«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

memoria - archivio

Vessillo di fede e di civiltà il saio dei cappellani
Fra' Ginepro, don Scarpellini e padre Eusebio, con altri novecento sacerdoti-soldato, portarono nella RSI la potenza costruttiva della coscienza cristiana
 

L'albeggiare nelle molteplici, drammatiche giornate sofferte da Genova dopo quella della cosiddetta liberazione di cinquant'anni or sono, si distingueva più che per il levare del sole, da un ben diverso spettacolo, cioè da quel «mattutino di Stalin» caratterizzante in ogni quartiere del capoluogo ligure, sulle piazze, per i viali e nei «carrugi» una crescente, spietata caccia al fascista o presunto tale che, per settimane, sparse sempre più sangue e lasciò abbandonati un grande numero di cadaveri in ogni area urbana, da Voltri a Nervi.
Fu in una di quelle mattine che il cappellano militare Fra' Ginepro di Pompeiana respinse il ritiro in luogo sicuro: «II mio posto non è in noviziato; se quando i miei fratelli andarono alla guerra li seguii come cappellano militare, se quando caddero prigionieri li seguii nei campi di concentramento, ora che sono trattenuti in carcere li devo seguire nella galera», rispose il «confessore del Duce» a chi voleva salvarlo dal pericolo sempre più incombente di una sua cattura, essendo molto ricercato dai partigiani. E più tardi -dopo essersi presentato da solo ai capi del CLN- nella cella più grande del carcere di Marassi salì sul pancaccio e così supplicò per tutti i reclusi a viva voce: «O Cristo Signore, che per salvare l'Umanità sei stato incatenato e crocifisso, ascolta il grido lamentoso che ogni giorno Ti eleviamo dal fondo della nostra galera. Non tardare a mettere in luce la nostra innocenza ed a restituirci alla nostra casa, fatti migliori dalle sofferenze patite. Volgi uno sguardo pietoso alla famiglia che è rimasta senza sostegno, alla Patria che attraversa momenti dolorosi, al Mondo coperto di ossami e di macerie. E fa che per tutti sia pace, prosperità e benedizione. Così sia!»
Questa orazione, come ci conferma il Pio Cappuccino (Fra' Ginepro) nel suo tomo "Convento e galera", fece subito il giro di tutte le celle di Marassi, col tempo lo farà anche nelle altre carceri d'Italia, lo sequestreranno in diversi penitenziari -quando scritto- come messaggio fascista, ma superando ogni barriera verrà recitata anche dai tubercolotici di Pianosa e dai pazzi di Aversa.
Avvenne così che sull'altare del più severo sacrificio eretto per la Storia dai più intrepidi credenti nei valori civili della Nazione, di socialità e di libertà, illuminato durante l'intera epopea della Repubblica Sociale Italiana dallo splendore del sacrificio di ognuno che volle contribuire al migliore sviluppo dei popoli, si focalizzarono anche quelli dei numerosi Cappellani-Soldato che dopo la vergogna per l'Italia dei tradimenti del 25 luglio e dell'8 settembre 1943 non disertarono, ma vollero continuare la loro inclita missione di Fede cristiana a fianco dei Combattenti per l'Onore della Patria.

