«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

A proposito di una emarginazione annunciata

«Pulizia etnica» nella destra: il caso Veneziani e "L'Italia settimanale"


«Un intellettuale di destra epurato dalla destra», così si definisce Marcello Veneziani in una breve, succosa appendice allegata al suo recentissimo saggio "Sinistra e Destra - Risposta a Norberto Bobbio" dove, sotto il titolo "Diario di una destra mancata", espone le fasi salienti della personale ma emblematica vicenda conclusasi con la estromissione da "L'Italia settimanale", ebdomadario da lui ideato, fondato, diretto in concomitanza, suppergiù, con la «resistibile ascesa» di Silvio I da Arcore al soglio di Palazzo Chigi.
Il volume è godibilissimo sotto il duplice profilo stilistico e culturale, ancorché soggetto, nei contenuti fondamentali, al vaglio critico del recensore in sede di analisi e approfondimenti. Come, del resto, tutte le opere del genere.
Diremmo che se un limite viene in evidenza nel "Diario" di Veneziani è da segnalare nella eccessiva concentrazione su quanto a lui individualmente accaduto, il che gli ha impedito di collocarlo nel più vasto contesto di quella specie di «pulizia etnica» posta in essere dall'on. Fini e dalla sua chiocciata già molto tempo prima dell'accesso non al governo -perché nulla e nessuno hanno governato, checché ne vadano dicendo- bensì al potere. Ne hanno fatte, costoro, di tutti i colori: per esempio dall'applicazione della famosa, strombazzatissima (anche a sinistra, purtroppo) «ideologia del mercato» non solo all'economia ma anche all'acquisto di personaggi e personaggetti dell'opposizione interna, traslocati nel campo avversario come sergenti messicani con armi (poche) e pretese (molte), all'occupazione truffaldina del Sindacato Italiano Liberi Scrittori, mobilitato nella più banale e repugnante chiave elettoralistica a sostegno della Alleanza Nazionale, fingendo deliberazioni del suo Esecutivo mai convocato e, quindi, mai avvenute, soprattutto perché da uno statuto che garantisce l'apoliticità di una associazione che potè vantarsi, a tacer d'altre, di presidenze come quella di Italo De Feo e di Dino Del Bo.
E, ancora, come non citare i pesanti tentativi di «normalizzazione» di una CISNaL fattasi - per merito della nuova dirigenza affermatasi dopo i grigi anni del moderatismo destrorso- affascinante aggregazione di lavoratori felicemente segnata dai valori dell'anticonformismo, della autonomia dai governi e dai partiti, della polemica antipartitocratica, della fantasia, della creatività?
Il riferimento è a una organizzazione legittimamente orgogliosa della riscoperta e attualizzazione di cultura sommersa del movimento operaio, quali quelle del sindacalismo rivoluzionario e delle esperienze ed elaborazioni dei sindacati fascisti che suscitando l'interesse perfino del PCI dell'esilio, al punto di indurlo ad affidare a Ruggero Grieco il compito di seguirne le res gestae sulla sua stampa e, anzitutto, su "Stato Operaio".
Denunciamo, poi, la sterilizzazione e, peggio, l'imposizione del silenzio all'Istituto di Studi Corporativi e alla relativa "Rivista di Studi Corporativi", letteralmente abrogati sia per non dare ombra al liberismo selvaggio di Forza Silvio (ormai potenza-guida del sedicente Polo delle Libertà), sia per meglio recitare la ridicola commedia dell'«antifascismo» di Fiuggi. Quasi che il corporativismo avesse avuto i natali in camicia nera e non fosse in grado di vantare fra i suoi teorizzatori e in certo qual modo realizzatori -se non altro a livello di messaggio- un Alceste De Ambris, braccio ideologico di D'Annunzio e compilatore in chiave corporativa della "Carta del Carnaro", morto in Francia durante l'esilio antifascista.
