memoria - archivio
Vessillo di
fede e di civiltà il saio dei cappellani
Fra' Ginepro, don Scarpellini e padre Eusebio, con altri novecento
sacerdoti-soldato, portarono nella RSI la potenza costruttiva della coscienza
cristiana
L'albeggiare nelle molteplici, drammatiche
giornate sofferte da Genova dopo quella della cosiddetta liberazione di
cinquant'anni or sono, si distingueva più che per il levare del sole, da un ben
diverso spettacolo, cioè da quel «mattutino di Stalin» caratterizzante in ogni
quartiere del capoluogo ligure, sulle piazze, per i viali e nei «carrugi» una
crescente, spietata caccia al fascista o presunto tale che, per settimane,
sparse sempre più sangue e lasciò abbandonati un grande numero di cadaveri in
ogni area urbana, da Voltri a Nervi.
Fu in una di quelle mattine che il cappellano militare Fra' Ginepro di Pompeiana
respinse il ritiro in luogo sicuro: «II mio posto non è in noviziato; se quando
i miei fratelli andarono alla guerra li seguii come cappellano militare, se
quando caddero prigionieri li seguii nei campi di concentramento, ora che sono
trattenuti in carcere li devo seguire nella galera», rispose il «confessore del
Duce» a chi voleva salvarlo dal pericolo sempre più incombente di una sua
cattura, essendo molto ricercato dai partigiani. E più tardi -dopo essersi
presentato da solo ai capi del CLN- nella cella più grande del carcere di
Marassi salì sul pancaccio e così supplicò per tutti i reclusi a viva voce: «O
Cristo Signore, che per salvare l'Umanità sei stato incatenato e crocifisso,
ascolta il grido lamentoso che ogni giorno Ti eleviamo dal fondo della nostra
galera. Non tardare a mettere in luce la nostra innocenza ed a restituirci alla
nostra casa, fatti migliori dalle sofferenze patite. Volgi uno sguardo pietoso
alla famiglia che è rimasta senza sostegno, alla Patria che attraversa momenti
dolorosi, al Mondo coperto di ossami e di macerie. E fa che per tutti sia pace,
prosperità e benedizione. Così sia!»
Questa orazione, come ci conferma il Pio Cappuccino (Fra' Ginepro) nel suo tomo
"Convento e galera", fece subito il giro di tutte le celle di Marassi, col tempo
lo farà anche nelle altre carceri d'Italia, lo sequestreranno in diversi
penitenziari -quando scritto- come messaggio fascista, ma superando ogni
barriera verrà recitata anche dai tubercolotici di Pianosa e dai pazzi di Aversa.
Avvenne così che sull'altare del più severo sacrificio eretto per la Storia dai
più intrepidi credenti nei valori civili della Nazione, di socialità e di
libertà, illuminato durante l'intera epopea della Repubblica Sociale Italiana
dallo splendore del sacrificio di ognuno che volle contribuire al migliore
sviluppo dei popoli, si focalizzarono anche quelli dei numerosi
Cappellani-Soldato che dopo la vergogna per l'Italia dei tradimenti del 25
luglio e dell'8 settembre 1943 non disertarono, ma vollero continuare la loro
inclita missione di Fede cristiana a fianco dei Combattenti per l'Onore della
Patria.
Nasce, col giuramento, la nuova fedeltà
Procediamo però, con ordine: nella RSI, attraverso la Seconda sezione
dell'Ordinariato Militare per l'Italia (istituzione introdotta dal Fascismo nel
1926 per il Regio Esercito e la MVSN, poi inserita per volontà di Mussolini nel
Concordato con la Chiesa cattolica) venne disciplinato il servizio dei
Cappellani Volontari nelle varie Forze Armate repubblicane, al quale aderirono
oltre novecento ministri ecclesiastici operanti non solo presso i più importanti
Comandi oppure in altri Distretti militari, ma anche nelle diverse Unità
divisionali, nei distaccamenti della Guardia Nazionale Repubblicana, in quelli
successivi delle Brigate Nere, nella X Flottiglia Mas, in ogni Reparto speciale
ecc. nonché in Francia, Balcania, Dodecanneso, Egeo, tra i Lavoratori italiani
nel Terzo Reich, tra le truppe italiane prigioniere (e non «cooperatrici») in
India, USA, Gran Bretagna, URSS e altrove.
