i dibattiti
Disagio
e continuità nella Destra
Proprio nel momento in cui, dopo un cinquantennio di isolamento e di immobilità,
il gioco politico si è fatto più aperto per la Destra italiana -o per quelle
forze che così si definiscono-, lo scontento e l'inquietudine si avvertono,
profondi e diffusi, anche se non sempre espressi, nelle file degli antichi
aderenti al Movimento Sociale - Destra nazionale. Sono questi che talvolta
ripiegano su sé stessi, incapaci di far rigermogliare il proprio originale
pensiero, o è l'operazione «moderata» troppo povera di contenuti?
A quello scontento e a quella inquietudine non potrebbe esservi risposta se il
collegamento con altre forze e la condivisione del potere venissero visti da
Alleanza nazionale soltanto dall'esterno, come prodotto di una iniziativa
d'altri, di transfughi del vecchio centro in crisi, disposti ad offrire una via
stretta e obbligata ad una destra definita, appunto in negativo, come
moderatismo.
La risposta non può darcela un opportunismo che rischierebbe di confonderci con
ogni sorta di riciclati di confuse origini e incerte opinioni. Ma, d'altra
parte, nemmeno la custodia del fuoco sacro può ridurci ad una disperata
battaglia di retroguardia. Quello scontento e quella inquietudine possono essere
fertili di sviluppi positivi solo se rivissuti dall'interno, e se l'operazione
di apertura in corso la si vede come sbocco e conferma di un crescente, autonomo
consenso. Lo sconvolgimento degli steccati partitici, originato dalla caduta del
Muro di Berlino, mentre ci apre una nuova strada, non può imporci una pura e
semplice ammissione di colpa, condizione per ottenere un reticente e forse
precario perdono.
Non siamo reprobi cui venga concesso di salire sulla barca della democrazia
purché lascino dietro di sé ogni memoria e portino in salvo solo un numero da
censire. La liquidazione del patrimonio di pensiero e di azione del fascismo non
è attuabile e i suicidi politici non rendono.
Quello che ci si propone non può che essere un franco e dignitoso riconoscimento
di reciproche responsabilità storiche, primo necessario passo per la ripresa di
una produzione ideale, che partendo dalle posizioni del passato ci consenta di
trovare nuove risposte ai bisogni attuali degli italiani. Non cerchiamo
assoluzioni plenarie. Vogliamo riannodare i fili spezzati di tante esperienze
nate non dall'arbitrio di una tirannia, come troppo spesso si vorrebbe, ma dalla
realtà della nazione, con le sue virtù e con le sue debolezze.
L'idea difesa efficacemente dal Movimento Sociale durante il lungo ostracismo
può e deve sopravvivere, a viso aperto, alla omologazione democratica.
D'altronde, alla legittimità storica si somma l'opportunità del momento: se il
destino politico italiano è nel sistema maggioritario e nel bipolarismo ciò
implica che le ali estreme finiranno fatalmente per svolgere un ruolo
determinante nella caratterizzazione dei due schieramenti, non meno che nel
computo dei voti, come Rifondazione comunista insegna.
Quelle contrapposizioni -più apparenti che reali-, tra fascismo e democrazia,
fra la vocazione sociale del fascismo e gli obiettivi iscritti nella bandiera
del Polo -liberismo economico, mercato, capitalismo-, fra una guerra e la guerra
contraria, non possono essere semplicemente accantonate nella memoria storica,
debbono essere affrontate con la volontà di risolverle e di superarle con
posizioni insieme fedeli al passato e valide nel presente.
La destra, in Italia, in questi ultimi decenni, si è venuta identificando con il
Movimento Sociale, sia per responsabilità delle altre forze politiche, che come
tale l'hanno isolata e combattuta, sia per scelta propria, essendosi il
Movimento autodefinito Destra nazionale. Il Movimento sociale è stato certamente
e fortemente destra, per quanto attiene alla difesa dell'unità e identità
nazionale, della memoria storica, delle tradizioni, dei valori familiari e
religiosi, di un'alta concezione dello Stato, ma è stato anche sinistra, per il
suo carattere sociale, in quanto ha concepito una società dinamica di italiani a
pieno e pari titolo, non più divisa in classi, popolo cosciente di sé e libero,
cioè nazione.