Stranamente, si è proceduto nell'opera di demolizione oltre che di mortificazione totale e, si direbbe, irrimediabile degli strumenti di cultura corporativa in una piatta atmosfera rinunciataria contrassegnata dal funereo silenzio del prof. Gaetano Rasi, presidente dell'ISC e fondatore-direttore della "Rivista", per cui si sarebbe tentati di credere che l'on. Fini sia ormai assurto a tale potenza da consentirsi l'autoritaria comminazione della pena dell'esilio a un Rasi, che, certo, per livello intellettuale e autorevolezza è degno di figurare nell'establishment di quello che -dopo la dichiarazione di fede «antifascista» collettivamente pronunciata nell'assemblea democratichina di Fiuggi- potrebbe a buon diritto aspirarne la componente conservatrice.
Ma il prof. Rasi non è stato messo in castigo dal Fini, un leader che, siamo giusti, è capace di premiare chi sa adeguarsi all'imperativo categorico suo così come egli ha saputo aggregarsi a quello dell'Azzurro Cavaliere di Arcore. Il già pupillo di Almirante, insomma, conosce l'arte di alternare il bastone con la carota. E così troviamo colui che fino a poco tempo fa teorizzava la «rivoluzione corporativa» come la vera «rivoluzione culturale del secolo» -implicitamente sostenendo che quella cinese di Mao fu, per dirla con Totò, una «pinzillacchera» rispetto al cotonato suo rivoluzionarismo- a fiancheggiare l'opzione liberista-maccarthysta di Berlusconi in veste di responsabile della linea politica economica del partito dei Fiuggiaschi.
Tanto è vero che nel sesquipedale documento «ideologico», preparato in occasione della assemblea fondativa di gennaio nata nel clima della «morte delle ideologie», la parola «corporativismo» non esiste, mentre per il resto vi è ospitato tutto e il contrario di tutto.
Caro amico Rasi, le qualità di intellettuale e di charme di cui Madre Natura ti ha generosamente gratificato sono tante e tali da permetterti di aspirare ad un non irrilevante allogamento nella storia patria. Tieni però presente che per non passare inosservati in quello che Gramsci chiamava «il mondo grande e terribile» bisogna saper sempre rischiare qualcosa, specialmente se a salvaguardia della personale coerenza (che fa tutt'uno con il prestigio) e del bene comune (da permanentemente considerare come inseparabile dal proprio).
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Questa forse troppo ampia digressione non è avulsa dall'argomento Veneziani. Serve, anzi, ad esortare l'importante intellettuale di cui veniamo discorrendo a considerare le sue traversie culturali, politiche, giornalistiche come inserite nel quadro della più vasta problematica intermittentemente e variamente e oggettivamente scaturita dall'area del post-fascismo già prima delle svolte del gennaio '95 e del marzo '94. Per esempio -e tanto per restare nei tempi e nei ritmi politici, così evitando fughe nell'ordine storico- con l'avvento della segreteria Fini prima e, quindi, con la messa tra parentesi della breve e tormentata leadership rautiana. In altri termini, il nostro Marcello deve decidersi, una volta per tutte, ad uscire dal suo splendido isolamento; altrimenti va a finire che di questa espressione gli resta solo il sostantivo. Battuta a parte, si intende con ciò dire che il suo collegamento con altro e con gli altri si rivela oggi più che mai necessario dopo la irrisoria facilità con cui i suoi non pochi né dappoco avversari lo hanno silurato a "L'Italia settimanale". Cioè in casa sua! E ora vanno in cerca della «soluzione finale» dipingendolo urbi et orbi come un cerebraloide astratto, nevrotico, incontentabile, che non sa neppure lui ciò che vuole ma lo vuole subito.
Di più: inaffidabile per le troppe amicizie che avrebbe a sinistra e che lo porterebbero, spesso e soprattutto volentieri, a giocare fuori casa. Insomma, il Nostro sarebbe da riguardare come un ideologo follemente innamorato più di sé stesso che delle proprie elaborazioni, del tutto congrue, peraltro, a una insana e spropositata voglia di carriera, sia politica che letteraria e accademica. Dunque, nulla più di un homme de piume egoista, egotista, egocentrico, egomane. E scusate tanto se è poco.
