«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 4 - 30 Luglio 1995

 

le lettere

Il sogno come sofferenza

a Vito Errico


Ama il tuo sogno
Ogni inferiore amore dispreizando,
II vento ama
Ed accorgiti qui
Che sogni solo possono veramente essere,
Perciò in sogno a raggiungerti m'avvio.
Ezra Pound



Ed eccomi ancora qui a sognare leggendo le Sue righe, a perdermi in illusone congetture, ad autoconvincermi di poter vivere senza sogni. «Perché non sognare ancora? Perché sognare un'ultima volta?» - Lei mi chiede.
Che domande ingenue per chi come Lei ha «capelli grigi ed un passato ch'è ormai storia»... Ed io che di anni ne ho ventiquattro (la risposta non borghese è arrivata) mi trovo a doverLe rispondere ciò che mi sembra un'ovvietà. Certo, sognare è splendido, sognare evita l'incancrenimento del cervello, cura pustole e bubboni della mediocre quotidianità.
Certo il sogno è fatto per gli eterni insoddisfatti della vita, per gli spiriti liberi, per gli anarchici d'animo, per gli antieroi, per i passionali, per gli idealisti, per i puri, per gli anticonformisti, per chi va controcorrente, per chi fugge la tenebra ed ama percorsi nella luminosità del giorno. E lo so anche io che sognare è l'unica cosa che è data all'uomo «ribelle» per accettare la vita non rivoluzionaria, squallida, tipico borghese. Ma come è duro il risveglio per chi non è un imbecille, come diventa più difficile accettare la realtà di un mondo che inevitabilmente tutto disillude e tutto disattende. Sognare ancora?
Proprio Lei che per tutta la Sua vita dice di aver sognato e che sicuramente avrà sognato e che probabilmente sogna ancora adesso, come può essere così crudele da «condannarmi» a sognare ancora, facendo, così sì, un grossissimo errore? Soffro ogni volta che sogno. Soffro ogni volta che incontro qualcuno che come Lei mi invita a sognare ancora. Libera di sognare... Mai affermazione fu più sadica.
Mi chiede cos 'è la libertà? Le rispondo con alcune parole di Silone tratte da Vino e pane: «[...] La libertà non è una cosa che si possa ricevere in regalo [...] L'uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto è libero [...] Se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi [...] Non bisogna implorare la propria libertà dagli altri. La libertà bisogna prendersela ognuno la porzione che può [...]».
Per oggi la mia porzione l'ho presa, scrivendo a Lei queste mie. Il mio cuore incorrotto e libero di soffrire La saluta.
I miei sogni fugati non possono tuttavia dimenticare.
II mio bisogno di amare ringrazia per tutto ciò che ha avuto.


Roberta Capotosti


* * *

 

Quando leggi quel che scrive Roberta, t'accorgi che non è vero che «questa» gioventù è fatta solamente di spiaccicamenti a duecento all'ora, di ubriacature di ecstasy, di timpani suonati per il rintronamento cerebrale. Per noi, che siamo rimasti soli a sputare su un mondo vestito di paillettes e le sue carni coperte da croste di immondezza maleolente, questo è il sogno.
Un sogno può essere ovvietà? Chissà! Nonostante tutto, però, bisogna avere speranza. Non nei grandi progetti, nei lustrini d'un vivere ch'è sempre faticoso. Speranza nelle proprie possibilità di dover tentare di cambiare il mondo. Se non si riesce, ci si assolve per aver tentato. È la nostra coscienza, prima d'ogni altro tribunale, ad essere la più severa delle corti. E per rispondere a quella coscienza, bisogna essere liberi. «Dentro». Quando poi si arriva a condividere (perché di questo, mi pare, si tratti) la definizione di libertà che Ignazio Silone, l'autore di "Fontamara", traccia con precisione matematica, s'è su un cammino che diverge da una via che altri percorrono. Allora, in quel momento, bisogna addentarlo, quel tozzo di coraggio. Fino a chiedersi: che ci faccio io, qui?
Se per scrivere a uno come me, ci si guadagna un briciolo di libertà, bisogna allora vivere un sogno ad occhi aperti. Tagliare un nodo gordiano e prendersi la libertà d'andare, meravigliosamente anarchici, in giro per il mondo delle idee (che non sono morte né potranno mai morire) senza schieramenti.
A ventiquattro anni si può. Forse, si deve. A quarantaquattro, resta il rimpianto. Che strugge, che consuma. Non fa di più. Appesantisce ulteriormente il dolore. Ed è peccato ridursi così.


V. E.




Egr. Direttore,
ogni volta che leggo un suo articolo, sento il desiderio profondo di scrivere, per esprimere il mio sostegno alle sue tesi. Così è accaduto per il «fondo» dell'ultimo numero di "Tabularasa". Certo «minoranze ribelli» dentro una società, materialmente sazia, eppure agonizzante perché senz'anima.
Cialtroni, politicanti, affaristi, mazzettari, usurai, mafiosi, parassiti ecc. ecc. Non c'è da essere ottimisti, per un recupero del senso etico della vita, cioè la «morale». Eppure ci sono uomini come lei, che nascono e vivono con questa voglia di cambiamento positivo, e che non si rassegnano all'inchino nei confronti del potere costituito, ma, anzi, lottano nella consapevolezza e con l'orgoglio di essere «minoranza». D'altra parte, se maggioranza vuoi dire compromesso e cialtroneria... evviva le minoranze!
È pur vero che il «progetto» non appare facilmente realizzabile, tantomeno in tempi brevi, ed inoltre, da queste partì, nel profondo Sud d'Italia, tutto è maledettamente più difficile. Da noi tutto si scambia, ed equivale ad un prezzo prestabilito, anche il cuore ed il cervello... Qui le intelligenze vengono sistematicamente isolate, per lasciare campo aperto ai ciarlatani di turno. Eppure, c'è un solo sentiero percorribile, per chi non ama facili scorciatoie, il sentiero che lei ci ha indicato, impervio e tutto in salita. È qui la differenza, la voglia di non calarsi nella mischia melmosa e ripugnante, nell'attesa che un giorno, per quel sentiero, dopo un cammino di fatica, sudore, e sofferenza, possa intravvedersi la vetta.
Ad ognuno di noi, minoranza fiera, un piccolo sogno.
 

Antonella Fortunato
Castrolibero - CZ

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