In qualità di Pro-Vicario generale militare per le FF.AA. della RSI sino al
marzo 1945 rimase mons. Giuseppe Casonato, poi -dopo la circolare natalizia del
'44 mediante la quale iniziava ad esercitare pressioni politiche contrarie
all'azione del Governo repubblicano- gli succedette il Cappellano capo del
Piemonte mons. Silvio Solerò.
In precedenza, sul testo del giuramento di fedeltà alla RSI, l'Ordinario
militare mons. A. Bartolomasi aveva frapposto inizialmente qualche difficoltà
essendo stata da lui avanzata una formula diversa da quella predisposta dal
Governo, ma entro il dicembre '44 tutti i Cappellani Volontari avevano giurato
secondo la formula regolamentare, cioè: «Giuro di servire e di difendere la
Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, nel suo
onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino al sacrificio supremo. Lo
giuro dinanzi a Dio e ai Caduti, per l'unità, per l'indipendenza e per
l'avvenire della Patria».
Sull'alta qualità dell'opera svolta dai Cappellani in grigioverde a nessuno può
essere rimasto qualche dubbio, tanto è vero che lo stesso mons. Bartolomasi dopo
il 1945 specificò come i «volontari cappellani militari della RSI furono e
restano l'orgoglio dei cappellani militari italiani, per l'ineccepibile condotta
morale, per il senso eroico ed assoluto di servizio nell'assistenza religiosa e
spirituale dei reparti loro assegnati, per l'amore di Patria nell'assistere e
sostenere il morale di una popolazione civile, sotto l'inenarrabile flagello che
si abbatteva sull'intera Nazione italiana».
L'albo di gloria dei Cappellani militari dell'Onore distingue ben ventotto
ministri della Chiesa caduti per servizio o per mano terroristica durante la RSI
e sono i seguenti: Fra' Fortunato Bertoni (Modena), Mario Boschetti (Ferrara),
Guerrino Cavazzoli (Germania), Sebastiano Caviglia (Asti), Padre Crisostomo
Ceragioli (Siena), Padre Antonio Ciervo (Egeo), Padre Sigismondo Damiani
(Macerata), Edmondo De Amicis (Torino), Rosino Di Nallo (Frosinone), Giovanni Di
Pietro (Teramo), Emilio Fernandez (Ferrara), Carlo Ferrari (Grosseto), Padre
Fernando Ferrarotti (Aosta), Vittorio Floriani (Germania), Giuseppe Gabana
(Trieste), Padre Ceslao Galletti (Roma), Domenico Gianni (Bologna), Umberto
Lotti (Austria), Padre Simone Nardin (Fiume), Adolfo Nannini (Firenze), Fra'
Cleto Parodi (Egeo), Pietro Roba (Imperia), Padre Angelico Romiti (Torino),
Leandro Sangiorgio (Vercelli), Carlo Terenziano (Reggio Emilia) e Antonio
Torricella (Francia).
Inoltre, sono sei i Sacerdoti-Soldato caduti l'8 settembre in Albania, Dalmazia,
Montenegro e Serbia, vittime del comunismo balcanico; due quelli nei campi
non-cooperatori in India. Ascendono a quarantaquattro i Cappellani militari
italiani deceduti prima e dopo l'armistizio badogliano nei campi sovietici di
prigionia.
Molto più numerosi sono invece i sacerdoti di Cristo che nel corso della RSI
oppure subito dopo il tragico 25 aprile persero la vita, accusati di amicizia
per i fascisti oppure per le truppe germaniche in quanto rei di avere segnalato
urgenti necessità delle popolazioni e degli sfollati, come accadde -ad esempio-
a don Aladino Petri nel Pisano, vicino alla storica torre di Caprona,
assassinato insieme al maestro Lughetti da tre fuorilegge dei GAP in bicicletta.
