«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 5 - 15 Settembre 1995

 

Urto di idee e nessuna rinuncia


Malcontento e irritazione serpeggiano. Sensazioni palpabili, ruvide, a fior di pelle. I visi esprimono voglia di ribellione. Ormai è una sorta di febbre che, se non esplode, può portare alla completa consunzione determinando la definitiva degenerazione di ogni energia vitale e intellettuale. Le poche azioni che si sviluppano, ai giorni nostri, sono limitate e circoscritte ai bisogni del ventre per la cui soddisfazione vengono svolte contese nel segno della corruzione e del compromesso. Controllori, sempre gli stessi: i professionisti della politica, gli speculatori, i grandi gruppi economici, i banchieri, gli industriali, i giornalisti sedicenti intellettuali. Tutti insieme, favorendo gli egoismi e i parassitismi, danno alle turbe l'illusione di un fugace benessere.
Siamo diventati spettatori imbastarditi, inariditi, e assistiamo inerti al formarsi delle nuove classi negli apparati che gravitano intorno allo stato e nello stato stesso. Classi che, anziché investire la somma delle varie utilità personali per la collettività, utilizzano il massimo delle utilità della collettività per soddisfare gli egoismi delle grosse concentrazioni economico-finanziarie. Non possiamo rimanere passivi. Ognuno di noi deve farsi interprete della rabbia che cova, agitare gli animi, educare (sì, educare!) gli interlocutori a credere in sé stessi; incitarli a dimostrare disprezzo, apertamente, in ogni occasione, contro la classe politica -vecchia o nuova che sia- che da troppi anni travalica i limiti di ogni sopportazione. Questo non è qualunquismo. È qualcosa di più scopertamente serio e fattibile: vogliamo indurre gli umili ad inverare nel loro pensiero e nel loro operare, il religioso ardore della volontà di redenzione. Quando ci si lamenta della perdita dei valori, dello smarrimento della morale, della disfatta di ogni volontà, vuoi dire che c'è, latente, una forte esigenza di ribellione. Non possiamo continuare a vivere come individui tenuti insieme dalla viltà, dalla rinuncia, dall'obbedienza senza fede, dalla solidarietà senza altruismo, ondeggiando in un mondo informe che frantuma ogni coerenza. Non è con il compromesso che si può arrestare l'infermità spirituale che ci affligge, ma con una energica riaffermazione dei motivi intellettuali della vita sui motivi vitali. Per riacquistare la dignità della parola data e la dignità del pensiero quale esso sia.
Anzi, è tempo che tornino a sventolare bandiere rosse e bandiere nere; le bandiere dei sognatori, degli illusi, degli oppressi, dei doloranti abbandonati a sé stessi dopo essere stati strumentalizzati per lunghi anni da una classe politica e sindacale il cui scopo era raggiungere la pace borghese e l'abbraccio affettuoso dei potentati industriali e finanziari.
Tornino a sventolare quelle bandiere. Con le stesse passioni e gli stessi entusiasmi di ieri ma, questa volta, con la ferma volontà di dissodare il campo delle conquiste sociali; per rovesciare le alte dighe dell'egoismo; per elevarsi materialmente subordinandosi alla morale; per la socializzazione dei mezzi di produzione, concepita come avviamento alla perfezione; per l'emancipazione dal giogo capitalistico intesa come tappa verso la redenzione etica.
Non è un sogno impossibile. I reietti, soprattutto la nostra gente del Meridione, dove le intelligenze vengono conculcate e oppresse dallo strapotere politico-clientelare, conoscono il marchio della sofferenza, l'umiliazione della schiavitù, l'avvilimento del ricatto, la genuflessione all'arroganza dell'autorità. Ma conoscono anche il colore del sangue che hanno versato e, se lo conoscono, sappiano che quello di coloro che li tengono in soggezione non è diverso.
È questo il nostro tempo. Ed è tempo che gli umili trovino la forza di risalire per fare dell'anima un piedistallo.

a.c.

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