le lettere
Il sogno
come sofferenza
a Vito
Errico
Ama il tuo sogno
Ogni inferiore amore dispreizando,
II vento ama
Ed accorgiti qui
Che sogni solo possono veramente essere,
Perciò in sogno a raggiungerti m'avvio.
Ezra Pound
Ed eccomi ancora qui a sognare leggendo le Sue righe, a perdermi in illusone
congetture, ad autoconvincermi di poter vivere senza sogni. «Perché non sognare
ancora? Perché sognare un'ultima volta?» - Lei mi chiede.
Che domande ingenue per chi come Lei ha «capelli grigi ed un passato ch'è ormai
storia»... Ed io che di anni ne ho ventiquattro (la risposta non borghese è
arrivata) mi trovo a doverLe rispondere ciò che mi sembra un'ovvietà. Certo,
sognare è splendido, sognare evita l'incancrenimento del cervello, cura pustole
e bubboni della mediocre quotidianità.
Certo il sogno è fatto per gli eterni insoddisfatti della vita, per gli spiriti
liberi, per gli anarchici d'animo, per gli antieroi, per i passionali, per gli
idealisti, per i puri, per gli anticonformisti, per chi va controcorrente, per
chi fugge la tenebra ed ama percorsi nella luminosità del giorno. E lo so anche
io che sognare è l'unica cosa che è data all'uomo «ribelle» per accettare la
vita non rivoluzionaria, squallida, tipico borghese. Ma come è duro il risveglio
per chi non è un imbecille, come diventa più difficile accettare la realtà di un
mondo che inevitabilmente tutto disillude e tutto disattende. Sognare ancora?
Proprio Lei che per tutta la Sua vita dice di aver sognato e che sicuramente
avrà sognato e che probabilmente sogna ancora adesso, come può essere così
crudele da «condannarmi» a sognare ancora, facendo, così sì, un grossissimo
errore? Soffro ogni volta che sogno. Soffro ogni volta che incontro qualcuno che
come Lei mi invita a sognare ancora. Libera di sognare... Mai affermazione fu
più sadica.
Mi chiede cos 'è la libertà? Le rispondo con alcune parole di Silone tratte da
Vino e pane: «[...] La libertà non è una cosa che si possa ricevere in regalo
[...] L'uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto è
libero [...] Se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi [...]
Non bisogna implorare la propria libertà dagli altri. La libertà bisogna
prendersela ognuno la porzione che può [...]».
Per oggi la mia porzione l'ho presa, scrivendo a Lei queste mie. Il mio cuore
incorrotto e libero di soffrire La saluta.
I miei sogni fugati non possono tuttavia dimenticare.
II mio bisogno di amare ringrazia per tutto ciò che ha avuto.
Roberta Capotosti
* * *
Quando leggi quel che scrive
Roberta, t'accorgi che non è vero che «questa» gioventù è fatta solamente di
spiaccicamenti a duecento all'ora, di ubriacature di ecstasy, di timpani suonati
per il rintronamento cerebrale. Per noi, che siamo rimasti soli a sputare su un
mondo vestito di paillettes e le sue carni coperte da croste di immondezza
maleolente, questo è il sogno.
Un sogno può essere ovvietà? Chissà! Nonostante tutto, però, bisogna avere
speranza. Non nei grandi progetti, nei lustrini d'un vivere ch'è sempre
faticoso. Speranza nelle proprie possibilità di dover tentare di cambiare il
mondo. Se non si riesce, ci si assolve per aver tentato. È la nostra coscienza,
prima d'ogni altro tribunale, ad essere la più severa delle corti. E per
rispondere a quella coscienza, bisogna essere liberi. «Dentro». Quando poi si
arriva a condividere (perché di questo, mi pare, si tratti) la definizione di
libertà che Ignazio Silone, l'autore di "Fontamara", traccia con precisione
matematica, s'è su un cammino che diverge da una via che altri percorrono.
Allora, in quel momento, bisogna addentarlo, quel tozzo di coraggio. Fino a
chiedersi: che ci faccio io, qui?
Se per scrivere a uno come me, ci si guadagna un briciolo di libertà, bisogna
allora vivere un sogno ad occhi aperti. Tagliare un nodo gordiano e prendersi la
libertà d'andare, meravigliosamente anarchici, in giro per il mondo delle idee
(che non sono morte né potranno mai morire) senza schieramenti.
A ventiquattro anni si può. Forse, si deve. A quarantaquattro, resta il
rimpianto. Che strugge, che consuma. Non fa di più. Appesantisce ulteriormente
il dolore. Ed è peccato ridursi così.
V. E.
Egr. Direttore,
ogni volta che leggo un suo articolo, sento il desiderio profondo di scrivere,
per esprimere il mio sostegno alle sue tesi. Così è accaduto per il «fondo»
dell'ultimo numero di "Tabularasa". Certo «minoranze ribelli» dentro una
società, materialmente sazia, eppure agonizzante perché senz'anima.
Cialtroni, politicanti, affaristi, mazzettari, usurai, mafiosi, parassiti ecc.
ecc. Non c'è da essere ottimisti, per un recupero del senso etico della vita,
cioè la «morale». Eppure ci sono uomini come lei, che nascono e vivono con
questa voglia di cambiamento positivo, e che non si rassegnano all'inchino nei
confronti del potere costituito, ma, anzi, lottano nella consapevolezza e con
l'orgoglio di essere «minoranza». D'altra parte, se maggioranza vuoi dire
compromesso e cialtroneria... evviva le minoranze!
È pur vero che il «progetto» non appare facilmente realizzabile, tantomeno in
tempi brevi, ed inoltre, da queste partì, nel profondo Sud d'Italia, tutto è
maledettamente più difficile. Da noi tutto si scambia, ed equivale ad un prezzo
prestabilito, anche il cuore ed il cervello... Qui le intelligenze vengono
sistematicamente isolate, per lasciare campo aperto ai ciarlatani di turno.
Eppure, c'è un solo sentiero percorribile, per chi non ama facili scorciatoie,
il sentiero che lei ci ha indicato, impervio e tutto in salita. È qui la
differenza, la voglia di non calarsi nella mischia melmosa e ripugnante,
nell'attesa che un giorno, per quel sentiero, dopo un cammino di fatica, sudore,
e sofferenza, possa intravvedersi la vetta.
Ad ognuno di noi, minoranza fiera, un piccolo sogno.
Antonella
Fortunato
Castrolibero - CZ
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