Va da sé che le nostre opinioni su Marcello Veneziani nulla hanno a che spartire con questa raffigurazione liquidatoria dello scrittore barese, pur non risparmiandoci -quando riteniamo ciò giusto, inevitabile ed anche per lui benefico- critiche e dissensi. Di certo lo riteniamo un intellettuale positivo, cui attribuire il merito non piccolo seppure non esclusivo di agitare le acque stagnanti della destra culturale e partitica. Nutriamo per lui tanta simpatia e solidarietà, ed è forse per questo che ci ha fatto piacere la notizia, appresa scorrendo una intervista rilasciata dal presidente di AN al "Corriere della Sera", che Fini va in vacanza al Messico con il saggio dell'ex-direttore de "L'Italia settimanale" in valigia.
La qual cosa, per associazione di idee, ci ha fatto ricordare nientepopodimeno l'episodio di Sua Eminenza il Cardinale Mastai Ferretti che nel 1848 recossi al conclave -da dove sarebbe uscito come Papa Pio IX- con in borsa un libro «sovversivo»: "Del Primato Civile e morale degli Italiani", dovuto alla penna dell'abate Vincenzo Gioberti da Torino, opera letta e apprezzata dal porporato mentre era ospite dei conti Pasolini.
Ma stia attento l'amico Veneziani a non lasciarsi affascinare e incoraggiare dal paragone, perché il famoso Pontefice del Sillabo una volta dissolti i fumi della veemenza patriottica accedette alle richieste dei Padri Gesuiti, i più furenti nemici dello splendido Autore subalpino, e mise all'Indice il "Primato" unitamente all'insieme dell'opera giobertiana presente, passata, futura. E nell'on. Gianfranco Fini un quid di Pio IX e, soprattutto, di gesuita d'annata c'è, come si evince dal recente, inopinato trasferimento dal Nero all'Azzurro in virtù di un miracolo di Santa Giovanna d'Arcore.
Ragion per cui, caro Marcello, occhio alla penna...
In ogni senso, evidentemente.
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Peraltro, ben poco potrebbe indurre il Nostro ad affidarsi alla comprensione e alla benevolenza dell'ex teorizzatore del «Fascismo del Duemila». Infatti, anche a non voler tenere conto della sua natura vendicativa, della sua memoria lunga -vero, amico Giano Accame?- il ruolo, o non ruolo, da lui svolto, o non svolto, nella triste istoria del cambio della guardia a "L'Italia settimanale" non è tale, crediamo, da consentire troppi ottimismi al Veneziani, a dispetto delle cortesi (ed anche utili, per quanto attiene alle esigenze pubblicitarie di Sinistra e Destra) parole dette al redattore del "Corsera".
Ma spulciamo nel "Diario" allegato al saggio: «In compenso tutti, o quasi, amici e nemici, mandanti e osservatori, mi telefonano per solidarizzare. Tempestiva la telefonata di Fini».
Il quale, allorché leggerà queste parole, si guarderà bene dall'essere soddisfatto, data l'ambigua, sottile, indiretta, implicita allusività accusatoria che da esse traspare. Del resto, come non intuire una sua responsabilità in quanto successo pensando al comportamento tenuto dal quotidiano ufficiale? Il saggista seccamente censura il comportamento del foglio di via della Scrofa in questi stringatissimi ma efficaci termini: «Dal "Secolo d'Italia", invece, non un rigo di commento e di solidarietà. Si affretteranno a festeggiare il giornalista, già craxiano e DC, che sarà chiamato a sostituirmi».
Orbene, possibile mai che in un ambiente dove non si muove foglia che il leader non voglia, un caso così delicato e significativo -la cui eco ha interessato tutto il mondo politico e giornalistico italiano e, sembra, non solo italiano- non abbia provocato l'intervento sul direttore del "Secolo d'Italia" da parte del summit di partito? Inimmaginabile il contrario, sia detto con tutto il rispetto per Gennaro Malgieri, che ben sappiamo capace di atteggiamenti autonomi nei confronti di chicchessia. La verità è che Fini sapeva perché non poteva non sapere; e se non ha fatto ha lasciato fare, il che equivale a fare.