Don Tullio Calcagno e «Crociata Italica»
Coscienza del Vangelo e fedeltà ai valori della Patria sono i canoni morali su
cui la forte idealità di don Tullio Calcagno fece leva per aprirsi al calvario
1943-45, lungo l'ascesa del quale la sua Fede cattolica e il suo amore per
l'Italia furono perseguitati senza pietà, mai riuscendo però, ad indebolire la
virile temerarietà della sua missione. Il dramma degli eventi politico-militari
dell'estate 1943 colsero don Calcagno in Umbria, dove era parroco della
cattedrale di Terni e mentre sull'antica Interamna, trasformata dal Fascismo in
grande centro industriale, i bombardieri anglo-statunitensi della RAF e
dell'USAF rovesciarono morte e distruzione. Dinanzi a così grave scempio morale
e materiale, il parroco della cattedrale ternana agì sentendo nell'animo la
rudezza di Bernardino da Siena e conservando la mitezza di Francesco d'Assisi,
si aprì alla focosità di Domenico da Guzmàn con la robustezza di fede
appartenente ad Ignazio di Loyola, divenne testardo come G. Galilei di fronte al
Sant'Uffizio e non si arrese ai messi papali quanto Gerolamo Savonarola, lasciò
la città bagnata dal Nera e salì nella Valle Padana per trovare a Cremona -dove
l'armonia dei liutai Amati, Guarnieri e Stradivari era salita in cielo più del
Torrazzo- il fulgore coerentemente innovativo di Roberto Farinacci, l'incisività
critica del quotidiano "Il Regime Fascista", l'ardore combattivo delle
Schutz-staffeln italiane per la realizzazione costruttiva ed operosa dei punti
fondamentali del PFR, sincronizzati nel "Manifesto di Verona". E qui, dopo la
notte dei tradimenti, respingendo la materialità del comodo imboscamento, don
Calcagno da vita al settimanale più intrepido di religiosità e patriottismo e
"Crociata Italica" si aprì anche all'assidua collaborazione dei Cappellani
volontari della RSI.
È vero che per la continua incisività di "Crociata Italica" e per le relazioni
settarie inoltrate alla Santa Sede dalla Curia cremonese e di Milano, presto don
Calcagno venne sospeso «a divinis» da Bolla pontificia, ma è doveroso rammentare
che il sacerdote di Terni non dissentì mai con il Pontefice Pio XII in materia
di Fede, ma con il Sant'Uffizio che, appellandosi al Codice Canonico esigeva
l'astensione di questo religioso dall'esercizio giornalistico della politica,
mentre in quel tempo -tra i cortei schiamazzanti al seguito degli invasori
«alleati» dove erano riusciti ad arrivare- si evidenziavano sempre più molti
preti che, con il fazzoletto rosso al collo... celebravano la cosiddetta
liberazione, cantando Bandiera rossa con i «fratelli» partigiani comunisti e
alzando il braccio sinistro in alto e con il pugno della mano ben chiuso.
Anticipavano di cinquant'anni l'attuale «passione» filomarxista di molti, troppi
prelati altolocati.
Quando nell'aprile '45 pervenne il tracollo militare, il massacro di Dongo, il
ludibrio di piazzale Loreto e la carneficina spietata di fascisti o presunti
tali, nessuno dei monsignori estensori delle relazioni per la sospensione del
sacerdote-direttore di "Crociata Italica" nutrì un po' di pietas almeno latina
per impedire che venisse trascinato da Crema al carcere di San Vittore a Milano
e poi buttato in piazzale Susa per rabbiosa fucilazione. Troppi non capivano
che, come Petrarca, don Calcagno -in politica- seppe scrivere «per ver dire, non
per odio d'altrui, né per disprezzo».
