«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 4 - 30 Luglio 1995

 

 

i dibattiti

Disagio e continuità nella Destra


Proprio nel momento in cui, dopo un cinquantennio di isolamento e di immobilità, il gioco politico si è fatto più aperto per la Destra italiana -o per quelle forze che così si definiscono-, lo scontento e l'inquietudine si avvertono, profondi e diffusi, anche se non sempre espressi, nelle file degli antichi aderenti al Movimento Sociale - Destra nazionale. Sono questi che talvolta ripiegano su sé stessi, incapaci di far rigermogliare il proprio originale pensiero, o è l'operazione «moderata» troppo povera di contenuti?
A quello scontento e a quella inquietudine non potrebbe esservi risposta se il collegamento con altre forze e la condivisione del potere venissero visti da Alleanza nazionale soltanto dall'esterno, come prodotto di una iniziativa d'altri, di transfughi del vecchio centro in crisi, disposti ad offrire una via stretta e obbligata ad una destra definita, appunto in negativo, come moderatismo.
La risposta non può darcela un opportunismo che rischierebbe di confonderci con ogni sorta di riciclati di confuse origini e incerte opinioni. Ma, d'altra parte, nemmeno la custodia del fuoco sacro può ridurci ad una disperata battaglia di retroguardia. Quello scontento e quella inquietudine possono essere fertili di sviluppi positivi solo se rivissuti dall'interno, e se l'operazione di apertura in corso la si vede come sbocco e conferma di un crescente, autonomo consenso. Lo sconvolgimento degli steccati partitici, originato dalla caduta del Muro di Berlino, mentre ci apre una nuova strada, non può imporci una pura e semplice ammissione di colpa, condizione per ottenere un reticente e forse precario perdono.
Non siamo reprobi cui venga concesso di salire sulla barca della democrazia purché lascino dietro di sé ogni memoria e portino in salvo solo un numero da censire. La liquidazione del patrimonio di pensiero e di azione del fascismo non è attuabile e i suicidi politici non rendono.
Quello che ci si propone non può che essere un franco e dignitoso riconoscimento di reciproche responsabilità storiche, primo necessario passo per la ripresa di una produzione ideale, che partendo dalle posizioni del passato ci consenta di trovare nuove risposte ai bisogni attuali degli italiani. Non cerchiamo assoluzioni plenarie. Vogliamo riannodare i fili spezzati di tante esperienze nate non dall'arbitrio di una tirannia, come troppo spesso si vorrebbe, ma dalla realtà della nazione, con le sue virtù e con le sue debolezze.
L'idea difesa efficacemente dal Movimento Sociale durante il lungo ostracismo può e deve sopravvivere, a viso aperto, alla omologazione democratica. D'altronde, alla legittimità storica si somma l'opportunità del momento: se il destino politico italiano è nel sistema maggioritario e nel bipolarismo ciò implica che le ali estreme finiranno fatalmente per svolgere un ruolo determinante nella caratterizzazione dei due schieramenti, non meno che nel computo dei voti, come Rifondazione comunista insegna.
Quelle contrapposizioni -più apparenti che reali-, tra fascismo e democrazia, fra la vocazione sociale del fascismo e gli obiettivi iscritti nella bandiera del Polo -liberismo economico, mercato, capitalismo-, fra una guerra e la guerra contraria, non possono essere semplicemente accantonate nella memoria storica, debbono essere affrontate con la volontà di risolverle e di superarle con posizioni insieme fedeli al passato e valide nel presente.
La destra, in Italia, in questi ultimi decenni, si è venuta identificando con il Movimento Sociale, sia per responsabilità delle altre forze politiche, che come tale l'hanno isolata e combattuta, sia per scelta propria, essendosi il Movimento autodefinito Destra nazionale. Il Movimento sociale è stato certamente e fortemente destra, per quanto attiene alla difesa dell'unità e identità nazionale, della memoria storica, delle tradizioni, dei valori familiari e religiosi, di un'alta concezione dello Stato, ma è stato anche sinistra, per il suo carattere sociale, in quanto ha concepito una società dinamica di italiani a pieno e pari titolo, non più divisa in classi, popolo cosciente di sé e libero, cioè nazione.