Nasce, col giuramento, la nuova fedeltà
Procediamo però, con ordine: nella RSI, attraverso la Seconda sezione dell'Ordinariato Militare per l'Italia (istituzione introdotta dal Fascismo nel 1926 per il Regio Esercito e la MVSN, poi inserita per volontà di Mussolini nel Concordato con la Chiesa cattolica) venne disciplinato il servizio dei Cappellani Volontari nelle varie Forze Armate repubblicane, al quale aderirono oltre novecento ministri ecclesiastici operanti non solo presso i più importanti Comandi oppure in altri Distretti militari, ma anche nelle diverse Unità divisionali, nei distaccamenti della Guardia Nazionale Repubblicana, in quelli successivi delle Brigate Nere, nella X Flottiglia Mas, in ogni Reparto speciale ecc. nonché in Francia, Balcania, Dodecanneso, Egeo, tra i Lavoratori italiani nel Terzo Reich, tra le truppe italiane prigioniere (e non «cooperatrici») in India, USA, Gran Bretagna, URSS e altrove.
In qualità di Pro-Vicario generale militare per le FF.AA. della RSI sino al marzo 1945 rimase mons. Giuseppe Casonato, poi -dopo la circolare natalizia del '44 mediante la quale iniziava ad esercitare pressioni politiche contrarie all'azione del Governo repubblicano- gli succedette il Cappellano capo del Piemonte mons. Silvio Solerò.
In precedenza, sul testo del giuramento di fedeltà alla RSI, l'Ordinario militare mons. A. Bartolomasi aveva frapposto inizialmente qualche difficoltà essendo stata da lui avanzata una formula diversa da quella predisposta dal Governo, ma entro il dicembre '44 tutti i Cappellani Volontari avevano giurato secondo la formula regolamentare, cioè: «Giuro di servire e di difendere la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino al sacrificio supremo. Lo giuro dinanzi a Dio e ai Caduti, per l'unità, per l'indipendenza e per l'avvenire della Patria».
Sull'alta qualità dell'opera svolta dai Cappellani in grigioverde a nessuno può essere rimasto qualche dubbio, tanto è vero che lo stesso mons. Bartolomasi dopo il 1945 specificò come i «volontari cappellani militari della RSI furono e restano l'orgoglio dei cappellani militari italiani, per l'ineccepibile condotta morale, per il senso eroico ed assoluto di servizio nell'assistenza religiosa e spirituale dei reparti loro assegnati, per l'amore di Patria nell'assistere e sostenere il morale di una popolazione civile, sotto l'inenarrabile flagello che si abbatteva sull'intera Nazione italiana».
L'albo di gloria dei Cappellani militari dell'Onore distingue ben ventotto ministri della Chiesa caduti per servizio o per mano terroristica durante la RSI e sono i seguenti: Fra' Fortunato Bertoni (Modena), Mario Boschetti (Ferrara), Guerrino Cavazzoli (Germania), Sebastiano Caviglia (Asti), Padre Crisostomo Ceragioli (Siena), Padre Antonio Ciervo (Egeo), Padre Sigismondo Damiani (Macerata), Edmondo De Amicis (Torino), Rosino Di Nallo (Frosinone), Giovanni Di Pietro (Teramo), Emilio Fernandez (Ferrara), Carlo Ferrari (Grosseto), Padre Fernando Ferrarotti (Aosta), Vittorio Floriani (Germania), Giuseppe Gabana (Trieste), Padre Ceslao Galletti (Roma), Domenico Gianni (Bologna), Umberto Lotti (Austria), Padre Simone Nardin (Fiume), Adolfo Nannini (Firenze), Fra' Cleto Parodi (Egeo), Pietro Roba (Imperia), Padre Angelico Romiti (Torino), Leandro Sangiorgio (Vercelli), Carlo Terenziano (Reggio Emilia) e Antonio Torricella (Francia).
Inoltre, sono sei i Sacerdoti-Soldato caduti l'8 settembre in Albania, Dalmazia, Montenegro e Serbia, vittime del comunismo balcanico; due quelli nei campi non-cooperatori in India. Ascendono a quarantaquattro i Cappellani militari italiani deceduti prima e dopo l'armistizio badogliano nei campi sovietici di prigionia.
Molto più numerosi sono invece i sacerdoti di Cristo che nel corso della RSI oppure subito dopo il tragico 25 aprile persero la vita, accusati di amicizia per i fascisti oppure per le truppe germaniche in quanto rei di avere segnalato urgenti necessità delle popolazioni e degli sfollati, come accadde -ad esempio- a don Aladino Petri nel Pisano, vicino alla storica torre di Caprona, assassinato insieme al maestro Lughetti da tre fuorilegge dei GAP in bicicletta.