Cappellani con gladio, alfieri di fede
Esiste nell'Ordinariato militare per l'Italia la nobiltà morale per gli alfieri
della cappa di San Martino ed essa ha in Angelo Roncalli (Papa Giovanni XXIII),
Giulio Facibeni (fondatore a Firenze della Madonnina del Grappa, ospitante i
perseguitati della RSI), Carlo Gnocchi (realizzatore di Pro Juventute a Milano),
Luigi Soverini (officiante a Roma per 20 anni la Santa Messa in latino il 28
aprile in San Marco di Palazzo Venezia) e Giovanni Errani (sacerdote Divisione
Etna della RSI) i Cappellani militari benemeriti nella vita religiosa e civile.
È dal loro esempio che durante la Repubblica sociale i loro colleghi con i Gladi
quale mostrina assolsero alla propria missione con la franchezza e con la
sensibilità francescane di cui militari e popolazione avevano la maggiore
necessità con senso di misericordia umana.
Il decano dei Cappellani della RSI fu don Angelo Scarpellini, romagnolo,
insegnante di lettere a Bologna, giornalista, scrittore. Pubblicò nel 1939 il
libro "Augusto nella luce del Vangelo", nel 1942 il volume "Italia della
Conciliazione", poi lasciò la cattedra per essere vicino ai soldati e alle loro
sofferenze. Don Scarpellini fu assiduo collaboratore di "Crociata Italica" con
gli articoli firmati Pier l'Eremita e, in conseguenza di ciò, non ottenne il
dovuto inserimento nei ruoli dell'Ordinariato militare per l'Italia dei
Cappellani volontari, ma ciò non gli impedì di emergere nel ruolo di
Sacerdote-soldato prima nella Brigata Nera «Facchini» e poi nella Brigata Nera
Mobile «Pappalardo», comandata quest'ultima dal prof. Pagliani.
Dopo il 25 aprile venne condotto a Coltano e poi, su richiesta di un magistrato
di Reggio Emilia, si presentò a quel Tribunale dove venne incarcerato e poi
processato per collaborazionismo, condannato a 24 anni di reclusione e poi
assolto in Cassazione. Ma nel carcere di Reggio Emilia venne sottoposto dai
partigiani a gravi sevizie che gli procurarono sordità totale, timpani rotti,
denti spaccati e una frattura al cranio. Quando i partigiani vennero tradotti
dinanzi a lui per individuare chi lo aveva martirizzato, pure riconoscendoli, al
magistrato che lo invitava ad indicare i responsabili delle sevizie egli
rispose: «Non riconosco nessuno!».
Allorché riebbe la libertà, don Scarpellini -sebbene invalido- riprese la sua
attività educativa, portò la sua voce in tante conferenze per illuminare gli
Italiani sull'ampiezza del sacrificio dei Martiri e dei Caduti della RSI, chiese
la Pacificazione che inserisse nella Costituzione della Repubblica del 2 giugno
la parificazione dei diritti dei combattenti e dei dipendenti pubblici della RSI
a quelli del regno del Sud, nonché di ogni beneficio da ciò derivante e, nel
contempo, diede alle stampe "La RSI nelle lettere dei suoi Caduti", pubblicando
anche "Fausto Longiano" (1959), "La Pieve di San Giovanni in Compito" (1962),
"Don Alessandro Berardi patriota riminese" (1963) e altro ancora, ma nel 1979
Dio lo chiamò a sé.
Dio e Patria, sintesi ideale
Nell'ardente fucina di volontà cristiana e patriottica di "Crociata Italica" si
cimentarono molti altri sacerdoti quali padre Blandino della Croce, don Antonio
Bruzzesi, Fra' Galdino, padre Egidio del Borgo, il benedettino Ildefonso Trova
che, insieme al tenace Fra' Ginepro di Pompeiana, perfezionarono i rispettivi
intendimenti religiosi nell'aiuto a tutti i sofferenti della tragedia nazionale.
D'altronde, il primo articolo di fondo del n° 1 di "Crociata Italica" era
intitolato "Dio e Patria" e in esso don Calcagno specificava: «Siamo cattolici,
apostolici, romani, figli devoti e membri vivi dell'unica Santa Chiesa e tali
intendiamo restare, con la grazia di Dio, fino alla tomba, nell'eternità della
Chiesa trionfante. Siamo repubblicani, perché col tradimento del re, il regno ha
cessato di esistere per tutti gli italiani e per tutti gli uomini onesti, e ad
esso è succeduto, nel modo più legittimo, la Repubblica Sociale Italiana, sotto
la guida di colui che, fino alla vigilia della vergognosa catastrofe, era il
Duce universalmente riconosciuto da popoli e governanti, da pontefici e
sovrani».
