«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 4 - 30 Luglio 1995

 

i dibattiti

Ci allontaniamo per ritrovarci più vicini


Per «gentile concessione dell'editore» ho avuto modo di leggere in anteprima quanto ha scritto Beniamino Donnici sullo scorso numero di "Tabularasa". E per «cortese anticipazione del direttore» ho appreso che il troppo paziente editorialista Antonio Carli avrebbe espresso giudizi troppo buoni circa Pietrangelo Buttafuoco ed il sottoscritto.
Avrei potuto, quindi, starmene zitto ed è solo per irrefrenabile istinto masochista che stendo -nottetempo, naturalmente- queste brevi note.
Con un garbo di cui gli sono grato, Donnici contesta la praticabilità di un sentiero politico che procede verso il rinnovamento senza passare per i territori della sinistra. E qui sta il primo problema.
Infatti, la sinistra, globalmente intesa si sta comportando, almeno dall'89 in qua, come un pugile suonato. Incapace di rielaborare una nuova identità, bensì gli ultimi connotati di quell'antropologia eroica di stampo fascista che il leninismo aveva trapiantato nel corpo dei Partiti comunisti, quell'area (che si autodefinisce «progressista», non vergognandosi di parlare un così ottocentesco linguaggio) è rifluita sulle posizioni del radicalismo liberale, fenomeno -questo sì- definitivamente americano.
In un'orgia di pensiero debole, la Sinistra, abbandonata la politica, si occupa ormai soltanto di associazionismo gay, di gonne a fiori e mimose dell'otto marzo, di civica educazione all'uso delle cinture di sicurezza e di appassionanti inchieste sui costi dei dentifrici durante le trasmissioni hard di Lubrano.
Per carità, tutte cose rispettabilissime (tranne, concedetemelo, Jovannotti e il Politically correct); solo che non hanno niente a che vedere con Cacciari e Marramao. Anzi, neanche il Marramao di oggi ha niente a che vedere con sé stesso, se arriva a dire, pure lui, che «gli aristoi non fanno più politica» e che «ci vuole un governo di competenti». Insomma, «qua si non fa politica si lavora».
È il suicidio della Sinistra, annunciato già dal voto del 27 marzo - che un significato ce l'ha: è stata la dimostrazione della genetica incapacità della Sinistra di andare al potere.
La Sinistra perde perché è sterile, è costitutivamente anarchica, inadatta a quella filosofia del nitido confronto politico inaugurata col sistema maggioritario. A proposito, il maggioritario, sbaglio, o tutti noi l'avevamo fortemente voluto?
L'abbandono del sistema proporzionale, infatti, ha significato la fine della politica della rendita di posizione, della pigra salvaguardia del piccolo orticello in cui si erano rassegnatamente rinchiuse le forze d'opposizione al regime democristiano. Nessuna nicchia è stata più garantita, nessuna politica dei «dieci posti alla camera» è stata più possibile. Basta con le oasi faunistiche per piccole identità politiche, basta con la campana di vetro. Certo, occorre attrezzarsi per la navigazione in mare aperto, con grandi navi ed a contatto di gomito con equipaggi numerosi, e il rischio di infettarsi c'è. Ma non è ancora chiaro chi sarà la «vittima», chi il virus... In fondo, ci siamo abituati (non ripetiamo sempre che là «dove cresce il pericolo cresce anche ciò che ti salva»?); sappiamo, tutti, che è troppo comodo fondare una setta di eguali e che è più giusto andare in mezzo agli altri, «portare la contraddizione in seno al popolo» e stare a tiro di voce nella Città.
E in Città, voglio credere, non c'è ancora posto per noi. Occorre infatti, riscoprire, in qualche quartiere, il luogo della Decisione, che Schmitt cercava sulle orme di Donoso; occorre ristrutturare, da qualche altra parte, l'edificio della Solidarietà che troppi occupanti abusivi han fatto rovinare.
E non è colpa mia se troppi Scalfaro (singolare e plurale) cercano di «neutralizzare la Politica perpetuando quell'illusorio compromesso che Niccolai chiamava "massacro dei valori"»; d'altronde, contrastare la vecchia Sinistra conservatrice significa aiutare a far nascere quella nuova, in cui non mi riconosco ma di cui riconosco il bisogno, nell'interesse della Comunità. Perché se ognuno di noi, poveri ed appassionati artigiani, rivendica il diritto di scalpellare dove meglio crede, è anche vero che pur «errando come cavalieri il nostro motto non è "né destra né sinistra" ma, piuttosto "e Destra e Sinistra": pensiamo che si possa attraversare tutta la geografia politica e fare una rifusione degli elementi più validi. Si tratta di formulare delle sintesi. Non c'è possibilità di uscita dalla crisi della nostra epoca se continuiamo a pensare su una, e una soltanto, delle grandi ideologie del Novecento». (1)
Anche per questo, spero di vedere ancora il mio nome accanto a quello di Beniamino Donnici.

Peppe Nanni

(1) Marco Tarchi, nell'intervista riportata da Michele Brambilla in "Interrogatorio alle Destre", Rizzoli, 1995, p 127

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