«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

Inpartibus infidelium
 

Ventiquattro luglio. Tutti in piazza. A Torino, Milano, Firenze, Roma, ma anche in altre metropoli europee. Città divenute teatri di protesta, luoghi di una sfida epica all'inclemenza del caldo. Eroicamente schierati sul patrio suolo, tanti giovani figli di questo sistema hanno compiuto una valorosa testimonianza. Non per la crisi sociale in atto e per rivendicare la sicurezza di un futuro, non per il nodo-occupazione o per il flagello della droga, men che mai per le sanguinose ed ignobili guerre che i popoli vicini portano in tributo al capitalismo mondiale.
Tra i tatuaggi, gli appelli urlati a squarciagola, le suppliche isteriche delle ragazzine accompagnate da mamma e papa, si è levato alto l'unanime appello all'unità. Quella dei Take That, scialba e stucchevole band di bamboletti anglofoni. La notizia che R. Williams non ne volesse far più parte e che il gruppo era oramai in crisi era terribile. Tutto è finito, ma gli ipernutriti adolescenti degli Anni Novanta non si arrendono, e si mobilitano. Avvolti dall'ovatta consumistica, vezzeggiati ed acculturati dalla stupidità televisiva, i protagonisti imberbi di siffatta frivolezza hanno raggiunto l'apoteosi dell'effimero.
Con convinzione naturale.


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È certo, costoro non son davvero i giovani che spararono negli Anni Settanta, non sono i giovani che si ubriacarono di politica e di idee confondendo la verità della vita con la verità di partito. Ciò sarà sicuramente un bene, ma non sapremmo quanto. La constatazione che il «tutto è politica» è finito, non si mette in dubbio. È avvalorata dagli «studiosi», dagli «osservatori», dagli imbonitori televisivi, dai guru culturali e dagli articoli da rotocalco: tutti ad asserire e sottendere che, in fondo, questa società è la migliore tra quelle umanamente realizzabili ed i suoi «valori» non si discutono, non meritano né postille e né repliche. Il guaio è che l'idiozia, anche se sociologizzata, ammorbidita, plasmata dalle locuzioni ricercate e suadenti, rimane sempre idiozia. Le chiacchiere sgangherate ed il look, le pasticche ed il vuoto morale, il disimpegno civile e la paura delle idee e l'ostilità per chi le ha, sono sempre un affastellamento di scelte deprimenti. Comunque la si metta.


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Mentre gli sconclusionati scendevano davanti alle telecamere manifestando il loro dolore, altri avvenimenti, di ben altro tenore, seminavano, come a tutt'oggi accade, inquietudine e lutti in terra d'Europa. È regolarmente riapparso l'incubo di un terrorismo internazionale cieco di fronte ad ogni principio di umanità, e la morte e l'orrore continuano ad accanirsi -senza l'ombra di una promessa concreta di giustizia- sulle popolazioni civili della ex-Jugoslavia.
Forse si è trattato e si tratta di una sorta di nemesi, intrecciata con il grottesco delle banalità; forse è il richiamo spietato del reale, quantunque spettacolarizzato e strumentalizzato; forse, più precisamente, siamo posti dinanzi allo specchio di una decadenza che non ha più definizioni.
Il senso di questa civilizzazione superficiale e malata rimanda sempre il confronto dell'uomo con sé stesso. Alla durezza delle cose affianca un'alternativa preferibile, quella specie di sentimentalismo salottiero così alla moda nella società dei borghesi e dei perbenisti. Alla vocazione di schierarsi, al bisogno di definirsi in termini di scelta di vita cosciente e riconoscibile, la cultura «democratica» sviluppa nel seno della società una «capacità di indignarsi» simile ad un riflesso pavloviano, attivato dall'informazione-spazzatura.
Siamo al grottesco, e non da ora. Le abitudini e le convenzioni, il tran tran della politica partitica espressa dalla presentabilità telegenica, la concezione tribalistica del potere non fanno dell'Uomo un protagonista di sé ma anzi l'allontanano dall'Io.
La farsa distrae, e chiuso lo scenario torna la «tranquillità». Quella così ben rappresentata da tutti quei giovani che non credono, che non si illudono, che assomigliano tanto ai vecchi cinici e stanchi, pur con la faccia da bambini.


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La lezione di quest'ennesima estate si produce appunto nel singolare mix di tragedie e sciocchezze, conferendo all'attualità un sapore indistinto.
E se è vero che con essa devono fare i conti, l'impresa non è facile. La radicalità politica si situa su un itinerario fatto di «gravità», di cose importanti, di passioni e carnalità che non posseggono un terreno comune di scontro con quanto possa discendere dalla società-spettacolo. Ciò che richiama ad un senso sofferto e partecipativo dell'«essere nel mondo» si vede neutralizzato dall'opposto vuoto: vuoto di prospettive e di realtà morali fondanti. Alla tensione politica vera, alla lotta per le idee, la società dominante pone di fronte mode e miti accattivanti e senz'anima. Al compito difficile di cercare e ritrovare sé stessi il sistema offre la gratuità di un'esistenza svirilizzata e disimpegnata. In questi due modi sostanziali dell'essere uomini nel presente si dipartono due stili completamente diversi nel conoscere l'Italia. Mi piace ricordare qui, a tale proposito, la prosa scarna ed efficace di Niccolai, quando ne evocava i contorni storici, il suo patrimonio culturale e spirituale. L'Italia dei Berto Ricci, mistica e prosaica al tempo stesso, schiettamente capace di fondere passionalità ed ingegno, pronta a costruire ed a combattere, in grado di dare corpo all'identità di pensiero ed azione.


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Oggi come oggi questa alterità ci colloca in partibus infidelium, senza appello e per forza. L'orizzonte visivo rimane gestito dai vari Costanzo, Santoro, Prodi e via discorrendo, Take That compresi: sagome di fantasmi, senza idee e senza vita.


Roberto Platania

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