«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 4 - 30 Luglio 1995

 

Morire liberali?
Atto 1°, Scena 1°
 

Si apre il sipario e, mentre in un angolo il servitore Paolo sta riempiendo di biancheria e vestiti un baule da viaggio, paron Lunardo declama, rivolto al pubblico: «Chi vuoi figurare nel mondo, conviene che faccia quel che fanno gli altri», (da "Le manie della villeggiatura", di Carlo Goldoni)
La commedia continua. Ai giorni nostri, e dalle nostre parti, il palcoscenico è quanto mai affollato. Lo stesso dicasi per platea e loggione. Presi d'assalto -si direbbe- da una marea di gente che ci tiene, a figurare nel mondo. Programma, recita e copione restano invariati, nel tempo e nei luoghi. Ma qui, qui al teatro «Italia», oggi il cast risulta particolarmente ricco. Vi si esibiscono fantasisti professionali e dilettanti liberali, compagnie di ex-comunisti e di post-fascisti, vedove allegre e figli di NN, orfani di idee e fu-democristiani, già-socialisti e pluriequilibristi: una sequela di personaggi d'ogni ordine, grado e varia umanità - tutta impegnata da attrice o da comparsa in uno show, dove si fa e si conviene (e conviene che si faccia) quel che fanno gli altri...
Ora dunque che -a destra e a sinistra, in alto e in basso- è tutto un tesser di lodi al privato e al mercato; ora che l'inno alla libertà d'impresa si fa corale; ora che il magnificat si leva solenne dai quattro punti cardinali verso il dio capitale; ora (dicevamo) che tutti e ciascuno si ritrovano finalmente in mistica comunione con l'America e il suo Dollaro divino - vediamo di scoprirne qualcosa, delle misteriose e appassionanti ragioni per cui «non possiamo non dirci liberali».

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Con l'aiuto dell'OCSE, ad esempio. La quale ci svela che il prossimo anno avremo, per i Paesi industrializzati, un trend economico del +2,7%, ossia oltre il doppio dello sviluppo medio nell'ultimo triennio! Una prospettiva affascinante. Certo, l'incremento di cui sopra non significa ci si debba attendere analoga crescita in campo occupazionale, per dirne una. Anzi. Oppure, che quel due-virgola-sette in più comporti un miglioramento effettivo nella cosiddetta qualità della vita, chessò?, a riguardo dell'inquinamento... anzi, anzi. Ma che importa? A fronte della gaudiosa espansione di merci, consumi e ricchezze, che potrà mai essere una qualche persistenza di fattori di squilibrio o di ritardo? Il darwinismo sociale reclama le sue vittorie. E le sue vittime - fra i deboli, i marginali, gli sconfitti. E che dunque significherà, fra tanto radioso benessere, il decremento nelle aree di maggior sviluppo dei non-drogati, dei non-suicidi, dei non-alcoolizzati? Cosa conteranno mai certi numeri, tipo quelli che ci riferiscono delle 250 città d'America (:USA), dove vige felicemente il coprifuoco per teenagers!

