Inpartibus infidelium
Ventiquattro luglio. Tutti in piazza. A Torino,
Milano, Firenze, Roma, ma anche in altre metropoli europee. Città divenute
teatri di protesta, luoghi di una sfida epica all'inclemenza del caldo.
Eroicamente schierati sul patrio suolo, tanti giovani figli di questo sistema
hanno compiuto una valorosa testimonianza. Non per la crisi sociale in atto e
per rivendicare la sicurezza di un futuro, non per il nodo-occupazione o per il
flagello della droga, men che mai per le sanguinose ed ignobili guerre che i
popoli vicini portano in tributo al capitalismo mondiale.
Tra i tatuaggi, gli appelli urlati a squarciagola, le suppliche isteriche delle
ragazzine accompagnate da mamma e papa, si è levato alto l'unanime appello
all'unità. Quella dei Take That, scialba e stucchevole band di bamboletti
anglofoni. La notizia che R. Williams non ne volesse far più parte e che il
gruppo era oramai in crisi era terribile. Tutto è finito, ma gli ipernutriti
adolescenti degli Anni Novanta non si arrendono, e si mobilitano. Avvolti
dall'ovatta consumistica, vezzeggiati ed acculturati dalla stupidità televisiva,
i protagonisti imberbi di siffatta frivolezza hanno raggiunto l'apoteosi
dell'effimero.
Con convinzione naturale.
* * *
È certo, costoro non son davvero i giovani che spararono negli Anni Settanta,
non sono i giovani che si ubriacarono di politica e di idee confondendo la
verità della vita con la verità di partito. Ciò sarà sicuramente un bene, ma non
sapremmo quanto. La constatazione che il «tutto è politica» è finito, non si
mette in dubbio. È avvalorata dagli «studiosi», dagli «osservatori», dagli
imbonitori televisivi, dai guru culturali e dagli articoli da rotocalco: tutti
ad asserire e sottendere che, in fondo, questa società è la migliore tra quelle
umanamente realizzabili ed i suoi «valori» non si discutono, non meritano né
postille e né repliche. Il guaio è che l'idiozia, anche se sociologizzata,
ammorbidita, plasmata dalle locuzioni ricercate e suadenti, rimane sempre
idiozia. Le chiacchiere sgangherate ed il look, le pasticche ed il vuoto morale,
il disimpegno civile e la paura delle idee e l'ostilità per chi le ha, sono
sempre un affastellamento di scelte deprimenti. Comunque la si metta.
* * *
Mentre gli sconclusionati scendevano davanti alle telecamere manifestando il
loro dolore, altri avvenimenti, di ben altro tenore, seminavano, come a tutt'oggi
accade, inquietudine e lutti in terra d'Europa. È regolarmente riapparso
l'incubo di un terrorismo internazionale cieco di fronte ad ogni principio di
umanità, e la morte e l'orrore continuano ad accanirsi -senza l'ombra di una
promessa concreta di giustizia- sulle popolazioni civili della ex-Jugoslavia.
Forse si è trattato e si tratta di una sorta di nemesi, intrecciata con il
grottesco delle banalità; forse è il richiamo spietato del reale, quantunque
spettacolarizzato e strumentalizzato; forse, più precisamente, siamo posti
dinanzi allo specchio di una decadenza che non ha più definizioni.
Il senso di questa civilizzazione superficiale e malata rimanda sempre il
confronto dell'uomo con sé stesso. Alla durezza delle cose affianca
un'alternativa preferibile, quella specie di sentimentalismo salottiero così
alla moda nella società dei borghesi e dei perbenisti. Alla vocazione di
schierarsi, al bisogno di definirsi in termini di scelta di vita cosciente e
riconoscibile, la cultura «democratica» sviluppa nel seno della società una
«capacità di indignarsi» simile ad un riflesso pavloviano, attivato
dall'informazione-spazzatura.
Siamo al grottesco, e non da ora. Le abitudini e le convenzioni, il tran tran
della politica partitica espressa dalla presentabilità telegenica, la concezione
tribalistica del potere non fanno dell'Uomo un protagonista di sé ma anzi
l'allontanano dall'Io.
La farsa distrae, e chiuso lo scenario torna la «tranquillità». Quella così ben
rappresentata da tutti quei giovani che non credono, che non si illudono, che
assomigliano tanto ai vecchi cinici e stanchi, pur con la faccia da bambini.
* * *
La lezione di quest'ennesima estate si produce appunto nel singolare mix di
tragedie e sciocchezze, conferendo all'attualità un sapore indistinto.
E se è vero che con essa devono fare i conti, l'impresa non è facile. La
radicalità politica si situa su un itinerario fatto di «gravità», di cose
importanti, di passioni e carnalità che non posseggono un terreno comune di
scontro con quanto possa discendere dalla società-spettacolo. Ciò che richiama
ad un senso sofferto e partecipativo dell'«essere nel mondo» si vede
neutralizzato dall'opposto vuoto: vuoto di prospettive e di realtà morali
fondanti. Alla tensione politica vera, alla lotta per le idee, la società
dominante pone di fronte mode e miti accattivanti e senz'anima. Al compito
difficile di cercare e ritrovare sé stessi il sistema offre la gratuità di
un'esistenza svirilizzata e disimpegnata. In questi due modi sostanziali
dell'essere uomini nel presente si dipartono due stili completamente diversi nel
conoscere l'Italia. Mi piace ricordare qui, a tale proposito, la prosa scarna ed
efficace di Niccolai, quando ne evocava i contorni storici, il suo patrimonio
culturale e spirituale. L'Italia dei Berto Ricci, mistica e prosaica al tempo
stesso, schiettamente capace di fondere passionalità ed ingegno, pronta a
costruire ed a combattere, in grado di dare corpo all'identità di pensiero ed
azione.
* * *
Oggi come oggi questa alterità ci colloca in partibus infidelium, senza
appello e per forza. L'orizzonte visivo rimane gestito dai vari Costanzo,
Santoro, Prodi e via discorrendo, Take That compresi: sagome di fantasmi, senza
idee e senza vita.
Roberto Platania
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