Don Tullio Calcagno e «Crociata Italica»
Coscienza del Vangelo e fedeltà ai valori della Patria sono i canoni morali su cui la forte idealità di don Tullio Calcagno fece leva per aprirsi al calvario 1943-45, lungo l'ascesa del quale la sua Fede cattolica e il suo amore per l'Italia furono perseguitati senza pietà, mai riuscendo però, ad indebolire la virile temerarietà della sua missione. Il dramma degli eventi politico-militari dell'estate 1943 colsero don Calcagno in Umbria, dove era parroco della cattedrale di Terni e mentre sull'antica Interamna, trasformata dal Fascismo in grande centro industriale, i bombardieri anglo-statunitensi della RAF e dell'USAF rovesciarono morte e distruzione. Dinanzi a così grave scempio morale e materiale, il parroco della cattedrale ternana agì sentendo nell'animo la rudezza di Bernardino da Siena e conservando la mitezza di Francesco d'Assisi, si aprì alla focosità di Domenico da Guzmàn con la robustezza di fede appartenente ad Ignazio di Loyola, divenne testardo come G. Galilei di fronte al Sant'Uffizio e non si arrese ai messi papali quanto Gerolamo Savonarola, lasciò la città bagnata dal Nera e salì nella Valle Padana per trovare a Cremona -dove l'armonia dei liutai Amati, Guarnieri e Stradivari era salita in cielo più del Torrazzo- il fulgore coerentemente innovativo di Roberto Farinacci, l'incisività critica del quotidiano "Il Regime Fascista", l'ardore combattivo delle Schutz-staffeln italiane per la realizzazione costruttiva ed operosa dei punti fondamentali del PFR, sincronizzati nel "Manifesto di Verona". E qui, dopo la notte dei tradimenti, respingendo la materialità del comodo imboscamento, don Calcagno da vita al settimanale più intrepido di religiosità e patriottismo e "Crociata Italica" si aprì anche all'assidua collaborazione dei Cappellani volontari della RSI.
È vero che per la continua incisività di "Crociata Italica" e per le relazioni settarie inoltrate alla Santa Sede dalla Curia cremonese e di Milano, presto don Calcagno venne sospeso «a divinis» da Bolla pontificia, ma è doveroso rammentare che il sacerdote di Terni non dissentì mai con il Pontefice Pio XII in materia di Fede, ma con il Sant'Uffizio che, appellandosi al Codice Canonico esigeva l'astensione di questo religioso dall'esercizio giornalistico della politica, mentre in quel tempo -tra i cortei schiamazzanti al seguito degli invasori «alleati» dove erano riusciti ad arrivare- si evidenziavano sempre più molti preti che, con il fazzoletto rosso al collo... celebravano la cosiddetta liberazione, cantando Bandiera rossa con i «fratelli» partigiani comunisti e alzando il braccio sinistro in alto e con il pugno della mano ben chiuso. Anticipavano di cinquant'anni l'attuale «passione» filomarxista di molti, troppi prelati altolocati.
Quando nell'aprile '45 pervenne il tracollo militare, il massacro di Dongo, il ludibrio di piazzale Loreto e la carneficina spietata di fascisti o presunti tali, nessuno dei monsignori estensori delle relazioni per la sospensione del sacerdote-direttore di "Crociata Italica" nutrì un po' di pietas almeno latina per impedire che venisse trascinato da Crema al carcere di San Vittore a Milano e poi buttato in piazzale Susa per rabbiosa fucilazione. Troppi non capivano che, come Petrarca, don Calcagno -in politica- seppe scrivere «per ver dire, non per odio d'altrui, né per disprezzo».