Infatti, l'altra destra, quella della conservazione di una rigida disuguaglianza
economica, che non ha alcun bisogno di ulteriori aperture, perché sul potere ha
sempre influito e influisce, è sempre stata agli antipodi del Movimento Sociale,
forse la più ostile ed estranea ad esso fra le forze in campo.
La sintesi nazionale di destra e sinistra, proprio per questo suo carattere
nazionale, in conseguenza dell'esito lacerante dell'ultimo conflitto, è stata
tenuta tanto a lungo fuori dal potere. Ma non vi è altra tradizione politica in
Italia più radicata nella nostra cultura, più alta e idonea a rappresentare una
larga parte, della società italiana.
Certo, a quanti restano legati alla cultura del Movimento Sociale si pongono
difficili passi da compiere. L'iniziativa del rinnovamento non può essere loro
esclusiva. Essa va condivisa, non solo elettoralmente e programmaticamente, ma
anche ideologicamente, con istanze più marcatamente liberali e libertarie
espresse dalla parte più attiva della società italiana, il ceto medio dei
piccoli e medi imprenditori, parte probabilmente più maggioritaria dell'opinione
pubblica, via via meglio informata sui progressi dell'economia e della
tecnologia, che non a caso guarda ad un imprenditore di successo.
Vi sono nella cultura del Movimento sociale dei valori che possono assicurare il
fondamento più solido all'indistinto liberalismo del Polo, con le sue vacillanti
frange cattoliche. Né libertà politica né libertà economica né democrazia sono
possibili per uomini che non hanno la nazione come il valore più alto. Questo è
il legato vivente del Risorgimento, che attraverso il fascismo e il Movimento
Sociale giunge ad Alleanza Nazionale e al Polo delle libertà.
Pensare che noi abbiamo subìto solo in seguito alla sconfitta i princìpi della
democrazia, che non conoscevamo e che avversavamo, è sciocco e umiliante.
L'accettazione senza riserve del metodo democratico è l'aspetto estrinseco
aggiornato di un intrinseco carattere popolare che fu del fascismo, nell'idea
stessa di un movimento spontaneo di massa, realizzata nel lungo tempo del
consenso. Il primato riconosciuto alla libertà altro non è che la continuazione
della lotta degli italiani contro l'oppressione del materialismo marx-leninista,
funzione liberatrice che sta nella storia come movente ed effetto fondamentali
del fascismo, mentre i vincoli alla libertà ne sono il cascame strumentale.
Funzione liberatrice continuata nella Conciliazione, con la quale il fascismo
cercò di realizzare -e ciò non avrebbe potuto fare uno stato debole-, la
confluenza dei cattolici nell'unità nazionale.
Decenni di pseudodemocrazia democristiana, culminati nel rovesciamento dei
risultati elettorali del '94, sono la dimostrazione di quanto siano ancora
deboli in Italia, dopo decenni di vano parlamentarismo, le basi della
democrazia. Amara sorpresa quella del Polo, che pur avendo posto in cima ai
propri obiettivi i valori cristiani e cattolici e pur avendo inseguito
inafferrabili schiere popolari, scopre di esser stato sconfitto dal massiccio e
palese appoggio del clero ad una cosiddetta sinistra, galleria di perplessità
democratiche sulle quali campeggia uno stalinismo senza pentimenti. Sottile, ma
deviante la ricerca di giustificazione in una vocazione cripto-rivoluzionaria
terzomondista che caratterizzerebbe il clero italiano, quasi che questo potesse
essere a tal punto incurante del ruolo della Chiesa cattolica nel presente e nel
futuro della società italiana ed europea. Tutto serve, pur di non aprire gli
occhi sul vecchio cinico gioco del potere clericale, che in questi giorni, in
modo più dichiarato e dirompente che nel passato, si è posto in alternativa allo
stato nazionale.
