutiamo di coinvolgere l'ampia parte sana, creativa, feconda della Resistenza in quell'obbrobrio. Così come, del resto, ci guardiamo bene dall'indebitamente mescolare la altrettanto ampia quota pulita, patriottica, civilissima, nazionalpopolare, socializzatrice della Repubblica Sociale Italiana con le bande terroristi che delle cosiddette polizie private, con il collaborazionismo ideologicamente ottuso o privatisticamente interessato degli elementi e dei gruppi filonazisti che sfuggivano anche al controllo di Mussolini e dei suoi più affidabili ministri.
In ogni caso, siamo ferocemente avversi -e non certo per spirito banalmente pacifondaio, che sappiamo ben comprendere l'esigenza della guerra di liberazione, ma per profonda vocazione umana e politica- all'idea stessa della guerra e, in primo luogo, di quella detta «civile», che meglio sarebbe chiamare incivile.
Per tornare a Mussolini, c'è davvero da chiedersi se, al termine di quella irripetibile giornata milanese, egli non si sia ricordato della frase pronunciata quando, trent'anni prima, lo avevano espulso dal PSI e non ne abbia misurato la straordinaria veridicità. «Voi mi odiate perché mi amate ancora», disse allora; e che ancora lo amino -ecco, nel classico rapporto amore-odio- lo si evince sempre di più mentre il sacerdote d'Esculapio speditogli da Berlino prosegue più che mai sorpreso, nella sua al tempo stesso realistica e magica narrazione, così esternando nel descrivere i movimenti del Duce nella caserma della Legione Muti ove si era recato per assistere alla sfilata della Guardia Nazionale Repubblicana: «II duce, che voleva uscire, non poteva muoversi. Io stavo proprio dietro a lui, alla mia sinistra c'era Pavolini e alla mia destra Buffarini; invano cercavamo di fargli un argine, di aprirgli una strada. Una signorina mi saltò sulla schiena, mi tenne stretto, mi tirò indietro la testa e con la mano libera riuscì ad aggrapparsi a una delle spalline del duce, gridando nelle mie orecchie: "Duce, Duce"; abbandonò la spallina solo quando egli si voltò e le fece una carezza sulla guancia. Allora mi lasciò libero, piangendo e ridendo di gioia e io la vidi sparire tra la folla».
Annota a questo punto Bruno Gatta, storico e giornalista di talento, nella sua biografia di Mussolini, licenziata alla stampa per i tipi della Editrice Rusconi di Milano nell'88: «II 18 dicembre, il terzo giorno della visita di Mussolini, parata al castello Sforzesco delle forze giovanili del fascio milanese. Una marea di popolo lungo il percorso [...] Sono inquadrate prima le giovani, le giovanissime, le piccole italiane, poi i giovani, i balilla, gli avanguardisti e, infine, completano il quadrato le ausiliarie, cioè le donne-soldato, anch'esse, soprattutto esse, in ordine perfetto e marziale. All'ingresso di Mussolini cantano gli inni del fascismo [...] C'è la benedizione delle bandiere, poi Mussolini sale sul podio e parla brevemente, rievocando quel 18 dicembre di nove anni prima in cui le donne italiane si erano raccolte attorno all'ara dei caduti e vi avevano deposto i loro ori, compreso l'anello nuziale [...] Mussolini bacia la bandiera che una bella giovane italiana gli tende, bacia anche la giovanetta in divisa» che, assicura a sua volta lo Zachariae, «ha una espressione estasiata, di beatitudine senza pari; una grande tenerezza, una dedizione completa e un'intensa commozione le si leggono sul volto, anche questo quadro è per me indimenticabile [...]» Era, convintissimo, il nume tutelare della salute del Solitario del Garda, che si trattava di «un entusiasmo spontaneo e sincero, dell'ultima grande fiammata, che rievocava i giorni dell'apoteosi, di una immensa fiammata di passione che non avrebbe mai lasciato presagire la ormai prossima, tragica fine».
Soggiunge: «Notavo come fosse difficile, per le ragazze specialmente, star ferme nei ranghi anziché correre verso il Duce. La lotta interna che dovevano sostenere si vedeva chiaramente nei loro volti, molte di loro avevano le lacrime agli occhi ma non ci fu un solo caso di indisciplina».
A questo punto è giusto che il gentile e da noi amatissimo Lettore dica la sua. Magari rispondendo, rispondendoci, al seguente quesito: «Sono mai immaginabili scenari simili per un servo dei tedeschi o di chicchessia?»
Quesito, questo, che si posero, per esempio, sia il fascista di estrema sinistra Stanis Ruinas (autore nel '44 di un volume, "Lettera a un rivoluzionario", poliantea epistolare diretta a un ignoto suo amico comunista per indurlo a schierarsi con la RSI) sia il già mentovato ex-fascista passato all'antifascismo combattente Giorgio Bocca. Il primo condensa il problema in un ulteriore interrogativo: «Era febbre di curiosità, o delirio, o pazzia?» Il secondo, tenta di cavarsela con una spiegazione, come dire?, «funzionalistica», ecco. Dice: «Singolare il fatto che Mussolini sia riuscito a percorrere in macchina scoperta una grande città come Milano. La sua visita comincia, è vero, con un momento di crisi dell'organizzazione gappista ma rivela anche una debolezza della Resistenza milanese, che apparirà in modo ben più chiaro nelle ore dell'insurrezione». Bocciamo ambedue le dichiarazioni. Esse, infatti, restano al di qua del reale perché non rispondono alla domanda relativa alle giornate di trionfo mussoliniano mentre la guerra andava come andava e, per communis opinio, la famosa «capitale morale» era (o sarebbe stata), di fatto, nelle mani dell'apparato resistenziale.

Enrico Landolfi

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