Cappellani con gladio, alfieri di fede
Esiste nell'Ordinariato militare per l'Italia la nobiltà morale per gli alfieri della cappa di San Martino ed essa ha in Angelo Roncalli (Papa Giovanni XXIII), Giulio Facibeni (fondatore a Firenze della Madonnina del Grappa, ospitante i perseguitati della RSI), Carlo Gnocchi (realizzatore di Pro Juventute a Milano), Luigi Soverini (officiante a Roma per 20 anni la Santa Messa in latino il 28 aprile in San Marco di Palazzo Venezia) e Giovanni Errani (sacerdote Divisione Etna della RSI) i Cappellani militari benemeriti nella vita religiosa e civile. È dal loro esempio che durante la Repubblica sociale i loro colleghi con i Gladi quale mostrina assolsero alla propria missione con la franchezza e con la sensibilità francescane di cui militari e popolazione avevano la maggiore necessità con senso di misericordia umana.
Il decano dei Cappellani della RSI fu don Angelo Scarpellini, romagnolo, insegnante di lettere a Bologna, giornalista, scrittore. Pubblicò nel 1939 il libro "Augusto nella luce del Vangelo", nel 1942 il volume "Italia della Conciliazione", poi lasciò la cattedra per essere vicino ai soldati e alle loro sofferenze. Don Scarpellini fu assiduo collaboratore di "Crociata Italica" con gli articoli firmati Pier l'Eremita e, in conseguenza di ciò, non ottenne il dovuto inserimento nei ruoli dell'Ordinariato militare per l'Italia dei Cappellani volontari, ma ciò non gli impedì di emergere nel ruolo di Sacerdote-soldato prima nella Brigata Nera «Facchini» e poi nella Brigata Nera Mobile «Pappalardo», comandata quest'ultima dal prof. Pagliani.
Dopo il 25 aprile venne condotto a Coltano e poi, su richiesta di un magistrato di Reggio Emilia, si presentò a quel Tribunale dove venne incarcerato e poi processato per collaborazionismo, condannato a 24 anni di reclusione e poi assolto in Cassazione. Ma nel carcere di Reggio Emilia venne sottoposto dai partigiani a gravi sevizie che gli procurarono sordità totale, timpani rotti, denti spaccati e una frattura al cranio. Quando i partigiani vennero tradotti dinanzi a lui per individuare chi lo aveva martirizzato, pure riconoscendoli, al magistrato che lo invitava ad indicare i responsabili delle sevizie egli rispose: «Non riconosco nessuno!».
Allorché riebbe la libertà, don Scarpellini -sebbene invalido- riprese la sua attività educativa, portò la sua voce in tante conferenze per illuminare gli Italiani sull'ampiezza del sacrificio dei Martiri e dei Caduti della RSI, chiese la Pacificazione che inserisse nella Costituzione della Repubblica del 2 giugno la parificazione dei diritti dei combattenti e dei dipendenti pubblici della RSI a quelli del regno del Sud, nonché di ogni beneficio da ciò derivante e, nel contempo, diede alle stampe "La RSI nelle lettere dei suoi Caduti", pubblicando anche "Fausto Longiano" (1959), "La Pieve di San Giovanni in Compito" (1962), "Don Alessandro Berardi patriota riminese" (1963) e altro ancora, ma nel 1979 Dio lo chiamò a sé.