Per quel che ci riguarda, sull'on. Fini già abbiamo pubblicamente espresso una opinione niente affatto diffamatoria, checché ne dicano certi neo-finiani di ascendenza rautiana, ma di taglio rigorosamente storico. Egli è il figlio spirituale, l'erede morale, il continuatore indefesso di Dino Grandi nell'opera di demolizione di un fascismo (del Novecento o del Duemila non importa) ritenuto ormai privo di spinta propulsiva e giudicato meritevole non di grazia ma del colpo di grazia, assestato mezzo secolo fa nella Sala del Mappamondo in Palazzo Venezia e mezzo secolo dopo nel Salone delle Terme di Fiuggi. Del Conte di Mordano l'on. Fini ha non soltanto l'origine bolognese ma la stessa elaborata, raffinatissima, efficiente perfidia oltre che il tratto accattivante e simpatico. E per soprammercato, occorre riconoscerlo, possiede un coraggio politico da «tecnicamente» ammirare, indipendentemente dal giudizio di merito sul suo impiego.
Sic stantibus rebus, fossimo nei panni di Marcello Veneziani considereremmo con cautela l'annunciata intenzione sicuramente corretta, gentile, gradevole del capo dei Fiuggiaschi di utilizzare le ferie latino-americane per la lettura del suo testo. Timeo danaos et dona ferentes, cantava Virgilio nell'Eneide, attribuendo questo prezioso ma inascoltato doppio concentrato di saggezza a una mitica figura di cui ci sfugge il nome.
Nella fattispecie, quali sarebbero i perigliosi «dona» che potrebbero essere recati al Nostro? Forse qualche allettante incarico istituzionale o sub-istituzionale, con il felpato invito a gradualmente autoriformarsi, autonormalizzarsi, così facendosi recuperare alle ortodossie reazionarie del Polo. Insomma, la trasformazione del Marcello/Pensiero in un adeguato pensierino per Marcello.
Ma stia attento l'autore di "Processo all'Occidente", perché rischierebbe di brutto. Rischierebbe, cioè, di far scomparire Marcello Veneziani e di far nascere l'Anonimo Veneziani. Ossia ciò che avevano infondatamente sperato nel momento stesso in cui gli affidavano la direzione de "L'Italia settimanale".
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Fior da fiore. Ecco cosa pensa l'ultima vittima della «pulizia etnica» posta in essere dal neostalinismo dipinto d'azzurro di coloro con i quali ha combattuto per un bel po' di mesi tante battaglie contro il famoso «sistema»: «La sinistra ti considera un mostro perché reputa ancora incompatibile la cultura con la destra. In certi casi ha una diffidenza antropologica. E la destra politica ti considera un alieno perché hai la doppia cittadinanza, abiti anche nella città intellettuale, dunque coltivi un pericoloso bilinguismo. Della vecchia destra, autoritaria e fascistoide, sopravvive questa diffidenza sardonica, rincarata da un forte complesso di inferiorità. Molti degli esponenti politici della destra sono, infatti, giornalisti malriusciti che si sono risarciti con la politica».
Vivido e gustoso questo veloce, denso affresco sulla vera verità dell'Asse Arcore-Marino. Tuttavia, in esso si coglie una contraddizione: come, cioè, criticare la sinistra per il disprezzo con cui tratterebbe gli intellettuali che alla destra si richiamano se poi la situazione culturale del «Polo» è quella tanto negativamente descritta?
Ancora: «Questa destra [...] ha conservato la diffidenza ma non il radicamento; è proiettata totalmente su obiettivi commerciali, di mercato del consenso e delle carriere. Scrostata la vecchia vernice emotiva, sentimentale e rituale del fascismo (a cui non corrispondeva alcun ancoraggio culturale) è rimasta la polpa dorotea, incattivita da dosi un po' caricaturali di neo-craxismo rampante e di autoritarismi senza valori. Il tutto incartato nel risentimento di cui parlava Nietzsche, di chi fino a ieri non contava nulla ed ora vive il delirio di impotenza. Per questo ho sostenuto che la vittoria politica della destra rischia di coincidere con la sua sconfitta culturale, e di propiziarla».
Caro Marcello, queste righe al curaro hanno su di noi un incredibile effetto: quello di commuoverci -una volta tanto!- pensando all'on. Gianfranco Fini, al quale hai rovinato le ferie messicane. Ovviamente, non certo da noi puoi attenderti una reprimenda per le sofferenze che procuri all'affondatore del MSI e fondatore di AN, che sarà pure «grande», come dichiarato urbi et orbi dai suoi fans -e, ancor più dalle sue fans- ma è soprattutto Grandi. In attesa, da sé, di diventare Badoglio se le prossime, vagheggiatissime elezioni dovessero rivelarsi un otto settembre, come si sarebbe tentati di credere pensando alle «regionali» e alle «amministrative» di quest'anno.