Infatti, l'altra destra, quella della conservazione di una rigida disuguaglianza economica, che non ha alcun bisogno di ulteriori aperture, perché sul potere ha sempre influito e influisce, è sempre stata agli antipodi del Movimento Sociale, forse la più ostile ed estranea ad esso fra le forze in campo.
La sintesi nazionale di destra e sinistra, proprio per questo suo carattere nazionale, in conseguenza dell'esito lacerante dell'ultimo conflitto, è stata tenuta tanto a lungo fuori dal potere. Ma non vi è altra tradizione politica in Italia più radicata nella nostra cultura, più alta e idonea a rappresentare una larga parte, della società italiana.
Certo, a quanti restano legati alla cultura del Movimento Sociale si pongono difficili passi da compiere. L'iniziativa del rinnovamento non può essere loro esclusiva. Essa va condivisa, non solo elettoralmente e programmaticamente, ma anche ideologicamente, con istanze più marcatamente liberali e libertarie espresse dalla parte più attiva della società italiana, il ceto medio dei piccoli e medi imprenditori, parte probabilmente più maggioritaria dell'opinione pubblica, via via meglio informata sui progressi dell'economia e della tecnologia, che non a caso guarda ad un imprenditore di successo.
Vi sono nella cultura del Movimento sociale dei valori che possono assicurare il fondamento più solido all'indistinto liberalismo del Polo, con le sue vacillanti frange cattoliche. Né libertà politica né libertà economica né democrazia sono possibili per uomini che non hanno la nazione come il valore più alto. Questo è il legato vivente del Risorgimento, che attraverso il fascismo e il Movimento Sociale giunge ad Alleanza Nazionale e al Polo delle libertà.
Pensare che noi abbiamo subìto solo in seguito alla sconfitta i princìpi della democrazia, che non conoscevamo e che avversavamo, è sciocco e umiliante. L'accettazione senza riserve del metodo democratico è l'aspetto estrinseco aggiornato di un intrinseco carattere popolare che fu del fascismo, nell'idea stessa di un movimento spontaneo di massa, realizzata nel lungo tempo del consenso. Il primato riconosciuto alla libertà altro non è che la continuazione della lotta degli italiani contro l'oppressione del materialismo marx-leninista, funzione liberatrice che sta nella storia come movente ed effetto fondamentali del fascismo, mentre i vincoli alla libertà ne sono il cascame strumentale. Funzione liberatrice continuata nella Conciliazione, con la quale il fascismo cercò di realizzare -e ciò non avrebbe potuto fare uno stato debole-, la confluenza dei cattolici nell'unità nazionale.
Decenni di pseudodemocrazia democristiana, culminati nel rovesciamento dei risultati elettorali del '94, sono la dimostrazione di quanto siano ancora deboli in Italia, dopo decenni di vano parlamentarismo, le basi della democrazia. Amara sorpresa quella del Polo, che pur avendo posto in cima ai propri obiettivi i valori cristiani e cattolici e pur avendo inseguito inafferrabili schiere popolari, scopre di esser stato sconfitto dal massiccio e palese appoggio del clero ad una cosiddetta sinistra, galleria di perplessità democratiche sulle quali campeggia uno stalinismo senza pentimenti. Sottile, ma deviante la ricerca di giustificazione in una vocazione cripto-rivoluzionaria terzomondista che caratterizzerebbe il clero italiano, quasi che questo potesse essere a tal punto incurante del ruolo della Chiesa cattolica nel presente e nel futuro della società italiana ed europea. Tutto serve, pur di non aprire gli occhi sul vecchio cinico gioco del potere clericale, che in questi giorni, in modo più dichiarato e dirompente che nel passato, si è posto in alternativa allo stato nazionale.