* * *
Se la nazione è la via per la libertà politica, lo è anche per la libertà
economica. Vi sono fra noi coloro che accettano mal volentieri l'economia di
mercato e il neo-capitalismo e si appellano alla socializzazione, ad un
corporativismo tentato e non realizzato e a lontane origini socialistiche. Ma la
caratteristica precipua del fascismo non è quella di un socialismo mancato. Se
Mussolini, nei momenti in cui poteva decidere, si fermò ai primi passi su quella
via, ciò non fu per errore né per debolezza, ma per intuito delle vere necessità
e del grado di sviluppo della società italiana. Il tratto di inconfondibile
originalità del movimento -quello che ha determinato il riprodursi in varie
forme nel mondo-, sta nell'attivismo-spiritualismo, che tende a realizzare
popolo e individuo nel continuo evolversi della nazione; una società nella quale
le classi perdono valore, che la tecnologia ha arricchito oltre le soglie del
bisogno, per il cui sviluppo la competizione -che fa emergere, a tutti i livelli
e in tutti i campi, nel più generale senso umano, l'imprenditore-, non è meno
essenziale della tutela dei deboli.
Il fascismo è spiritualismo, nella tradizione rinascimentale italiana: non è
uomo chi non produce uno sforzo per capitalizzare, non importa se nella
conoscenza, nell'abilità o nei mezzi di produzione. Non è la tecnologia che,
diminuendo la fatica, meccanicamente possa sempre elevare la posizione del
lavoratore dipendente: in molti casi lo dequalifica; il problema esistenziale
non muta con il progresso materiale, la differenza e la gara delle capacità e
dei ruoli fra uomo e uomo resta la prima forza vitale. Il rifiuto dell'egoismo
del capitalista sfruttatore, non giustifica alcun intacco o confusione nella
responsabilità indivisibile e indelegabile dell'imprenditore. In ogni lavoratore
italiano è un italiano, in ogni investimento un potenziamento dell'individuo e
della nazione. In definitiva, ciò che conta è la prova dell'uomo singolo e così
la prova della nazione di fronte al proprio destino. Le differenze fra uomo e
uomo debbono essere ridotte, ma vi sono accumulazioni e selezioni che non si
possono disperdere o trascurare senza danno per la società nazionale nel suo
insieme.
Lo studio di Gramsci e di Gobetti -in ambedue dei quali dalla nostra parte è
stata di recente messa in luce la forte e vigile coscienza nazionale-, ma anche
una rinnovata, più aperta attenzione ai contributi critici di tanti altri
esponenti del liberalismo, dell'azionismo e del socialismo, possono costituire
il ponte che ci farà scavalcare il fossato tra fascismo e antifascismo, ed anche
il varco che può dare nuovo slancio alle idee del corporativismo e della
socializzazione, sottraendole alla attuale minaccia di schiacciamento fra il
liberismo degli alleati del Polo e del rivoluzionarismo marxista presente nello
schieramento avversario.
Questi sforzi daranno frutto solo se riuscirà a prevalere fra noi la convinzione
che non v'è ideologia, per quanto elaborata ed elevata, che valga la semplice e
nuda idea e fedeltà di nazione.
Il dibattito sul fascismo ha ancora una rilevanza politica del tutto particolare
in Italia, dove il movimento ha avuto origine. La civiltà nostra ci ha
trattenuto dal commettere delitti imperdonabili, ma ha tolto convinzione ed
efficacia ad ogni nostra azione. Nel dopoguerra, come i tedeschi e i giapponesi,
anche noi italiani abbiamo riconquistato -sebbene in minor misura- una
importante posizione economica nel mondo. E tuttavia continuiamo a soffrire di
una impotenza e quasi nullità politica che ci impone di discutere e ridiscutere
le ragioni di quel fascismo che, nonostante le sue grandi colpe e debolezze
resta, il solo tentativo serio di «fare gli italiani». Lo spiritualismo fascista
gli altri lo praticano. Noi, talvolta, sentiamo di doverlo enunciare. Andiamo a
Londra, a Parigi, a Washington a chiedere benedizioni e spesso vediamo divieti
anche là dove non esistono o dove basterebbe un po' di fermezza per superare
ogni residua opposizione e riserva. Alla celebrazione del cinquantennio dalla
fine del conflitto mondiale vincitori e vinti salgono sullo stesso podio con lo
stesso intatto orgoglio, solo l'Italia continua ad esibire il moncherino della
guerra civile.