Andiamo avanti. Per rendersi conto di che razza di gentiluomini di antico stampo è fatta la destra, sarà sufficiente al Lettore dare un'occhiata a questo secco branerello: «28 marzo 1995. Ad un anno esatto dalla "vittoria mutilata" del Polo delle libertà, con rito antropofago, le tribù di destra ottengono la mia testa dalla direzione de "L'Italia settimanale", che io fondai e diressi, e che ideai dalla testata in giù. Il ricatto esplicito fatto dalla proprietà del settimanale è sulla pubblicità: avrete la pubblicità se eliminerete Veneziani dalla direzione. Ho registrato su nastro i colloqui avuti con la proprietà. Apprendo la notizia della mia destituzione per caso. Sono andato a una riunione del nostro consiglio di amministrazione e ho appreso, dall'appello del notaio, di non farne più parte. Nel pomeriggio, su mia richiesta di spiegazioni, so il resto. Che mi viene poi ufficializzato con un telegramma. È come se ti tolgono un figlio e tu lo sai all'ufficio anagrafe».
Cose da far rizzare i capelli sulla testa di un calvo! Anche perché da questa prosa si evince che il perverso intento dei mammasantissimi del Polo dei Liberticidi, e in primo luogo dei democratichini di AN, non era solo quello di sostituire l'ideatore-direttore con l'ex redattore de "Il Messaggero" Alessandro Caprettini, ma pure, forse soprattutto, quello di umiliarlo, di delegittimarlo, di togliergli credibilità, di calpestarne la più elementare dignità.
È con figuri del genere che un degenerato come Marco Giacinto detto Pannella vorrebbe fare -o voleva fare?- la «rivoluzione liberale, liberista, libertaria» in Italia! Par di sognare.
Tuttavia qualche elemento consolatorio è registrabile in codesto squallido frangente: il cavalieresco, leale, indipendente telegramma di solidarietà a Veneziani di Vittorio Feltri, l'ormai mitico direttore de "il Giornale", quotidiano pilota della stampa legata al blocco delle destre.
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Si fa sempre più interessante il veneziano cahier de doléance. Per quel che concerne le nomine nelle strutture pubbliche, il direttore defenestrato afferma: «Commentando una mia intervista a "Tempo reale", Rocco Buttiglione sottolinea la selezione alla rovescia in atto nella destra. Lottizzano ma premiano i peggiori ed emarginano i migliori, dice Buttiglione. È curioso pensare, infatti, che gli unici due intellettuali di destra, nominati in Rai -vale a dire Cardini e Besana- siano stati sponsorizzati dalla Lega. Se poi si fa un giro d'orizzonte sulle nomine volute, propiziate o approvate da AN, si trova di tutto fra riciclati, neo-asserviti, biografi-agiografi, lacchè e mezze calzette. Rare le persone di qualità, più rare le persone con background di destra. Quasi inesistenti le persone di qualità e di destra nel contempo».
Per conto nostro, troviamo tragicomico che gli artefici di simile scempio pretendano di essere considerati i vindici di dissolutezze, malefatte, iniquità, pressapochismi -e chi più ne ha più ne metta- della I Repubblica. Il che, naturalmente, nulla può e deve giustificarne del passato.
Veniamo alle quinte colonne collocate dagli oligarchi berlusconiani-finiani nel fortilizio di Veneziani: «E poi boicottaggi politici, gli imprenditori scoraggiati dai politici ad entrare e investire sul settimanale (ho le testimonianze dirette di alcuni, a Firenze, a Roma, a Milano). Ostracismi diffusi e pedaggi mafiosi. Strade che si chiudono. Mi è vietato far crescere il settimanale. Nausea, disgusto per questa miserabile destra; nausea, disgusto per i meschini, i vigliacchi, i corvi e le iene che ruotano come proci intorno e dentro il "mio" settimanale. Sorvolo sulle bassezze e sulle parole date e rimangiate. Mi danno il vomito. Preferisco rimuovere».
Superflua ogni chiosa.

Enrico Landolfi

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