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II futuro, insomma, si presenta ugualmente (ma non per tutti) roseo. Di un bel rosa uniforme. L'annuncio urbi et orbi è di Bill Clinton, che da Washington (una delle 250 felici città, nonché faro di civiltà universale - P.S.) fa sapere che la libertà è ovunque in marcia, e si appresta a trionfare anche nei Paesi democraticamente più arretrati (grazie al FMI, all'ONU, al GATT ecc. - e con uso facoltativo dei marines e di alleati nazionali). Prepariamoci a sventolare, reverenti e commossi, le nostre bandiere a stelle e strisce.
I motivi di commossa partecipazione proseguono.
Se Maastricht ha «segnato la fine degli egoismi autarchici»; se la Banca Mondiale già si è prenotata per inaugurare il Modello Unico allorché il campo, finalmente sgombro da soffocanti protezionismi, si aprirà alla libera concorrenza internazionale; se il "Business Week" di New York ha profetato che nei prossimi anni, laddove più rapido è stato l'adeguamento alle leggi di mercato (Brasile, Cina, Messico, Russia), maggiori saranno i tassi di crescita - ebbene, ciò sta a dire che le prospettive sono intensamente rosee. Anche per quel miliardo e mezzo di grigi individui sinora alquanto trascurati dal Progresso.
In attesa dunque della felicità per tutti, possiamo al momento scorgerne i prodromi. E pregustare i benefici planetari prossimi venturi, con l'aiuto di accorte e sagaci letture dei reportages provenienti dall'ex-Unione Sovietica.
Il caso-Russia, in particolare, credo possa considerarsi paradigmatico dell'intera evoluzione verso il nuovo ordine mondiale. Dirò di più: quella russa è divenuta in questi ultimissimi anni una società-laboratorio, da studiare, delle genesi e dello sviluppo del liberismo moderno. Nella ex-Patria del Socialismo, infatti, convivono tre distinte forme allo stato puro di capitalismo. Una prima, costituita e formata dalla vecchia burocrazia sovietica che gestiva (e gestisce) l'ex-industria di Stato; una seconda, di stampo più prettamente delinquenziale, si origina dal «classico» sfruttamento della prostituzione e/o dal (meno classico, ma ormai «tradizionale») commercio del mercato nero e da altre attività similarmente illegali, ed ha generato una miriade di piccole e medie imprese che si reggono sull'evasione fiscale e sui sottosalari. Concludendo: chi con l'accaparramento delle pubbliche risorse, chi con metodi più sbrigativamente manageriali, chi frodando e sfruttando, ciascuno di questi tre fattori vanno insieme a formare le basi e le strutture della società liberale avanzata.
Ciò, dopo tutto, non coincide forse con la famosa «fase suprema» del comunismo, allorquando si sarebbe superata la lotta di classe e sarebbero scomparse, con le vecchie antinomie politiche, le obsolete differenze nazionali e religiose?! Solo che il vecchio Marx è incappato -come dire?- nell'eterogenesi dei fini, nel senso che la società dell'oro (futura) sembra dar luogo ad una sempre più libera espansione delle ricchezze, al Mercato quale supremo regolatore dei conflitti, alla competizione economica senza freni né vincoli né regole... E dunque altro che «la politica è il nostro destino»! Come diceva l'esule di S. Elena, lo sconfitto di Waterloo.
Ecco un altro «condannato dalla storia»! - direbbe qualcuno, forte anche del fatto che la politica si fa ora esclusivamente in funzione dell'economia; al più in base o all'insegna della buona amministrazione. È qui, nella svestizione della politica, la fonte prima della deriva plebiscitaria: il popolo torna ad essere plebe, massa di manovra per ottenere il consenso. Un consenso surrettizio, basato non già su programmi, idee o (addirittura) ideali, bensì raggiunto tramite un prodotto che si sa vendere. Ed eccole, le campagne elettorali che volteggiano sul vuoto, ecco i partiti telegenici, ecco i candidati virtuali...
La spoliticizzazione delle masse -per parafrasare E. Mosse- operata dal liberalismo ha segnato qui in Italia (tale almeno la mia chiave di lettura delle più recenti competizioni elettorali), dapprima la vittoria del centrosinistra, che disponeva di candidati amministrativamente e burocraticamente più collaudati ed affidabili; indi -a distanza di un mese- allorquando la sovranità popolare s'è sentita minacciata nella propria prerogativa di zapping, ecco giungere la vittoria del centrodestra.

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Così van le cose al mondo, e segnatamente in Italia.
E rimanendo alle faccende private, che sarebbero poi quelle del teatro-azienda, vi è d'aggiungere che pur in presenza della «ripresa» (indubitabile), restiamo però «sotto osservazione». Di chi? Di (curiosi) investitori internazionali. Occorre quindi comportarsi bene, se non vogliamo dispiacere e deludere Lorsignori.
Sarà dunque in quanto mosso da patria sollecitudine; sarà per non far imbronciare quei burberi benefattori, quei bizzarri filantropi d'Oltreconfine, che il PDS sin da febbraio u.s. s'è preoccupato di schierarsi per «l'abbandono del mito della costruzione di una società altra», candidandosi così al ruolo di «variante interna del capitalismo». Di altri neo-convertiti di segno opposto, ma anch'essi fulminati sulla via di Wall Street, ed aspiranti anch'essi ad una sorta di «via nazionale» al mondialismo, già si è detto, dedicando loro in altre occasioni sin troppo spazio: i vari Arlecchino, Tatarella, Pulcinella, Fisichella ecc. già occupano dignitosamente un loro spazio. E non solo nel teatrino delle marionette.

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Perché insistere, allora? Ed a quali valori «altri», diversi da quelli di borsa, fare appello? A quale alternativa far riferimento, se tutti si misurano in denaro, se tutto si compie nell'interesse, con la transazione, col compromesso?

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Già, morire liberali. In un modo o nell'altro si muore, prima o poi.
Eppoi, «Quali sono le domande importanti nella vita?». Stando alla DivalSim: «Ma posso proteggere il mio risparmio?», «Ma potrò mantenere il mio tenore di vita?», «Ma come proteggere la mia salute?».
Così leggo nel Programma Investimenti distribuito dalla Ras.
... Eppure, alla faccia di tali sicofanti e in barba ai tanti paraninfi, parapolitici, paraeconomici, parassicurativi, le domande (e le risposte) sulla vita sono davvero «altre».

Alberto Ostidich

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