Su questa ispirazione, insieme ai Sacerdoti-Soldato indicati e agli altri
novecento che nel tempo 1943-45 assolsero alla missione apostolica i Cappellani
volontari della RSI, indirizzò con vigore la propria azione francescana padre
Eusebio che già nel giugno 1940 -due giorni dopo l'entrata dell'Italia in
guerra- si era arruolato nell'Ordinariato militare seguendo le sorti dei soldati
prima tra gli Alpini, distinguendosi in Albania e in Russia, indi nella base
atlantica di Bordeaux, fino ad essere catturato dai Tedeschi l'8 settembre ad
Antibes. Padre Eusebio, al secolo Sigfrido Zappaterreni e nativo di Montecelio
(l'attuale Guidonia), condannò la congiura di Grandi e Bottai, non accettò il
tradimento di Vittorio Emanuele III e di Badoglio, ed aderendo alla RSI si fece
promotore di tante conferenze per stimolare gli Italiani alla riscossa morale.
Assumendo nel 1944 l'incarico di Capo Cappellano militare delle Brigate Nere,
padre Eusebio accentuò i suoi incontri e dialoghi con il Duce e in settembre,
mentre gli invasori iniziavano a scontrarsi contro la Linea Gotica, Mussolini
-nel tratteggiare i problemi connessi ai rapporti fra lo Stato repubblicano e la
Chiesa- gli disse: «In vari rapporti si nota una recrudescenza rossa che non
preoccupa affatto il clero della Repubblica. Certe connivenze e complicità con i
fuorilegge sono sintomi di decadenza morale e prove incontrovertibili di
malafede».
Ma il colloquio non era finito. Mussolini continuò: «Ogni settimana Mezzasoma mi
fa il rapporto scritto sulla stampa cattolica. Su centinaia di opuscoli, riviste
e foglietti parrocchiali non sono mai riuscito a trovare un accenno contro il
comunismo. Lo stesso dicasi delle allocuzioni che il clero fa la domenica nelle
chiese. Ditemi, cosa significa tutto questo nel momento critico che si
attraversa?»
All'uomo liberato da Skorzeny sul Gran Sasso dalla prigionia dei badogliani di
allora, il Cappellano capo delle BB.NN. rispose accentuando le sue prediche ai
combattenti ed ai cittadini, aperse il suo fervore francescano invocando il
dovere delle genti per la difesa della Patria, sollecitò una pace non dolorosa
per la Nazione, affinchè i «fioretti» del santo di Assisi maturassero nel cuore
degli Italiani l'incitamento alla «perfetta letizia» dopo tante sofferenze. In
fedeltà alla Vocazione francescana, alla bandiera tricolore dell'Onore, padre
Eusebio coronò di splendore la sua missione di Cappellano della RSI nella
primavera '45 quando -in Galleria a Milano- profuse nella sua più ardente
allocuzione l'invito ai credenti in Dio e nella Patria a professare virtù di
buon frutto per la rinascita della Nazione e per costruire la Civiltà del
futuro.
Missioni di apostoli sulle fronti italiane
A fianco di Fra' Ginepro e di Padre Eusebio che svolgevano il loro compito di
apostoli del Cattolicesimo oltreché quali «confessori del Duce», anche come
missionari di sostegno morale ai combattenti, con uguale coscienza del Verbo
cristiano si distinsero sulle fronti della Linea Gotica, sulle Alpi occidentali
e sulle doline carsiche, in Istria e nella Dalmazia, quanto sul Baltico e
nell'Egeo, i Cappellani volontari della RSI a fianco delle nostre truppe in
grigioverde.