Dio e Patria, sintesi ideale
Nell'ardente fucina di volontà cristiana e patriottica di "Crociata Italica" si cimentarono molti altri sacerdoti quali padre Blandino della Croce, don Antonio Bruzzesi, Fra' Galdino, padre Egidio del Borgo, il benedettino Ildefonso Trova che, insieme al tenace Fra' Ginepro di Pompeiana, perfezionarono i rispettivi intendimenti religiosi nell'aiuto a tutti i sofferenti della tragedia nazionale. D'altronde, il primo articolo di fondo del n° 1 di "Crociata Italica" era intitolato "Dio e Patria" e in esso don Calcagno specificava: «Siamo cattolici, apostolici, romani, figli devoti e membri vivi dell'unica Santa Chiesa e tali intendiamo restare, con la grazia di Dio, fino alla tomba, nell'eternità della Chiesa trionfante. Siamo repubblicani, perché col tradimento del re, il regno ha cessato di esistere per tutti gli italiani e per tutti gli uomini onesti, e ad esso è succeduto, nel modo più legittimo, la Repubblica Sociale Italiana, sotto la guida di colui che, fino alla vigilia della vergognosa catastrofe, era il Duce universalmente riconosciuto da popoli e governanti, da pontefici e sovrani».
Su questa ispirazione, insieme ai Sacerdoti-Soldato indicati e agli altri novecento che nel tempo 1943-45 assolsero alla missione apostolica i Cappellani volontari della RSI, indirizzò con vigore la propria azione francescana padre Eusebio che già nel giugno 1940 -due giorni dopo l'entrata dell'Italia in guerra- si era arruolato nell'Ordinariato militare seguendo le sorti dei soldati prima tra gli Alpini, distinguendosi in Albania e in Russia, indi nella base atlantica di Bordeaux, fino ad essere catturato dai Tedeschi l'8 settembre ad Antibes. Padre Eusebio, al secolo Sigfrido Zappaterreni e nativo di Montecelio (l'attuale Guidonia), condannò la congiura di Grandi e Bottai, non accettò il tradimento di Vittorio Emanuele III e di Badoglio, ed aderendo alla RSI si fece promotore di tante conferenze per stimolare gli Italiani alla riscossa morale. Assumendo nel 1944 l'incarico di Capo Cappellano militare delle Brigate Nere, padre Eusebio accentuò i suoi incontri e dialoghi con il Duce e in settembre, mentre gli invasori iniziavano a scontrarsi contro la Linea Gotica, Mussolini -nel tratteggiare i problemi connessi ai rapporti fra lo Stato repubblicano e la Chiesa- gli disse: «In vari rapporti si nota una recrudescenza rossa che non preoccupa affatto il clero della Repubblica. Certe connivenze e complicità con i fuorilegge sono sintomi di decadenza morale e prove incontrovertibili di malafede».
Ma il colloquio non era finito. Mussolini continuò: «Ogni settimana Mezzasoma mi fa il rapporto scritto sulla stampa cattolica. Su centinaia di opuscoli, riviste e foglietti parrocchiali non sono mai riuscito a trovare un accenno contro il comunismo. Lo stesso dicasi delle allocuzioni che il clero fa la domenica nelle chiese. Ditemi, cosa significa tutto questo nel momento critico che si attraversa?»
All'uomo liberato da Skorzeny sul Gran Sasso dalla prigionia dei badogliani di allora, il Cappellano capo delle BB.NN. rispose accentuando le sue prediche ai combattenti ed ai cittadini, aperse il suo fervore francescano invocando il dovere delle genti per la difesa della Patria, sollecitò una pace non dolorosa per la Nazione, affinchè i «fioretti» del santo di Assisi maturassero nel cuore degli Italiani l'incitamento alla «perfetta letizia» dopo tante sofferenze. In fedeltà alla Vocazione francescana, alla bandiera tricolore dell'Onore, padre Eusebio coronò di splendore la sua missione di Cappellano della RSI nella primavera '45 quando -in Galleria a Milano- profuse nella sua più ardente allocuzione l'invito ai credenti in Dio e nella Patria a professare virtù di buon frutto per la rinascita della Nazione e per costruire la Civiltà del futuro.