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Se la nazione è la via per la libertà politica, lo è anche per la libertà economica. Vi sono fra noi coloro che accettano mal volentieri l'economia di mercato e il neo-capitalismo e si appellano alla socializzazione, ad un corporativismo tentato e non realizzato e a lontane origini socialistiche. Ma la caratteristica precipua del fascismo non è quella di un socialismo mancato. Se Mussolini, nei momenti in cui poteva decidere, si fermò ai primi passi su quella via, ciò non fu per errore né per debolezza, ma per intuito delle vere necessità e del grado di sviluppo della società italiana. Il tratto di inconfondibile originalità del movimento -quello che ha determinato il riprodursi in varie forme nel mondo-, sta nell'attivismo-spiritualismo, che tende a realizzare popolo e individuo nel continuo evolversi della nazione; una società nella quale le classi perdono valore, che la tecnologia ha arricchito oltre le soglie del bisogno, per il cui sviluppo la competizione -che fa emergere, a tutti i livelli e in tutti i campi, nel più generale senso umano, l'imprenditore-, non è meno essenziale della tutela dei deboli.
Il fascismo è spiritualismo, nella tradizione rinascimentale italiana: non è uomo chi non produce uno sforzo per capitalizzare, non importa se nella conoscenza, nell'abilità o nei mezzi di produzione. Non è la tecnologia che, diminuendo la fatica, meccanicamente possa sempre elevare la posizione del lavoratore dipendente: in molti casi lo dequalifica; il problema esistenziale non muta con il progresso materiale, la differenza e la gara delle capacità e dei ruoli fra uomo e uomo resta la prima forza vitale. Il rifiuto dell'egoismo del capitalista sfruttatore, non giustifica alcun intacco o confusione nella responsabilità indivisibile e indelegabile dell'imprenditore. In ogni lavoratore italiano è un italiano, in ogni investimento un potenziamento dell'individuo e della nazione. In definitiva, ciò che conta è la prova dell'uomo singolo e così la prova della nazione di fronte al proprio destino. Le differenze fra uomo e uomo debbono essere ridotte, ma vi sono accumulazioni e selezioni che non si possono disperdere o trascurare senza danno per la società nazionale nel suo insieme.
Lo studio di Gramsci e di Gobetti -in ambedue dei quali dalla nostra parte è stata di recente messa in luce la forte e vigile coscienza nazionale-, ma anche una rinnovata, più aperta attenzione ai contributi critici di tanti altri esponenti del liberalismo, dell'azionismo e del socialismo, possono costituire il ponte che ci farà scavalcare il fossato tra fascismo e antifascismo, ed anche il varco che può dare nuovo slancio alle idee del corporativismo e della socializzazione, sottraendole alla attuale minaccia di schiacciamento fra il liberismo degli alleati del Polo e del rivoluzionarismo marxista presente nello schieramento avversario.
Questi sforzi daranno frutto solo se riuscirà a prevalere fra noi la convinzione che non v'è ideologia, per quanto elaborata ed elevata, che valga la semplice e nuda idea e fedeltà di nazione.
Il dibattito sul fascismo ha ancora una rilevanza politica del tutto particolare in Italia, dove il movimento ha avuto origine. La civiltà nostra ci ha trattenuto dal commettere delitti imperdonabili, ma ha tolto convinzione ed efficacia ad ogni nostra azione. Nel dopoguerra, come i tedeschi e i giapponesi, anche noi italiani abbiamo riconquistato -sebbene in minor misura- una importante posizione economica nel mondo. E tuttavia continuiamo a soffrire di una impotenza e quasi nullità politica che ci impone di discutere e ridiscutere le ragioni di quel fascismo che, nonostante le sue grandi colpe e debolezze resta, il solo tentativo serio di «fare gli italiani». Lo spiritualismo fascista gli altri lo praticano. Noi, talvolta, sentiamo di doverlo enunciare. Andiamo a Londra, a Parigi, a Washington a chiedere benedizioni e spesso vediamo divieti anche là dove non esistono o dove basterebbe un po' di fermezza per superare ogni residua opposizione e riserva. Alla celebrazione del cinquantennio dalla fine del conflitto mondiale vincitori e vinti salgono sullo stesso podio con lo stesso intatto orgoglio, solo l'Italia continua ad esibire il moncherino della guerra civile.