Ma di fatto -al di là della distorsione ideologica e propagandistica-, la
contrapposizione fascismo-antifascismo, come non è spenta in Italia, così non lo
è nemmeno in campo internazionale. Ai nodi, che si inaspriscono e diventano
esplosivi, nel rapporto fra paesi ricchi e paesi arretrati, fra Occidente e
Islam, non hanno dato risposta né la rivolta marxista, né il liberismo
consumista, né tanto meno lo sfruttamento che ne risulta. Il mondialismo di
facciata dell'ONU dimostra ogni giorno di più la sua debolezza e inadeguatezza
di fronte alle crisi e guerre locali. Dalle quali emerge intatta, con vano
scandalo della cricca internazionalista, la forza delle nazioni.
L'aumento di potenza dei tedeschi, dei giapponesi, dei russi, dei cinesi nei
confronti dell'egemonia degli Stati Uniti riavvia i rapporti internazionali
bilaterali e crea le basi di nuovi equilibri. I russi hanno disinvoltamente
abbandonato gran parte delle rivendicazioni ideologiche del conflitto e
attualmente sperimentano un sistema politico economico molto simile al fascismo.
La Cina nasconde i propri massacri con il concreto progresso economico e sociale
di un fascismo abilmente realizzato. Tedeschi e giapponesi non hanno finora dato
importanza alla revisione storica, non solo perché la forza della propria
economia ha loro consentito ugualmente di ricuperare tutto il proprio peso
internazionale, ma anche perché l'unità delle loro comunità nazionali, già
dimostrata nella guerra, si riproduce nell'attuale assetto politico, con
continuità e senza importanti esclusioni: alla destra come alla sinistra hanno
relegato solo estremismi chiusi ad ogni tentativo di confronto e di evoluzione.
Ciò che conta è la sostanziale compattezza della volontà popolare: che questa si
esprima in una disciplina accettata o nella libertà di voto, non costituisce una
differenza sostanziale. In Francia, la prevalenza delle destre e in particolare
la conferma elettorale del Fronte Nazionale indica, ancor più esplicitamente che
in Germania e in Inghilterra, quale importanza sta assumendo la difesa delle
identità nazionali anche in Europa e la costruzione di una identità europea. Il
ruolo decisivo svolto dalla destra nazionale e sociale nel mondo ispanico ha
trovato in questi giorni nuova conferma nella rinascita argentina.
Solo i puritani anglosassoni, pur subendo il prepotente accrescimento economico
degli ex-nemici, non hanno consentito se non una revisione marginale del
giudizio politico sulle responsabilità della guerra; così come i crimini di
guerra sono solo quelli degli altri, la libertà dei popoli si esprime solo
mediante un determinato rituale democratico, frutto delle loro proprie
esperienze. Poco conto tengono dei ritardi storici di altri popoli, del
permanere di forze organizzate che, come da noi, si pongono in alternativa allo
stato e contrastano l'unità nazionale.
Cesare Pettinato
L'amico Pettinato si è visto
rifiutare, da "Il Secolo", il «pezzo» che pubblichiamo. Probabilmente, in buona
fede, aveva l'intenzione di aprire un dibattito. Lo faremo noi. Perché, caro
Pettinato, non siamo affatto in sintonia con il tuo argomentare. Il fascismo era
tutto ciò che non è stato. Infatti, adattandosi alle situazioni contingenti, non
solo perse la sua carica rivoluzionaria, ma fece mancare all'Europa la
possibilità di incamminarsi verso una mèta ambita da secoli: la giustizia
sociale.
Penso che su questo argomento potranno dire la loro gli amici Donnici, Errico e
Ostidich.
a.c.
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