Missioni di apostoli sulle fronti italiane
A fianco di Fra' Ginepro e di Padre Eusebio che svolgevano il loro compito di apostoli del Cattolicesimo oltreché quali «confessori del Duce», anche come missionari di sostegno morale ai combattenti, con uguale coscienza del Verbo cristiano si distinsero sulle fronti della Linea Gotica, sulle Alpi occidentali e sulle doline carsiche, in Istria e nella Dalmazia, quanto sul Baltico e nell'Egeo, i Cappellani volontari della RSI a fianco delle nostre truppe in grigioverde.
Ecco nella Divisione Littorio l'esempio fulgente di Padre Marcello al secolo Primiero Tozzi, che seguì questa Unità militare della RSI dall'addestramento in Germania nel centro di Senne alla difesa della sovranità italiana in Valle d'Aosta, dopo essere stato in precedenza predicatore francescano dei Padri Minori nella Toscana, Tenente Cappellano degli Alpini sulla fronte greco-albanese. Padre Marcello confortò i soldati in grigioverde sulle impervie vette della fronte aostana, seguì i feriti negli ospedali e confortò le famiglie dei Caduti durante e dopo la guerra, anche quando divenne Coadiutore diocesano nella parrocchia di N. S. Gesù Cristo in Lastra a Signa, non mancando mai nei contatti con i «suoi» reduci.
Nel rammentare gli eroismi dei soldati della Littorio su quella fronte nell'inverno 1944-45 padre Marcello scrisse: «Alzatevi, amici, e rimanete in alto. Sulle cime non vi è nebbia, né fango, né mosche».
Le «penne nere» del 4° Rgt. Alpini della RSI avevano già compiuto questo confronto, erano stati eroici nel sacrificio per l'Italia repubblicana. In modo analogo, tra altre «penne nere», altri artiglieri da montagna, genieri e complementari della Divisione Alpina Monterosa si distinse il sacerdote-alpino Luigi Miglio con tutti i cappellani dislocati nei vari reparti, dal campo germanico di addestramento in Münsingen all'offensiva d'inverno nella Garfagnana oppure nei contrattacchi e nelle «sortite» sulle Alpi occidentali, dal Colle della Maddalena al Piccolo S. Bernardo e al Moncenisio, ovunque le truppe alpine diedero prova del loro ardimento sulle vette, ove -sia ben chiaro- Dio ad esse è più vicino.
A fianco della Divisione F. M. San Marco eccelle Padre Candido Carlino, in quella Etna è presente Padre Giovanni Errani, nel Rgt. Paracadutisti Folgore il temerario don Ovidio Zinaghi, mentre con la X Flottiglia Mas oltre a Padre Martinengo quale Cappellano capo si sono distinti don G. Graziani e don A. Castoldi nel Btg. Barbarigo, don B. Folloti nel Btg. Lupo, don R. Pio nei Btgg. NP e Sagittario, don Pettro nel 3° Rgt. Artiglieria e, su a Tarnova, con il Btg. Fulmine, proteso con le altre truppe autonome a difendere l'italianità di Gorizia dall'aggressione del IX Korpus di Tito, non mancava don Casimiro Canepa.

Spirito e coscienza del credo europeo
Questa leggenda di Fede e di eroismo assume più valore proprio mentre il nostro vecchio Continente inizia a potenziare, attraverso la CEE, la propria, nuova prova di unificazione politica, economica e produttiva che la liberi dalla soggezione alla finanza degli USA, nonché dall'influenza vessatoria della plutocrazia anglo-statunitense cui del progresso civile dell'Europa nel Terzo Millennio importa niente.
D'altronde, gli altri non possono capire come sulla Via Crucis dell'Europa di mezzo secolo fa, dove il vessillifero del Credo cattolico e italiano -quale era Fra' Ginepro- si ergeva illuminando con lo splendore del suo Saio la nitidezza del Tricolore repubblicano per la pace del lavoro e per l'equilibrio delle coscienze, si rafforzò il valore etico posto a seme sul solco della Storia nel trascorrere dei millenni per la Civiltà, da quello latino del Diritto al Cristianesimo francescano, dall'Arte rinascimentale alle scoperte della Tecnica, dai moti liberali e socialistici (Bismarck li sostenne nell'800 per l'Europa) all'equilibrio fascista dell'economia produttiva attraverso le conquiste di emancipazione garantite dalla socializzazione.
In questo, il Saio di Fra' Ginepro e degli altri Cappellani Volontari della RSI assume il più eletto valore per lo Spirito e per le Coscienze. Ha consolato le sofferenze di tanti Martiri e di molti Caduti.
È simbolo di Italia, di Europa, significa Civiltà.


Bruno De Padova

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