Ma di fatto -al di là della distorsione ideologica e propagandistica-, la contrapposizione fascismo-antifascismo, come non è spenta in Italia, così non lo è nemmeno in campo internazionale. Ai nodi, che si inaspriscono e diventano esplosivi, nel rapporto fra paesi ricchi e paesi arretrati, fra Occidente e Islam, non hanno dato risposta né la rivolta marxista, né il liberismo consumista, né tanto meno lo sfruttamento che ne risulta. Il mondialismo di facciata dell'ONU dimostra ogni giorno di più la sua debolezza e inadeguatezza di fronte alle crisi e guerre locali. Dalle quali emerge intatta, con vano scandalo della cricca internazionalista, la forza delle nazioni.
L'aumento di potenza dei tedeschi, dei giapponesi, dei russi, dei cinesi nei confronti dell'egemonia degli Stati Uniti riavvia i rapporti internazionali bilaterali e crea le basi di nuovi equilibri. I russi hanno disinvoltamente abbandonato gran parte delle rivendicazioni ideologiche del conflitto e attualmente sperimentano un sistema politico economico molto simile al fascismo. La Cina nasconde i propri massacri con il concreto progresso economico e sociale di un fascismo abilmente realizzato. Tedeschi e giapponesi non hanno finora dato importanza alla revisione storica, non solo perché la forza della propria economia ha loro consentito ugualmente di ricuperare tutto il proprio peso internazionale, ma anche perché l'unità delle loro comunità nazionali, già dimostrata nella guerra, si riproduce nell'attuale assetto politico, con continuità e senza importanti esclusioni: alla destra come alla sinistra hanno relegato solo estremismi chiusi ad ogni tentativo di confronto e di evoluzione.
Ciò che conta è la sostanziale compattezza della volontà popolare: che questa si esprima in una disciplina accettata o nella libertà di voto, non costituisce una differenza sostanziale. In Francia, la prevalenza delle destre e in particolare la conferma elettorale del Fronte Nazionale indica, ancor più esplicitamente che in Germania e in Inghilterra, quale importanza sta assumendo la difesa delle identità nazionali anche in Europa e la costruzione di una identità europea. Il ruolo decisivo svolto dalla destra nazionale e sociale nel mondo ispanico ha trovato in questi giorni nuova conferma nella rinascita argentina.
Solo i puritani anglosassoni, pur subendo il prepotente accrescimento economico degli ex-nemici, non hanno consentito se non una revisione marginale del giudizio politico sulle responsabilità della guerra; così come i crimini di guerra sono solo quelli degli altri, la libertà dei popoli si esprime solo mediante un determinato rituale democratico, frutto delle loro proprie esperienze. Poco conto tengono dei ritardi storici di altri popoli, del permanere di forze organizzate che, come da noi, si pongono in alternativa allo stato e contrastano l'unità nazionale.

Cesare Pettinato

L'amico Pettinato si è visto rifiutare, da "Il Secolo", il «pezzo» che pubblichiamo. Probabilmente, in buona fede, aveva l'intenzione di aprire un dibattito. Lo faremo noi. Perché, caro Pettinato, non siamo affatto in sintonia con il tuo argomentare. Il fascismo era tutto ciò che non è stato. Infatti, adattandosi alle situazioni contingenti, non solo perse la sua carica rivoluzionaria, ma fece mancare all'Europa la possibilità di incamminarsi verso una mèta ambita da secoli: la giustizia sociale.
Penso che su questo argomento potranno dire la loro gli amici Donnici, Errico e Ostidich.

a.c.

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