Ecco nella Divisione Littorio l'esempio fulgente di Padre Marcello al secolo
Primiero Tozzi, che seguì questa Unità militare della RSI dall'addestramento in
Germania nel centro di Senne alla difesa della sovranità italiana in Valle
d'Aosta, dopo essere stato in precedenza predicatore francescano dei Padri
Minori nella Toscana, Tenente Cappellano degli Alpini sulla fronte
greco-albanese. Padre Marcello confortò i soldati in grigioverde sulle impervie
vette della fronte aostana, seguì i feriti negli ospedali e confortò le famiglie
dei Caduti durante e dopo la guerra, anche quando divenne Coadiutore diocesano
nella parrocchia di N. S. Gesù Cristo in Lastra a Signa, non mancando mai nei
contatti con i «suoi» reduci.
Nel rammentare gli eroismi dei soldati della Littorio su quella fronte
nell'inverno 1944-45 padre Marcello scrisse: «Alzatevi, amici, e rimanete in
alto. Sulle cime non vi è nebbia, né fango, né mosche».
Le «penne nere» del 4° Rgt. Alpini della RSI avevano già compiuto questo
confronto, erano stati eroici nel sacrificio per l'Italia repubblicana. In modo
analogo, tra altre «penne nere», altri artiglieri da montagna, genieri e
complementari della Divisione Alpina Monterosa si distinse il sacerdote-alpino
Luigi Miglio con tutti i cappellani dislocati nei vari reparti, dal campo
germanico di addestramento in Münsingen all'offensiva d'inverno nella Garfagnana
oppure nei contrattacchi e nelle «sortite» sulle Alpi occidentali, dal Colle
della Maddalena al Piccolo S. Bernardo e al Moncenisio, ovunque le truppe alpine
diedero prova del loro ardimento sulle vette, ove -sia ben chiaro- Dio ad esse è
più vicino.
A fianco della Divisione F. M. San Marco eccelle Padre Candido Carlino, in
quella Etna è presente Padre Giovanni Errani, nel Rgt. Paracadutisti Folgore il
temerario don Ovidio Zinaghi, mentre con la X Flottiglia Mas oltre a Padre
Martinengo quale Cappellano capo si sono distinti don G. Graziani e don A.
Castoldi nel Btg. Barbarigo, don B. Folloti nel Btg. Lupo, don R. Pio nei Btgg.
NP e Sagittario, don Pettro nel 3° Rgt. Artiglieria e, su a Tarnova, con il Btg.
Fulmine, proteso con le altre truppe autonome a difendere l'italianità di
Gorizia dall'aggressione del IX Korpus di Tito, non mancava don Casimiro Canepa.
Spirito e coscienza del credo europeo
Questa leggenda di Fede e di eroismo assume più valore proprio mentre il nostro
vecchio Continente inizia a potenziare, attraverso la CEE, la propria, nuova
prova di unificazione politica, economica e produttiva che la liberi dalla
soggezione alla finanza degli USA, nonché dall'influenza vessatoria della
plutocrazia anglo-statunitense cui del progresso civile dell'Europa nel Terzo
Millennio importa niente.
D'altronde, gli altri non possono capire come sulla Via Crucis dell'Europa di
mezzo secolo fa, dove il vessillifero del Credo cattolico e italiano -quale era
Fra' Ginepro- si ergeva illuminando con lo splendore del suo Saio la nitidezza
del Tricolore repubblicano per la pace del lavoro e per l'equilibrio delle
coscienze, si rafforzò il valore etico posto a seme sul solco della Storia nel
trascorrere dei millenni per la Civiltà, da quello latino del Diritto al
Cristianesimo francescano, dall'Arte rinascimentale alle scoperte della Tecnica,
dai moti liberali e socialistici (Bismarck li sostenne nell'800 per l'Europa)
all'equilibrio fascista dell'economia produttiva attraverso le conquiste di
emancipazione garantite dalla socializzazione.
In questo, il Saio di Fra' Ginepro e degli altri Cappellani Volontari della RSI
assume il più eletto valore per lo Spirito e per le Coscienze. Ha consolato le
sofferenze di tanti Martiri e di molti Caduti.
È simbolo di Italia, di Europa, significa Civiltà.
Bruno De Padova
|